Il tempo del raccolto

Guardiola e il Manchester City sono pronti per godere dei frutti seminati la scorsa stagione?

Il significato del terzo posto con cui il Manchester City ha chiuso la stagione 2016/17 è scomponibile in due direttrici: da un lato ha dimostrato che il binomio investimento-successo è valido soltanto in parte, e in un certo senso anche che la competitività sul piano economico dei club di Premier League è alla base dei continui avvicendamenti in testa alla classifica; dall’altro ha scoperchiato il vaso di Pandora di Guardiola, che per il primo anno in carriera non è riuscito ad arricchire il proprio palmarès. Le molteplici difficoltà, legate sia a fattori culturali (su tutti: la scarsa predisposizione a discipline tattiche particolarmente elaborate degli inglesi, o inglesizzati) che qualitativi (il livello medio più alto tra gli avversari, la difficoltà nel reperire i propri obiettivi primari sul mercato), hanno messo i bastoni fra le ruote al tecnico catalano nel giro di poche settimane dall’inizio della stagione, e il suo City non ha dato risposte convincenti in quanto a sviluppo pratico dei suoi concetti-chiave. O almeno, non lo ha fatto con la continuità richiesta a chi si propone di conquistare il primato.

Stagione nuova, vita nuova?

Come ogni club con grande disponibilità economica che si rispetti, il Manchester di Mansour si è lanciato a capofitto sul mercato in tempi piuttosto brevi. La situazione attuale è molto simile a quella di un anno fa, quando i milioni di euro spesi per la campagna acquisti furono 213 (ad ora siamo a 240); arrivarono colpi grossi (Stones dall’Everton, Sané dallo Schalke), altri meno d’impatto per gli standard ma comunque funzionali (Gündogan da Dortmund o Gabriel Jesus dal Palmeiras), con in coda quelli che, con il senno di poi, si sono rivelati meno utili (Bravo e Nolito). Quella che Guardiola provò a mettere in atto già durante la scorsa estate era una vera e propria rivoluzione di carattere tecnico, che coinvolgeva in particolare il concetto di associatività: l’obiettivo – non dichiarato ma facilmente intuibile – era quello di inserire nella rosa giocatori che potessero vantare quella qualità, indispensabile per la corretta applicazione del calcio posizionale. Gli infortuni di Gundogan hanno pregiudicato la costruzione del centrocampo ideata da Guardiola, e questo dettaglio ha contribuito a rallentare il processo di apprendimento della squadra. Recentemente ha detto che «ho sempre pensato a cosa sarebbe successo l’anno scorso se avessi avuto Kompany, Gündogan e Sané», suggerendo più di un lieve velo di rammarico.

Oggi la rivoluzione ideale del catalano poggia su basi più solide, verificate. Può contare su un manipolo di giocatori offensivi che hanno dimostrato di saper comprendere prima e mettere in pratica poi i suoi dettami (ricerca degli spazi di mezzo, dell’ampiezza nell’ottica di riversarsi immediatamente al centro, continui scambi di posizione tra i quattro trequartisti), e su altri elementi da lui stesso scelti sul mercato per modellare i movimenti del suo 4-1-4-1 secondo le proprie idee. John Brewin ha scritto su Espn che «Guardiola non permetterà al calcio inglese di cambiarlo come è successo invece a Mourinho, Pochettino o Klopp». È vero: quando arrivò al Bayern il catalano non volle altri acquisti oltre a quello di Thiago, mentre da quando è al City sta continuando nel solco della tradizione secondo cui “chi più spende, meglio fa”. Però va evidenziata una differenza sostanziale, che risiede nel patrimonio tecnico a sua disposizione. Al Bayern trovò subito calciatori adatti al suo sistema di gioco ed estremamente recettivi (Lahm, Alaba, ma anche Boateng), mentre a Manchester si è imbattuto in un contesto sostanzialmente opposto; da qui la necessità di mettere mano più energicamente nella campagna acquisti, che non indica affatto un ricalcolo della posizione di Pep quanto, piuttosto, una conferma di quanto essa sia solida. Ergo, dal punto di vista dell’approccio tattico, la stagione 2017/18 non dovrebbe riservare particolari sorprese se non in alcune sfumature dettate proprio dalle caratteristiche dei nuovi arrivati.

Uno dei cinque gol di Gündogan nelle sedici partite della scorsa stagione, contro il Barcellona

Il problema della difesa: risoluzione in corso

Ma la scorsa stagione ha manifestato in maniera piuttosto evidente che le carenze maggiori a livello di individualità si trovavano tra i componenti della linea arretrata, e non stupisce, di conseguenza, il fatto che la maggior parte del budget ad ora investito sia stato volto al recruiting degli interpreti avvezzi a quella zona del campo. Hanno salutato, tutti in un colpo solo, Kolarov, Zabaleta, Clichy e Sagna, che per anni (chi più, chi meno) hanno costituito le colonne laterali del City di Mancini e Pellegrini; se ne sono andati anche Hart e Caballero, con il solo Claudio Bravo sopravvissuto ai tagli. Per sostituire i partenti Guardiola ha inizialmente reclutato Ederson Moraes, ex portiere del Benfica classe ’93, pagandolo circa 40 milioni di euro. Sarà su di lui, salvo clamorosi e poco sensati colpi di scena, che poggeranno le basi del nuovo City. Sulle corsie laterali si giocheranno il posto i tre volti nuovi della linea difensiva, che ad ora rappresentano il cambiamento strutturale più significativo della formazione tipo: Walker, Danilo e Mendy.

Guardiola ha voluto ciascuno di loro come prime scelte, e i prezzi dei rispettivi cartellini dicono molto sull’influenza che, secondo i piani del tecnico, dovranno esercitare sul campo. Ha preso l’ex Tottenham per garantirsi il laterale con il miglior passo in allungo della Premier League; ha scelto il brasiliano per poter contare su un’opzione che fino ad ora non aveva a disposizione, ossia quella di spostare di venti metri più indietro il movimento di ricerca dell’ampiezza-conversione al centro; ha voluto il francese dal Monaco per portare sulla corsia sinistra quel volume che né Clichy né Kolarov erano più in grado di portare per svariate ragioni. Oltre ai cross, naturalmente: il confronto (1,5 a partita contro 0,4 e 0,2) è impietoso. La decisione di puntare su terzini più atletici e al contempo offensivi si inserisce solo parzialmente nella tradizione delle esperienze precedenti di Guardiola, ed è in questo senso che possiamo interpretarla come il primo, leggero segnale di adattamento al nuovo contesto; anche se, come spiegato da un’analisi di SkySports, «rinforzi giovani, in grado di portare brillantezza, sono stati fondamentali in passato per le squadre guidate da Pep, e potrebbero trasformare anche un City che semplicemente nel finale di stagione non si reggeva sulle gambe».

L’identità, fondata sulla ricerca del controllo e dell’ordine della mobilità collettiva, rimane naturalmente la stessa, anzi, con i volti nuovi Guardiola sposta teoricamente il proprio baricentro verso l’alto. Basti pensare alla differenza che sussiste tra le occasioni da gol create nella scorsa stagione dai nuovi (39 per Walker, 25 per Mendy, 18 per Danilo) e dai vecchi (16 per Clichy, 15 per Kolarov, 9 per Zabaleta e 8 per Sagna). Se si considera che quest’anno Stones sarà affiancato da Kompany e non più da Otamendi, ne deriva che il City 2.0 sarà diverso, e probabilmente più efficace, soprattutto per via della ristrutturazione del blocco arretrato operata da Guardiola.

L’anno scorso al Tottenham: cross di Walker, gol di Kane

Fluidità

Il compito della linea a quattro, cui va aggiunto Ederson a prescindere da quale sarà il suo rendimento, consiste nel dare il via all’azione accompagnandola, all’incirca, fino alla trequarti difensiva. Da lì le squadre di Guardiola (e in particolare il City dello scorso anno) ci hanno abituato a più varianti: può accadere che si stacchino i terzini, che si abbassi un mediano, che viceversa un difensore ne vada a occupare la posizione e che i terzini si accentrino per formare una linea a tre, eccetera. Ciò che risulta fondamentale ottimizzare, trascorso quel momento chiave, è la prima transizione: i centrocampisti a disposizione di Guardiola (Gündogan e Fernandinho su tutti) saranno deputati a questa fase, cui parteciperanno naturalmente anche i trequartisti con maggiore visione di gioco e ridotta velocità in allungo come De Bruyne o i due Silva, e sarà loro compito far scorrere fluidamente il pallone seguendo i principi – già inculcati nella maggior parte dei giocatori – del gioco di posizione.

Una delle difficoltà ad aver prodotto più danni per il City della scorsa stagione consisteva nel risalire il campo: si verificavano pochi cambi di campo, e dunque scarseggiavano le aggressioni sul lato debole; inoltre, seppur con meno frequenza, capitava spesso che il numero consistente di giocatori sulla trequarti si muovesse in modo poco armonico, causando sovrapposizioni utili soltanto a far disporre meglio gli avversari. L’acquisto di Bernardo Silva dal Monaco, il primo nuovo arrivato all’Etihad, è la dimostrazione che Guardiola ha bisogno di alternative per mettere in pratica il suo sistema senza renderlo scontato. Per questa ragione oggi i giocatori offensivi a sua disposizione sono ben otto: Sterling, Sané, De Bruyne, David Silva, Bernardo Silva, Gabriel Jesus, Agüero e Iheanacho (con gli ultimi due in odore di cessione). Ciascuno di loro ha nelle proprie corde una caratteristica fondamentale, ovvero l’associatività, ed è grazie alle qualità tecnico-cerebrali che dovranno contribuire a garantire una manovra fluida.

Azioni belle, concluse da De Bruyne

Il raccolto è già pronto?

A inizio luglio, in un’intervista rilasciata al quotidiano catalano L’Esportiu, Guardiola parlò così: «Qui (in Premier, ndr) gli arbitri sono più permissivi e ci sono 6 squadre in lotta grazie a un importante potenziale economico. Ho la fortuna di guidare un grande club che va sempre in Champions, ma non è facile competere con Barcellona, Real Madrid, Bayern Monaco e Juventus. Servono almeno 10 anni per costruire qualcosa di importante. Io ho ereditato un grande gruppo da Pellegrini, ma dobbiamo anche ringiovanire la rosa». L’espressione del volto giurava che le dichiarazioni non fossero di circostanza, anche se è naturale chiedersi quanto ci fosse di metaforico, di esasperato in un certo senso. Quello che traspare è in ogni caso un Guardiola estremamente consapevole delle difficoltà in cui naviga, soprattutto del rischio di profetizzare nel deserto idee-cardine di un calcio che, a certe latitudini, comprende pienamente soltanto lui. Pep sa che le centinaia di milioni investiti tra terzini, Ederson e Bernardo Silva non sono altro che il massimo tentativo attuabile per dare una continuità credibile al suo progetto, e sa anche che il credito da spendere verso chi ha avuto fiducia in lui è ancora abbondante. Ci si aspetta tanto, è lecito e non sarebbe giusto se fosse altrimenti: Guardiola ha a disposizione una rosa attrezzata per vincere in Inghilterra e per spingersi ben oltre gli ottavi di finale in Champions League. Dall’altro lato, le sue stesse parole lasciano pensare che la realtà cui ha deciso di far parte non sia ancora sufficientemente solida, e che ci sia ancora del lavoro di assemblaggio, tattico e umano, da portare avanti. Insomma, non ci vorranno dieci anni, ma non è affatto scontato che la prossima stagione sia quella buona per l’affermazione definitiva.

 

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