Prendiamola un po’ alla lontana. Nel 1914 Franz Kafka scrive un breve racconto dal titolo Davanti alla legge (nella versione originale tedesca “Vor dem Gesetz”). Lo pubblica circa un anno dopo, nell’edizione di Capodanno del 1915 della rivista ebraica Selbstwehr. Rielaborato, Davanti alla legge appare infine come piccola parabola raccontata al protagonista da un prete cattolico nel romanzo Il Processo del 1925.
La trama è lineare: un semplice uomo di campagna desidera conoscere la Legge (negli anni la maiuscola è stata usata a discrezione dei traduttori, nell’originale il tedesco la impone per tutti i sostantivi, io qui semplicemente decido di mantenerla per dare un tono al tutto). L’uomo di campagna sa che la Legge (potete sostituire questa parola nella vostra mente con Verità, Senso della vita, Giustizia suprema), si nasconde in un certo palazzo, il cui portone è presidiato da un guardiano. Il guardiano avverte l’uomo di campagna che in quel momento non lo farà passare, ma più avanti forse. Passano le ore, trascorre qualche giorno, l’uomo di campagna si spazientisce, poi prega il guardiano finché ne è capace, cerca di corromperlo, lo minaccia. Niente da fare, e anzi, il guardiano lo avverte che nel palazzo ci sono molte altre porte, ciascuna protetta da un guardiano sempre più forte.
Passano gli anni, l’uomo di campagna invecchia. Poco prima di morire chiede al guardiano perché nessun altro fosse venuto fin lì in quegli anni «Tutti si sforzano di arrivare alla legge» dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?» Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo».
Ecco, al di là della conclusione del racconto – che anche a me ancora, oggi, non è del tutto chiara – ciò su cui dobbiamo concentrarci sono le porte. Le porte e i loro guardiani. Le porte e i loro guardiani a difesa della Legge. Quello su cui questa storiella ci vuol far riflettere è che la Verità non è un oggetto, un punto fermo che si raggiunge prima o poi e una volta per tutte, ma assomiglia piuttosto a un palazzo con molti portoni, uno in successione all’altro. Ogni volta che riusciamo a scavalcare un guardiano ne troveremo un altro, presumibilmente molto più forte del precedente. La Verità, più che un punto da raggiungere, è il processo di avvicinamento alla Verità. Iniziamo allora ad avvicinarci anche noi.
Da quest’anno, gli unici tre campionati di calcio che in Europa hanno in dotazione il Var sono la Bundesliga, la Primeira Liga e la Serie A. In tutti e tre i casi si tratta di una tecnologia in fase sperimentale, che non ha raggiunto la sua forma definitiva, applicata secondo regole ancora restrittive (solo per quattro casi a partita e solo per: decidere se espellere o meno un giocatore, decidere se concedere un rigore, confermare la giusta attribuzione dei cartellini, stabilire la regolarità di un gol).
Nonostante le limitazioni, durante una simulazione tenuta segreta e condotta per tutto lo svolgimento dello scorso campionato della nostra massima serie, un gruppo di studio ha decretato che nel corso di un anno il Var può aiutare a correggere 100 errori arbitrali di entità classificabile come grave.
Durante la prima giornata di campionato l’uso del Var ha in effetti iniziato a redimere l’immagine a tratti opaca dell’efficienza arbitrale della Serie A, intervenendo con efficacia in un numero rilevate di casi. Per esempio correggendo la decisione dell’arbitro Fabio Maresca che aveva giudicato come non falloso un intervento in area di Alex Sandro su Cop, e assegnando un calcio di rigore a favore del Cagliari.
Altri casi sempre dalla prima giornata: la convalida della regolarità del rigore concesso all’Inter per fallo in area su Icardi, l’assegnazione del vantaggio del Napoli sull’Hellas, la conferma del calcio di rigore assegnato al Milan dopo il fallo in area su Cutrone.
Qui è dove ci troviamo quando il nostro uomo di campagna supera il primo guardiano – o, se preferite avere un orizzonte più ampio, se pensiamo a tutti i passi che hanno portato dall’istituzione dell’arbitraggio al Var, ci troviamo a una serie molto lunga di portoni e guardiani superati. L’applicazione della moviola in campo rincalza l’idea secondo la quale adesso sarà tutto a posto. Ora e per sempre. Non esisteranno più casi dubbi, i giochi sono fatti. Anzi, esisteranno solo fatti.
Ora torniamo ad allontanarci. La storia della fisica è costruita intorno al tentativo costante di dare ordine alle leggi fondamentali dell’universo e di scoprire i fondamenti ultimi della materia. Il metodo scientifico, in quanto basato su tentativi, errori, correzioni, nuovi tentativi, nuovi errori, nuove correzioni, è ciò che l’Occidente (con meno enfasi si può leggere anche come “tutti noi, in generale”) ha creato per affrontare quel palazzo della Legge con molti portoni e molti guardiani da superare uno dopo l’altro. Un esempio su tutti: gli atomi.
Da quasi duemilacinquecento anni ci chiediamo di cosa è fatta la materia. Le risposte che man mano abbiamo trovato hanno spacchettato il mondo che ci circonda in porzioni sempre più piccole. E più ci siamo avvicinati a quella che pensavamo essere la risposta finale, definitiva, ultima, più scoprivamo che c’era sempre da andare avanti. Quando siamo arrivati agli atomi ci siamo dati delle ampie pacche sulle spalle a vicenda, per poi scoprire che se li si guarda più da vicino assomigliano a una pentola di pop corn che ribolle di particelle impazzite. Allora per studiarle meglio siamo riusciti a isolarle e farle collidere tra loro in enormi acceleratori scavati sotto le montagne della Svizzera ed è venuto fuori che a loro volta sono composte di particelle più piccole e che cambiano di stato a seconda di come le si osserva. Ne abbiamo scoperte così tante che ci siamo ridotti a dover usare nomi improponibili: gluoni, plasma di quark. Ecco allora che, se abbiamo abbastanza tempo e pazienza da investirci, finiamo per scoprire che dietro una porta se ne continua ad aprire un’altra.
Dopo la prima giornata di campionato, va detto abbastanza tranquilla dal punto di vista della Video Assistenza Arbitrale, già la seconda ha visto un po’ di zucchero entrare tra gli ingranaggi: Buffon ha rilasciato un paio di interviste polemiche (Sky Sport e Juventus Tv) dopo Genoa-Juventus, lamentando le eccessive interruzioni e la perdita della fluidità di gioco e di feeling con l’azione. Durante la partita contro il Genoa, in effetti, l’applicazione della moviola in campo non ha accontentato tutti. L’arbitro ha fermato il gioco assegnando un rigore a favore del Genoa per un fallo di Daniele Rugani su Galabinov. Ma nell’arco della stessa azione i due addetti al Var non hanno rilevato che Galabinov era in fuorigioco e che quindi il rigore non doveva essere assegnato.
Sempre durante la seconda giornata particolarmente intese sono state le polemiche a proposito di Roma-Inter. L’arbitro Irrati lascia correre un possibile fallo da rigore di Skriniar su Perotti, che con la Roma in vantaggio di 1-0 poteva chiudere la partita (poi finita 1-3 per l’Inter), assegnando anzi un calcio d’angolo di dubbia attribuzione. A fine partita Irrati è stato criticato per non aver usufruito del Var, consigliato in questo dagli assistenti, per osservare le immagini del presunto fallo.
L’introduzione della tecnologia per dirimere le azioni di gioco contestate o contestabili non può che essere la naturale evoluzione del gioco. È giusto che lo si renda vicino al sentimento contemporaneo, e non potrebbe essere diverso da così. Altro è pensare che l’applicazione di telecamere e ingrandimenti digitali possa risolvere la complessità di una partita. Abbiamo spacchettato i 90 minuti regolamentari e abbiamo scoperto che erano come una pentola piena di popcorn che saltano uno dopo l’altro.
Secondo molti, l’applicazione della moviola in campo non avrebbe fatto altro che creare infinite discussioni intorno ai singoli casi, allungando i tempi morti delle partite in maniera esasperante. Da lì si sarebbe arrivati alla moviola della moviola, e avanti secondo una spirale autodistruttiva. Una sorta di infinito circolo ermeneutico del pallone che avrebbe tolto a chiunque il desiderio di andare allo stadio. Non è così. Il numero degli errori arbitrali diminuirà (ancora non possiamo dire se in maniera irrilevante o se drasticamente), ma aumenterà invece la discussione intorno a quello che pensiamo sia un errore arbitrale. Ecco qual è il prossimo portone. Quando dovrebbe essere applicata la nuova tecnologia? E se il fallo in discussione fosse a sua volta viziato da un’infrazione precedente, come per il fallo di Skriniar su Perotti, come è da giudicare la decisione arbitrale? Ecco cosa è entrato in gioco adesso: non tanto l’interpretazione del gioco, ma l’interpretazione dell’errore arbitrale stesso.
Il calcio all’epoca del Var subisce quindi il contrappasso della sua stessa innovazione tecnologica. A essere messa in discussione non è solamente la singola azione di gioco – santino sgualcito pronto a essere sfoderato a ogni discussione da tifosi dalla memoria lunga (il gol di Turone, il fallo di Iuliano su Ronaldo) e dalle ferite ancora fresche – ma più in generale il contesto valutativo. Il prossimo portone, forse, è ancora più difficile da attraversare: perché mette in discussione il senso generale della rilevazione arbitrale. Forse, una volta capito come neutralizzare l’errore, rimane ancora da capire cosa sia questo errore, dove inizia, quali sono gli spazi entro i quali si confina, in quale tempo va circoscritto, e in relazione a cosa si può effettivamente definire come errore. Una complessità più profonda, probabilmente un gioco più bello.