Patrizia Panico

Gli inizi da allenatrice, i record e i gol, la filosofia che la guida dal campo alla panchina, lo stato del calcio femminile.

Quando, qualche mese fa, a Patrizia Panico veniva affidata la panchina della Nazionale Under 16 maschile, il suo telefono è impazzito: «Ho ricevuto più chiamate di quando ho raggiunto la semifinale di Champions League». Dalla scorsa estate, Panico è assistente tecnico dell’Under 16 azzurra ma, con Daniele Zoratto impegnato con l’Under 19, è stata lei a dirigere la squadra per due amichevoli contro la Germania. Meglio questo traguardo o la Champions? «Sono due gratificazioni diverse, anche se ho avuto la consapevolezza che si è creato più frastuono per questa notizia che per tutto il resto che ho fatto». “Tutto-il-resto” sarebbe la folgorante carriera in campo di Patrizia: calciatrice con più presenze e reti nella storia della Nazionale azzurra, primatista di titoli di capocannoniere vinti nel campionato italiano (12), 23 trofei conquistati inclusi dieci scudetti, oltre seicento reti in carriera. Una leggenda del calcio femminile italiano.

_MG_1606

23 I titoli vinti da Patrizia Panico nella sua carriera da calciatrice: dieci scudetti, cinque Coppe Italia e otto Supercoppe italiane
12 Le volte che Patrizia Panico si è laureata capocannoniere della Serie A: è un record, Carolina morace si è fermata a 11
8 Le squadre in cui Panico ha giocato: Lazio, Torino, Modena, Milan, Verona, Torres, Sky Blue, Fiorentina
Nemmeno in altri Paesi, dove il calcio femminile è più avanzato e pubblicizzato, è successo che una donna prendesse in carico una selezione nazionale maschile. «È vero, all’estero ho notato molto interesse», dice Panico, «forse perché l’Italia è stata sempre considerata nel mondo calcistico come una nazione molto maschilista. Ha fatto molto scalpore che una notizia del genere arrivasse proprio da noi». Poco importa che i giocatori la chiamino “mister”, perché abituati così da sempre: «L’approccio con i ragazzi è stato subito molto bello. Forse l’aspetto di essere donna mi ha un po’ agevolato: i ragazzi da una parte si sentono coccolati, dall’altra si inorgogliscono se fanno qualcosa di bello, tendono a dimostrarlo molto di più rispetto a un allenatore maschio». Patrizia è curiosa, intraprendente. Non ha perso tempo e in estate ha seguito il corso di Coverciano per ottenere il patentino Uefa di seconda categoria: «Credo che la cosa che più mi stimola sia il fatto di mettermi in discussione rispetto alla carriera di giocatrice. Stare dall’altra parte, vedere cose da altre prospettive, mi fa rendere conto che finora ho vissuto soltanto un pezzettino del calcio». I modelli? «Cerco di rubare un po’ da tutti. La gestione del gruppo che ha Ancelotti, il carisma di Simeone, la personalità e la durezza di Mihajlovic, il gioco tattico di Sarri». Lei che il futuro da allenatrice lo ha precisato a poco a poco, come un innamoramento graduale ma alla fine pienamente coinvolgente: «L’idea mi è venuta quando ero ancora in campo, poi ha preso forma nel momento in cui ho smesso. Adesso sta continuando a prendere forma».

Essere stata una grande calciatrice ha fatto di Patrizia una figura di riferimento dell’universo sportivo femminile: sono tante le ragazze che le scrivono, per avere consigli, suggerimenti, o ricevere semplici incoraggiamenti. C’è chi si sfoga perché i genitori non la lasciano giocare, visto che il calcio è ancora visto come uno sport prettamente maschile, c’è chi invece critica l’atteggiamento dei ragazzi nelle squadre miste, che non passano il pallone alle ragazze. Davvero, anche a livello culturale, siamo così indietro? «Credo che negli ultimi anni, a livello mediatico ma anche di percezione dall’esterno, si siano fatti passi in avanti. Prima ci vedevano come delle extraterrestri, adesso molti genitori portano le bambine a giocare a calcio». Lei stessa, quando ripensa alla sua carriera, non mette al primo posto partite, gol o trofei, ma una conquista personale: «La cosa che mi ha inorgoglito di più è stato vedere che i miei genitori sono diventati i miei primi tifosi. All’inizio, da piccola, mi portavano sì a giocare, ma giusto per accontentarmi. Poi sono diventati partecipi, soprattutto quando sono passata alla Lazio, visto che arrivo da una famiglia laziale. È stata la cosa più bella».

_MG_1518

Lo stereotipo dell’allenatore furibondo, che alza la voce, sbraita, si agita in panchina, è ancora abbastanza radicato: in fondo, però, si tratta di una semplice caricatura del mestiere, della figura del tecnico. Non c’è bisogno di urlare, secondo la filosofia di Panico, anzi, una voce pacata ma ferma è sintomo di maggior sicurezza in sé. E poi Patrizia è sempre stata abituata, in qualità di capitana delle Nazionali e dei club in cui ha giocato, ad essere seguita, ascoltata, a sviluppare un senso della leadership. Ma, sostiene, questo non rappresenta necessariamente un vantaggio: «Credo che quello che si è fatto, quando si è allenatori, si debba mettere anche da parte. Serve come esperienza, non per l’approccio. Si possono avere delle certezze, ma il calcio è in continua evoluzione, e quelle certezze possono venire meno da un giorno all’altro».

Patrizia Panico ha smesso da poco i panni da calciatrice: l’ultima stagione l’ha giocata con la Fiorentina, nel 2015/16, a 41 anni. «Durante l’arco dell’anno, è nata la consapevolezza di chiudere la carriera. Quando si cresce, ci sono degli aspetti che non riesci più a tollerare. A vent’anni hai una tolleranza elevatissima, a 40 noti tutto. L’approssimazione non la accetti. Il mio impegno era lo stesso di vent’anni fa, ma non era ripagato altrettanto da quello che mi circondava». Perciò il suo, di salto, è stato doppio: dal campo alla panchina, dagli uomini alle donne. Esistono differenze sostanziali tra un gruppo maschile e uno femminile? «Alcune sì. Soprattutto dal punto di vista dell’approccio al calcio. I ragazzi sono molto più leggeri rispetto a una donna. Non sviscerano molto quello che hanno dentro, in un certo senso si sentono sempre molto forti. Le ragazze invece si mettono sempre in discussione, si pongono sempre domande».

È anche per questo che la presenza di figure di rilievo come Patrizia Panico può far bene allo sviluppo del calcio femminile. E questo, dice Panico, è qualcosa per cui la Germania andrebbe presa ad esempio: «In Italia, molto spesso, le ex giocatrici della Nazionale non vengono integrate, sotto qualsiasi profilo. La Germania, invece, ha percorso la strada di non disperdere il patrimonio delle ex giocatrici. Molte sono state reinserite a livello lavorativo, dando un senso di continuità. Se prendiamo la Germania come termine di paragone per il calcio femminile, in Italia siamo ancora molto indietro». L’obbligo delle squadre femminili per le società professionistiche è la soluzione giusta? «È la strada più breve», sostiene Panico, «perché poggi su strutture e staff già funzionanti. È il primo passo, non l’unico. Una volta professionalizzato l’ambiente, bisogna rendere professioniste le atlete».