L’arte della sconfitta

Nel libro Brilliant Orange, David Winner usa il calcio per comprendere l'anima olandese, e anche viceversa.

«Il calcio totale era caratterizzato da una spiccata predisposizione alla democrazia. Si presentava come la declinazione più cosmopolita e creativa di quello sport, un equilibrio perfetto tra responsabilità collettiva, uguaglianza e individualismo, un sistema che consentiva a ogni giocatore di eccellere ed esprimersi. Il rovescio della medaglia era che la disciplina e la coesione interna erano sempre precarie».

Ajax, anni Trenta: «[…] La squadra dichiarò i propri obiettivi e la propria estetica con una breve poesia: “Gioco aperto, gioco aperto / non puoi permetterti di trascurare le ali”». Siamo a pagina 20 del saggio di David Winner e già mi emoziono un po’ come davanti a un’illuminazione. Un’idea, un certo modo di pensare al gioco del calcio, una dichiarazione di intenti tendente alla bellezza era già scritta, quarant’anni prima del calcio totale. L’Olanda aveva un destino segnato dalla bellezza e, come vedremo, da un mucchio di altre cose, in pratica da sempre.

David Winner, in Brilliant Orange, parte dal calcio, da quel modo di intenderlo e di pensarlo per raccontate un Paese, dimostra come il “totale” prima ancora di essere applicato al calcio, in Olanda, è applicato a tutto e poi fa una grande lezione sulla necessità dello spazio, della sua costante ricerca, della capacità di saperlo trovare dove altri non lo vedono. Winner scrive un libro che parte dal pallone, ma ci dà alcune importanti lezioni di architettura, di democrazia, di bellezza, di accoglienza, di coralità e di uomini fuori dal coro, di arroganza e di arte.

Dutch midfielder Johann Cruyff dribbles

«”Cruijff per noi era una sorta di modello come forse lo era John Lennon in Inghilterra”, spiega Karel Gabler. “Aveva un modo di pensare quello che rispecchiava quello di tutta la nostra generazione. Capì che poteva guadagnare bene, ma anche che la sua carriera poteva finire. Sapeva di possedere un talento per il quale la gente era disposta a pagare e passare intere ore a discutere – sono famose le sue parole: “Quando la mia carriera finirà, non potrò andare dal panettiere e dire: Sono Johan Cruijff, dammi del pane”».

Cruijff è, per forza di cose, il fulcro di questo libro, chi lo ha visto giocare non lo ha dimenticato, e chi non lo ha visto perché nato dopo non ha fatto altro che perdersi appresso ai suoi gol su Youtube; ai suoi scatti, alle sue finte, le sue inversioni di marcia. Cruijff che sapeva trovare lo spazio dove gli altri non lo vedevano, che sapeva anticipare le mosse del compagno a cui sarebbe dovuto andare non il primo passaggio ma il terzo. Fino a tre mosse dopo come per gli scacchi. Così pensava Cruijff, così pensava Rinus Michels, così giocarono l’Ajax e poi l’Olanda tra la fine degli anni sessanta e il 1978. L’Olanda della fitta rete di passaggi, dei difensori che impostavano, degli Haan, dei Krol, del giocatore che torna indietro dall’attacco per lasciare spazio al terzino, del centrocampista che arriva da dietro e trova lo spazio per attaccare l’area di rigore; passaggi fitti, cross tagliati, piedi finissimi. Classe e talento, disciplina e anarchia. Democrazia e dittatura, queste due parole riconducibili a Cruijff che diceva a tutti quanto fosse importante cercare il compagno, giocare insieme, ma che poi faceva quello che più gli pareva, Cruijff che in campo massacrava tutti di continuo: «Tu fai questo, tu vai qua, tu scala, tu torna, più vicino, più lontano». E lo faceva da quando aveva diciott’anni.

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Secondo Winner la ricerca e il controllo dello spazio sono cose naturali per gli olandesi, sono stati costretti a cercarle da sempre per la particolare conformazione del territorio; l’acqua che copre e sottrae, lo spazio da trovare, perciò quell’Ajax quel tipo di gioco ce lo aveva nel Dna, per questo molti calciatori di quegli anni dichiarano che«tutto veniva naturale», c’era lo schema ma c’era la predisposizione. L’architetto Herman Hertzberger, uno strutturalista, circa i suoi studi sugli edifici flessibili dice: «Ogni forma deve essere interpretabile, ossia deve essere in grado di rivestire diversi ruoli. E può rivestirli solo a condizione che i diversi significati siano contenuti nell’essenza della forma». Dichiarazione che avrebbe potuto fare Cruijff, tranquillamente. La flessibilità è una parola chiave se si vuol capire il calcio totale. Per la prima volta i ruoli diventavano interscambiabili, come le zone di campo, il campo ricominciava dove per gli altri finiva, tanta bellezza.

Altre due importanti citazioni dal libro, la prima è di Ruud Krol: «Quando difendevamo, le distanze tra di noi dovevano essere molto ridotte. Quando attaccavamo, ci allargavamo e usavamo le fasce. Il nostro sistema era anche una soluzione a un problema di natura fisica. […] se io che sono terzino sinistro, corro per settanta metri sulla fascia, non va bene che debba tornare indietro per alti settanta metri alla mia posizione iniziale immediatamente. Perciò, se il mio posto viene preso dall’interno sinistro, e l’ala sinistra retrocede a coprire la sua posizione a centrocampo, allora le distanze si accorciano. […]. Questa era la filosofia». E una del professor Michiel Schwartz: «I Paesi Bassi sono un paese progettato ad arte che prospera grazie a una libertà progettata ad arte, culturale e personale».

Krol e Schwartz vedono le cose alla stessa maniera, per questo sembra facile, per questo fu facile. Tutti, tra la fine degli anni Sessanta e il 1980 (circa) hanno guardato all’Olanda come modello culturale, sociale e calcistico. Cruijff famoso come Lennon, filosofo come Spinoza (c’è una famosa battuta olandese su questo). L’Ajax dominò vincendo tre Coppe dei Campioni consecutive, gol bellissimi e tantissimi; l’Ajax che con qualche inserimento soprattutto da parte di calciatori del Feyenoord andò a dare spettacolo ai Mondiali del 1974 in Germania. Il dramma collettivo mai superato, la sconfitta che nessun olandese ha mai cancellato.

«Il 1974 fu davvero un anno doloroso per tutti», dice la psicanalista olandese Anna Enquist. «Non riusciamo ad ammettere con noi stessi che qualcosa possa essere così importante. Ma lo è, e non poco. Il trauma del ’74 rimane ancora vivo, e irrisolto. È un dolore molto profondo, come un crimine impunito».

Dutch midfielder Johan Neeskens scores t

Gli olandesi non l’hanno mai superata. Uno dei motivi riguarda la Germania e la Seconda guerra mondiale, l’occupazione e la deportazione furono pesanti e mai dimenticate. C’è un conflitto all’interno dell’Olanda, scrive Winner: si sentono vittime ma molti furono collaborazionisti; era la guerra. Ma la guerra fu portata in qualche modo fino a quella partita. L’Olanda dominò il Mondiale giocando benissimo, tutti erano sicuri che avrebbe annientato la Germania, dopo essersi disfatta del Brasile, ma non andò così. L’Olanda perse 2 a 1, e se è vero che il rigore del pareggio della Germania non c’era è anche vero (ed è più vero) che gli arancioni persero per arroganza. Non fu l’incapacità di vincere, fu la volontà di umiliare l’avversario dopo essere passati in vantaggio. L’arroganza e l’ostentazione della superiorità non pagarono e la Germania brutta ma decisa, giustamente, vinse. Nel saggio di Winner ci sono dichiarazioni di molti calciatori dell’Olanda e tutti ammettono quell’arroganza. I tedeschi si permisero di dire: «Erano una squadra migliore».

Nel 1978 un’Olanda meno brillante e senza Cruijff arrivò in finale e perse di nuovo, con l’Argentina, ma quella fu una sconfitta diversa. Era il mondiale di Videla, della dittatura, della paura, dell’arbitro corrotto, del percorso dell’autobus dell’Olanda deviato. Del gol mancato da Rensenbrink. Alcuni olandesi affermarono che se avessero vinto forse non sarebbero usciti vivi dallo stadio. Chi lo sa.

L’Olanda ha quasi sempre, anche in seguito, cercato il bel gioco, la splendida squadra degli Europei del 1988, con Van Basten (e quel gol che ci fa ancora commuovere), Gullit e Rijkaard, che vinse (ed è stata l’unica volta), quella che giocò – inspiegabilmente – malissimo a Italia ’90, quella che sottovalutò la Danimarca agli Europei del 1992, che si buttò via a Francia ’98, che non uscì mai dalla metà campo dell’Italia di Zoff agli Europei del 2000, ma perse con i mille rigori falliti.

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L’Olanda dell’orrore,  quella che ha giocato malissimo, con un calcio duro e falloso, con interventi killer è stata quella che ha perso dalla Spagna in Sudafrica, ai Mondiali del 2010. Questa bruttezza rinnegata dagli olandesi illuminati, ma giustificata ed esaltata dai figli del populismo, politici e cittadini, secondo Winner, è la prova del cambiamento sociale dell’Olanda, che è diventata una nazione più chiusa, meno accogliente, meno colta, disabituata alla bellezza – bellezza in nome della quale Dennis Bergkamp dichiarò: «Non credo di essere interessato a segnare gol brutti» – e disposta a tutto pur di vincere.

Il saggio di David Winner è un libro prezioso per chi ama il calcio e per chi ha sempre guardato all’Olanda con rispetto e ammirazione. Perché gli olandesi non vincono? Per arroganza, come abbiamo visto, e per paura di vincere, per motivi religiosi, il calvinismo pare abbia installato negli olandesi il timore di dichiararsi i migliori del mondo; e poi non vinsero davvero perché la moglie di Cruijff, gelosa, lo tenne al telefono tutta la notte prima della finale del 1974? Ma un ballerino non avrebbe danzato comunque, secondo me.

A proposito, c’è una bella immagine che unisce Cruijff e Nureyev, citato dal collega Van Dantzig: «Rudolf sosteneva che Cruijff avrebbe dovuto fare il ballerino. Era intrigato dai suoi movimenti, dal suo virtuosismo, dal modo in cui riusciva a cambiare improvvisamente direzione lasciandosi tutti alle spalle, e a fare tutto ciò mantenendo un controllo, un equilibrio e una grazia perfetti. Era stupefatto dalla rapidità mentale. Si vedeva che ragionava così velocemente da anticipare tutti. Come un giocatore di scacchi».

 

WINNER_BRILLIANT ORANGE_SITO (1)
Brilliant Orange
trad. di Fabio Deotto
minimum fax
2017
pag. 362