Voglia di vincere

Filippo Inzaghi, da allenatore, è rimasto fedele a un concetto: la feroce applicazione nel lavoro. Raggiungendo subito un traguardo: la B con il Venezia.

L’uomo che pensava costantemente al gol oggi pensa continuamente a vincere. Alla sua vecchia ossessione, che amava definire «un’emozione allo stato puro», Filippo Inzaghi ha dedicato in carriera 316 momenti. Molti di questi sono serviti a vincere Champions (due), scudetti (tre), Mondiali (uno), una classifica capocannonieri di Serie A. La nuova, di ossessione, ricalca la precedente nello spirito, nella feroce applicazione, nell’estrema cura dei dettagli. Nei risultati: che il successo sia rimasto attaccato alla pelle di Inzaghi lo dice il campionato di Lega Pro vinto alla guida del Venezia, che la prossima stagione tornerà in Serie B dopo 12 anni di assenza. Pochi giorni dopo, ha trionfato anche nella Coppa Italia di categoria. «I risultati alla lunga arrivano» è il suo mantra. Misura le parole, ma con uno slancio orgoglioso per quanto realizzato: «Dalla Serie D alla Serie B. Una cosa così non accadeva da 60 anni». Conosce statistiche. Conosce nomi e numeri. Tacopina al Venezia lo ha voluto fortemente, e quando l’ha incontrato è rimasto impressionato dal fatto che conoscesse tutti i giocatori di Lega Pro. Inzaghi ha voluto Venezia perché, dice, è stata l’unica società a non chiedergli un colloquio, una chiacchierata, una conoscenza preliminare. Gli hanno domandato, semplicemente, «vuoi allenare il Venezia?». Lui ha detto sì, anche se le offerte da categorie superiori, o dalla ricca Cina, non mancavano. Allenare in Lega Pro, però, non è stato vissuto come un declassamento. Vincere in Lega Pro, non una rivincita. Nella testa di Filippo Inzaghi sono sovrastrutture che non trovano terreno fertile: «Mai avrei pensato che un’esperienza come quella di quest’anno potesse darmi delle gioie così incredibili».

Filippo Inzaghi parla mentre, alle sue spalle, il mare di Jesolo si increspa. L’estate è ancora lontana, gli sparuti schiamazzi sono ovattati. Se Inzaghi è qui, a pochi metri dalla spiaggia, in un pomeriggio timidamente assolato di maggio, è perché il suo Venezia ha vinto il campionato con largo anticipo, precedendo di dieci punti in classifica il Parma secondo. «Abbiamo fatto un’impresa incredibile, e non c’era nulla di scontato… La società è stata brava nel mettermi a disposizione una rosa all’altezza, ma c’erano squadre come Parma, Padova, Pordenone, Reggiana, squadre che sulla carta erano forti come noi». Evitati i lunghi, snervanti, infidi spareggi post campionato. Non c’è stato bisogno di attivare il playoff mode, per dirla con LeBron James, il momento in cui, entrati nella fase cruciale della stagione, le distrazioni devono essere bandite: tutte le ore della giornata devono essere calibrate e predisposte in funzione della vittoria. Il culto della vittoria, verrebbe da dire. Ecco, Filippo Inzaghi è così: con la differenza che il suo personale playoff mode comincia a inizio luglio e si prolunga fino ad aprile, a maggio, anche oltre, se necessario. È il trait d’union che lega la sua carriera da calciatore a quella da allenatore: una continuità espressa non solo dal tempo – poche settimane dopo il ritiro dai campi, ha cominciato ad allenare gli Allievi del Milan – ma anche dalla filosofia che guida il suo lavoro.

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Solo chi vince sa che non è così facile riuscirci. Basta il minimo errore per compromettere tutto. In quel «non c’era nulla di scontato» Inzaghi fotografa l’essenza della vittoria: è mutevole e sfuggente. Ripudia chi non ci mette la dovuta attenzione. Inzaghi sa che il suo lavoro a Venezia non è finito, che nella mente e nei desideri della società c’è innanzitutto il ritorno in Serie A. Ma sa anche che quel ritorno va costruito dalle fondamenta: «Dobbiamo strutturarci per la Serie B, dobbiamo migliorare in certe aree, bisogna rafforzare la rosa. Sono cose di cui dovrò parlare con il presidente. Se avremo le stesse idee, andremo avanti insieme». Ha capito che in una società ogni componente deve funzionare al meglio per creare i presupposti della vittoria: sostenere l’idea di un deus ex machina in grado di procacciare trofei, in totale autonomia, è grossolano. La stagione alla guida del Milan è servita anche a rendersene conto. Superpippo aveva da poco vinto il Torneo di Viareggio con la Primavera rossonera: impossibile dire di no alla squadra in cui aveva militato per undici stagioni. Quel campionato finì con un deludente decimo posto, e l’esperienza si chiuse lì. Ma il desiderio di vincere di Filippo Inzaghi va più veloce delle delusioni. Ecco perché Venezia non ha rappresentato una rivincita. Al più, una catarsi. L’occasione per rispolverare l’abitudine ad alzare trofei.

 

Ⓤ È più divertente fare l’allenatore o il calciatore?

Fare il giocatore era sicuramente più facile, perché dipendevo solo da me: sapevo come mi comportavo, come mangiavo, per questo facevo fatica a sbagliare le partite. Da allenatore è molto più complicato: tutti i giorni devi essere credibile, devi cercare di avere una parola per tutti, per chi gioca e per chi invece vede meno il campo. Però quando si raggiungono gli obiettivi è molto gratificante, forse anche di più rispetto a quando sei un calciatore.

Ⓤ Tra il ritiro da calciatore nel 2012, a 38 anni, e la prima esperienza da allenatore, negli Allievi del Milan, sono passate solo poche settimane.

 Questo mondo è la mia vita, sapevo che dovevo rimanerci. Il Milan mi aveva dato la possibilità di allenare gli Allievi, è partito tutto da lì. Diciamo che mio fratello Simone è stato molto importante in questa scelta: allenava già da tre anni le giovanili della Lazio, e lo vedevo molto felice, gratificato dalle emozioni che gli trasmettevano i ragazzi. Perciò mi son detto: perché non ci provo anch’io?

Ⓤ Filippo con il Venezia, Simone con la Lazio. Difficile dire chi abbia vinto il derby di famiglia tra allenatori.

È stata un’annata bellissima per entrambi, anche se il compito di Simone era sicuramente più difficile del mio, perché aveva ereditato una situazione molto più complicata. Penso che quest’anno abbia raggiunto la sua consacrazione e sia diventato uno dei migliori allenatori d’Italia. Ha eliminato la Roma in Coppa Italia, vinto un derby in campionato. Battere i giallorossi, di un’altra categoria per la rosa che hanno, è stato un piccolo capolavoro.

Ⓤ E raggiungere la Serie B con il Venezia lo è stato?

A inizio anno era molto complicato. Questa era una squadra che veniva dalla Serie D, c’erano tante formazioni che sulla carta erano forti quanto noi. Niente era scontato. Alla fine abbiamo fatto un’impresa incredibile: non solo abbiamo vinto, ma abbiamo stradominato. Abbiamo reso semplice una cosa molto complicata. In più abbiamo conquistato la Coppa Italia di Lega Pro, che di solito è un trofeo poco considerato. Invece noi abbiamo giocato alla morte anche in quella competizione.

Ⓤ C’è la sua mano, in questa voglia di vincere tutto, e a tutti i costi.

Sono stato fortunato da questo punto di vista, avendo 24 giocatori bravi. A chi giocava meno in campionato ho dato fiducia in Coppa Italia. Mi sono reso conto che più si andava avanti più i ragazzi ci credevano. Quando cominci a vincere, se aggiungi trofei su trofei, il risalto diventa maggiore: per i giocatori, per il Venezia, per me. Si è parlato di noi più dopo la vittoria della Coppa Italia che dopo la promozione in B, anche se come paragone d’importanza non c’è storia. È il fatto di aver conquistato entrambi gli obiettivi a essere straordinario.

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Ⓤ Qual è il messaggio più importante che ha trasmesso ai giocatori?

Fare tutto quello che la nostra professione impone di fare. Allenarsi bene, mangiare bene, dormire, fare una vita da atleta. Se segui queste linee guida, alla lunga il destino ti dà una mano. E poi essere ambiziosi. Questa squadra lo è diventata col tempo: ora vedo che iniziano ad assaporare il gusto della vittoria, dei trofei, e questo è bello, mi piace averglielo trasmesso, perché io ero così quando giocavo.

Ⓤ Una squadra a immagine e somiglianza di Filippo Inzaghi.

Non posso pretendere che i giocatori siano come me, io ero un po’ fin troppo martello. Però mi fa piacere vedere la passione che hanno avuto, l’attaccamento alla maglia, il fatto di aver seguito me e il mio staff dal primo giorno. Mi auguro che siano dei bravi professionisti: siamo fortunati ad avere una vita del genere, questo cerco di farglielo capire tutti i giorni.

Ⓤ Anche nel privato?

All’inizio stavo attento, poi ho capito di avere a che fare con uomini veri e ho smesso di controllarli, perché mi fidavo del loro comportamento.

Ⓤ E il suo, di approccio al calcio? Lo stesso di quando era calciatore?

Uguale…

Ⓤ Quindi le notti in bianco, divorato dall’ansia, non sono finite.

Da allenatore capita di non dormire spesso, non solo il giorno prima della partita. In settimana hai dubbi su chi far giocare, un giorno ti svegli con una formazione in testa, poi vai al campo e la cambi per due, tre undicesimi. Hai dubbi continui, è normale averli.

 

Se Joe Tacopina ha deciso di investire a Venezia perché ben consapevole del potenziale comunicativo della città della Laguna, la scelta di Filippo Inzaghi allenatore segue, almeno in parte, lo stesso ragionamento. Superpippo è ancora, a distanza di cinque anni dal ritiro, un ambasciatore del calcio, uno dei suoi figli più noti e celebrati. Accostare l’immagine vincente di Inzaghi a un club che fa dell’ambizione e della voglia di tornare a grandi livelli il suo tratto distintivo è un’operazione perfetta. L’attrattiva esercitata da Inzaghi è stupefacente: tutta Venezia ribolliva al suo arrivo e, come un santo in processione, la sua mistica ha contagiato ogni città, ogni stadio visitato.

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Al Penzo, quando entra in campo, la gente si accalca contro le inferriate delle tribune. I più piccoli lo richiamano a gran voce, i più cresciuti provano a catturarlo in foto. Inzaghi passa molto tempo in campo, anche prima della partita. I dettagli, ancora. Non è uno abituato a sorvolare sulle cose, anche le minime. Il riscaldamento, per esempio, è un’ottima occasione per mantenere alta la concentrazione dei giocatori. Stare costantemente “dentro la partita”: Inzaghi era così da calciatore, anche quando sembrava prendersi qualche pausa. Da allenatore, continua a esserlo: è emotivamente coinvolto durante le gare, scatta sulle punte, sembra quasi debba mettersi a inseguire un pallone. Mette in mostra una gestualità furibonda. Ma non è una “molla” per la squadra, assicura: lui è fatto proprio così.

 

Ⓤ È ammaliante il suo modo di essere partecipe, anche dalla panchina.

Questo è il mio carattere. Non copio nessuno, gli allenatori devono essere loro stessi. Non tutti gli allenatori seguono il riscaldamento, io ci vado perché non riesco a stare negli spogliatoi, preferisco guardare i miei giocatori, parlargli. Mi piace vivere il riscaldamento come quando giocavo. Poi in panchina cerco di dare la giusta carica, ma devo cercare di rimanere lucido.

Ⓤ Non ha copiato nessuno, ma almeno qualcosa l’ha rubata negli anni a qualche allenatore?

È chiaro che Ancelotti è stato molto importante per me, l’ho avuto per più di dieci anni. Ma ho cercato di apprendere da tutti gli allenatori che ho avuto: credo che il pregio principale per un allenatore sia essere leale e credibile. Se non lo sei, perdi la fiducia dei giocatori e i risultati non arrivano. Conta anche l’onestà: quando fai l’allenatore devi avere il coraggio di dire le cose in faccia, di non ricorrere a sotterfugi. Sono cose che i calciatori apprezzano.

Ⓤ Dalla stagione da allenatore al Milan a oggi è cambiato qualcosa?

Non è cambiato niente, vado avanti per la mia strada, con le mie convinzioni. Chiaro che un allenatore impara ogni giorno, io imparerò anche quando avrò 60, 70 anni. Quando avverto grande fiducia nelle mie qualità, di solito i risultati arrivano.

Ⓤ Al Milan mancava questa fiducia?

No, c’era. Il Milan mi ha dato una grande possibilità, quella di allenare a 40 anni la squadra dove ho vinto tutto. Non è andata bene, ma di questi tempi al Milan non è andata bene a nessuno. Quella stagione non ha intaccato le mie convinzioni, anzi, devo dire che le ha rafforzate. Tutto quello che è successo mi è servito.

Ⓤ Sbagliato mandarla via dopo un solo anno?

Non lo so, magari avrei continuato a fare male (sogghigna, nda). Forse è stato meglio così, non lo so. Sinceramente non mi pongo questo problema. Io vado avanti per la mia strada e basta.

Ⓤ Oggi il Milan ha un’altra proprietà.

Quello che hanno fatto Berlusconi e Galliani per il Milan rimarrà nella storia. Per il bene che voglio al Milan e ai suoi tifosi mi auguro che questa proprietà riporti la squadra ai fasti di un tempo. Il tifoso del Milan è un tifoso passionale, ha bisogno di primeggiare.

Ⓤ Un’immagine di Berlusconi indelebile nella memoria.

La cosa più bella che ricordo fu prima della finale di Champions di Atene, contro il Liverpool. Stavamo mangiando a Milanello e mi vennero a chiamare, perché il presidente era al telefono. Mi disse: “Devi promettermi che farai gol”. Gli risposi “speriamo, non è facile”. Diciamo che quella telefonata fu di buon auspicio, me la ricordo come se fosse ieri.

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Ne arrivarono due, di gol. Uno per tempo, cancellando il ricordo della serata da incubo di Istanbul di due anni prima. Della prima, di rete, si è letto spesso «deviazione fortunosa». Nulla di più sbagliato. Mentre Pirlo sta per calciare la punizione, Inzaghi fa qualche passo in avanti per staccarsi dalla barriera, accelerando brevemente la corsa mentre il tiro parte. Se il pallone coglie proprio lui, e finisce in fondo alla rete dalla parte opposta a quella verso cui si era tuffato Reina, un motivo c’è. Sta in quel campo magnetico che Superpippo creava con i suoi movimenti, con il suo senso della posizione, con la sua semplice ma mai banale presenza. Ecco perché quella deviazione, solo apparentemente fortunosa, capitò non solo in quella sera di Atene, ma più di una volta, persino in un derby contro l’Inter. Inzaghi lo ribattezzò scherzosamente «uno schema», ma la verità è che, con lui di mezzo, il pallone seguiva traiettorie non convenzionali, sfidava le leggi della fisica, si attorcigliava in rimbalzi irregolari solamente perché, alla fine, potesse essere spinto in rete. Un potere soprannaturale che Emiliano Mondonico, che a Bergamo lo guidò nella vittoria della classifica capocannonieri di Serie A a 23 anni, ha brillantemente inquadrato in un’espressione diventata massima: «Non è Inzaghi a essere innamorato del gol, è il gol a essere innamorato di Inzaghi».

 

Ⓤ Atene. Il punto più alto della carriera?

Sì. Sì, sì. Non mi è mai capitato di non dormire per dieci notti di fila. Ho pensato che fosse tutto un sogno. Ho fatto più di 300 gol in carriera, ma se non segni in partite come quelle… Poi quell’anno fu meraviglioso, perché oltre ai due gol di Atene segnai a Montecarlo in Supercoppa europea e due volte a Yokohama nella Coppa del mondo per club. Cinque gol in tre finali. Nessuno ci è riuscito, né Messi né Ronaldo. Cruijff e Rijkaard si sono fermati a quattro (le statistiche, i numeri, rieccoli, nda). È qualcosa che mi rende orgoglioso: a 34 anni poi, a un’età in cui, a volte, si è già smesso di giocare.

Ⓤ Quella Champions ha riempito un vuoto?

Paradossalmente nel 2003 fui più decisivo che nel 2007. Nel 2003 feci 12 gol, ma non segnai in semifinale e finale. Di quella Champions si ricorda il mio gol contro l’Ajax, ma non fu mio, segnò Tomasson. Però fui veramente decisivo dal preliminare alla semifinale. Nel 2007 segnai invece sei gol, la metà di quelli realizzati quattro anni prima. Ma sono le reti nelle partite decisive a essere ricordate.

Ⓤ Decisivi o no, fanno 316 gol. Caspita. Il famoso fiuto del gol di Filippo Inzaghi.

Quella è una qualità innata. Non si può spiegare a nessuno, neanche ai miei attaccanti. Uno degli allenatori che ho avuto da giovane, Cagni, ha sempre detto che la mia forza è stata avere i tempi di gioco. Ho sempre avuto questa caratteristica, la percezione dello spazio, il sapersi muovere senza palla. E questa è veramente una cosa naturale. Poi ci ho messo del mio: la dedizione, il migliorarmi a ogni allenamento, il mangiare bene, il dormire.

Ⓤ Montella ha detto: la tenacia ha fatto di Inzaghi un grande calciatore, e ne farà un grande allenatore.

Speriamo. Io penso che bisogna fare il proprio lavoro sempre nel migliore dei modi, credendoci, non lasciando niente di intentato. Io ero così: arrivavo alla partita senza rimpianti, sapendo di averla preparata al meglio. Alla lunga i risultati ti premiano. Questa è la mia filosofia. Da allenatore, da giocatore, sarò sempre così.

Ⓤ La stessa tenacia di non mollare a 38 anni, dopo un grave infortunio.

Faccio due gol al Real Madrid, supero Raúl in una serata incredibile, e dopo una settimana mi rompo il crociato. Questo è il bello e il brutto della vita. Io mi feci una promessa: anche se avevo 38 anni, non poteva finire così. Dovevo tornare a San Siro, segnare nell’ultima partita. Il destino mi ha dato pure questo, all’ultima di campionato contro il Novara, all’ultimo tiro in porta. Era il momento giusto per smettere, anche se non è stato facile. Nella vita, se credi nel tuo lavoro, alla fine vieni premiato. Il destino mi ha dato tutto quello che mi doveva dare, per questo mi reputo un uomo fortunato.

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Ⓤ Senza dimenticare che in bacheca ci sarebbe pure un Mondiale. E che Inzaghi, pur giocando pochissimo, ha segnato pure un gol. Ma, a proposito, un attaccante deve essere egoista?

Tutti i centravanti sono un po’ egoisti di natura. Sicuramente non potevo essere un numero dieci (ride, nda). Però ricordo che nel Mondiale del 1998 feci segnare Baggio, e nessuno lo ricorda. A volte dipende dalla posizione, o magari non vedi i compagni, oppure ancora sei convinto di metterla dentro: l’importante alla fine è fare gol. Io Barone lo vidi, ma ero sicuro al cento per cento di segnare. E poi ero centrale, non ero defilato.

Ⓤ Di quel Mondiale cosa ricorda?

Ho avuto la fortuna di giocare tre Mondiali e penso che abbiamo vinto nell’anno in cui non eravamo i più forti. Nel 2002 eravamo la squadra migliore: in attacco avremmo dovuto giocare Totti-Vieri-Inzaghi, un tridente incredibile, però io mi feci male prima della prima partita. Nel 2006, anche se non eravamo tra i favoriti, siamo stati squadra, dal primo giorno si era creata una grande mentalità.

Ⓤ Rimpianti?

No. Rifarei tutto. Due Champions, un Mondiale, scudetti, oltre 300 gol. Più di così…

Ⓤ Sente di dover ripetere i traguardi da calciatore anche da allenatore?

Sinceramente no. È chiaro che chi fa il nostro lavoro deve sempre pensare ad ambire. Però mai avrei pensato che un’esperienza come quella di quest’anno mi avrebbe dato delle gioie così. Mi auguro di poterle rivivere, non so a che livello, a che categoria. Vorrei togliermi delle soddisfazioni come in questa stagione. Farò l’allenatore per tanto tempo, se il cuore regge (ride, nda). Questa è la mia strada, la mia vita. Mi piace farlo, è complicato ma anche molto emozionante.

 

 

Tratto dal numero 16 di Undici. Fotografie di Andy Massaccesi