La rivincita dell’altro Inzaghi

Dopo una carriera passata all'ombra di qualcun altro, Simone Inzaghi sta convincendo tutti grazie alle vittorie e al gioco della sua Lazio.

Gira una storiella per i corridoi di Formello, risale al 2010. Il giorno che Simone Inzaghi andò da Lotito a firmare il contratto per allenare il settore giovanile, quello lo guardò e gli disse: «Tre anni presidente, e poi mi dà in mano la prima squadra». Lotito, che è latino di cuore e di lingua, gli diede una sorta di benedizione ad personam. Non è passato poi molto da quei torridi giorni di giugno, quando Inzaghi colmò l’ultimo passaggio della sua vita: da ex calciatore a tecnico. Una fase necessaria, indispensabile, salvifica. Uno stacco tra il vivere rivolto al passato e il porsi nuove, complicate sfide. Orizzonti di felicità. Oggi Inzaghi è l’allenatore del momento. All’alba dell’Europa League, dopo il successo contro il Milan. E lo è perché la vittoria della Supercoppa contro la Juventus è servita a scaraventare l’opinione pubblica nell’idea che il calcio italiano abbia trovato un altro allenatore a cui aggrapparsi. Sin qui era stato bravo, giovane, promettente. Ora Inzaghi è entrato nel paradiso di quelli che possono (sanno) vincere.

ROME, ITALY - SEPTEMBER 13: SS Lazio head coach Simone Inzaghi looks on during the SS Lazio training session on September 13, 2017 in Rome, Italy. (Photo by Paolo Bruno/Getty Images)

In realtà lui lo ha sempre saputo. In un’intervista del 2010 al Corriere dello Sport-Stadio, disse uscendo dall’ufficio di Lotito: «Al mattino il presidente mi ha fatto la proposta, al pomeriggio ho detto sì. Parto dagli Allievi regionali, ragazzini di quindici anni. Ho il patentino di tecnico di terza categoria, prenderò quello di seconda e poi di prima. Con un sogno: allenare la Lazio». Nemmeno un mese dopo vince il primo trofeo della sua carriera di tecnico: il Memorial De Sactis-Piroli, triangolare contro il Rieti e l’Ascoli. Si gioca ad Amatrice, ed è lì che Simone comprende la possibilità di costruire una carriera diversa da quella che fu. Molti calciatori restano intrappolati nella luce del loro passato glorioso. Smettono, con l’intenzione di applicare i loro successi alla panchina. Sono più quelli che falliscono. Partire dall’inizio, dal basso, dai giovani, è servito a Inzaghi per imparare nuove forme di rinascita. L’unica possibile.

In diverse interviste ha parlato di «distacco» dall’essere calciatore. Alla Gazzetta dello Sport nel 2011: «La vita da giocatore era meglio. Meno responsabilità, più tempo libero a disposizione. Da allenatore lavori quasi tutto il giorno». Fino all’ultima intervista di Angelo Carotenuto su La Repubblica: «Ai più anziani ripeto ogni giorno di godersi tutto fino in fondo, gli ultimi anni, queste sensazioni che non torneranno più e che nessuno restituirà quando tutto sarà finito». Per molti atleti il ritorno alla vita normale è un trauma. A Cuba il Governo ha previsto addirittura un protocollo di disintossicazione per ex atleti, che è simile a quello che devono seguire i tossicodipendenti per essere riabilitati. Lo sport abitua alla crema della vita, ti fa vedere la parte più dolce. Ma quando arrivi in fondo ti accorgi che è stato breve.

ROME, ITALY - APRIL 27: SS Lazio head coach Simone Inzaghi before the SS Lazio Training Session at the Formello Center on April 27, 2017 in Rome, Italy. (Photo by Marco Rosi/Getty Images)

Chi è così lucido da accorgersene subito (o molto in fretta) non perde anni a guardarsi le spalle. Accetta molto prima quella che è diventata la sua vita, e riesce addirittura a farne qualcosa di meglio. Simone Inzaghi fa parte di questo piccolo gruppo di sopravvissuti. Quando ha smesso di giocare non ha perso tempo. Ha ricominciato a crearsi ricordi. È questo suo modo di riflettere, di guardare il mondo, che sta portando Inzaghi nella direzione giusta. Allegro, brillante, scaramantico. Raccontano che ai tempi della Primavera – con cui ha vinto due coppe Italia e una Supercoppa – prima di ogni partita versasse un bicchiere di rosso ai due dirigenti biancocelesti. Quelli lo guardavano e lui diceva: «Altrimenti non vinciamo». Goloso, dopo ogni pranzo con la squadra mangia un cucchiaio di Nutella. Ma anche figura ingombrante dentro lo spogliatoio. Nei momenti di difficolta – scialbi 0-0 o sconfitte di misura trascinate alla fine del primo tempo – si faceva prestare il cappotto dai dirigenti e all’intervallo iniziava a urlare sventolandolo di qua e di là. Metodi alla Herrera.

Ma la vittoria della Supercoppa contro la Juventus ha avuto un altro merito. Per lunghe stagioni Simone è stato soltanto l’altro Inzaghi, il fratello di Pippo, che vinceva il Mondiale e segnava in finale di Champions League. Pippo era riconoscibile istantaneamente, mentre per riconoscere Simone c’era bisogno di rapportarlo sempre a qualcun altro. Lui era Inzaghi Junior, Inzaghino. Persino nella vita privata si era riproposto lo stesso meccanismo. Per anni Simone è stato il compagno di Alessia Marcuzzi, e mai viceversa. Con il successo in panchina, questa parte della sua vita è definitivamente chiusa. L’identità è completa. Il primo tassello l’aveva posato il 10 aprile del 2016, quando dopo l’esonero di Stefano Pioli presentò il suo debutto contro il Palermo: «Diventare allenatore della Lazio era il mio obiettivo quando ho iniziato. Dopo sei anni con i ragazzi ce l’ho fatta, sono contento e orgoglioso. Non mi accontento di sette partite. Voglio essere l’allenatore del presente e del futuro».

In questi anni Inzaghi ha imparato a gestire i giovani (con cui preferisce lavorare) e lo spogliatoio. Come è successo con Keita. Fu lui che l’anno scorso, dopo che l’attaccante decise di non presentarsi in ritiro, lo chiamò invitandolo a rispettare la forma e l’educazione. Fino all’epilogo. È l’aria gioviale, gentile e sincera, che rende Inzaghi un allenatore diverso da tutti quelli in circolazione. Ancora simile a un calciatore, ma consapevole della differenza. E delle difficoltà. Dopo il pari all’esordio con la Spal e una vittoria sofferta sul Chievo, la netta vittoria con il Milan è l’ultima dimostrazione di maturità. Sua. Della squadra. Ormai Inzaghi è una certezza. Anche se qualche partita fa, per molti, doveva essere solo una meteora. Invece questo suo perfetto equilibrio ha reso l’approdo nel massimo campionato efficace. Sorprendente per tutti, tranne che per lui. Perché lo ha sempre saputo. A giugno 2011 vinse lo scudetto regionale battendo l’Atletico Roma (5-0). Una partita che Inzaghi visse in maniera concitata, in tensione. Alla fine corse per il campo, abbracciò tutti. Poi arrivò Lolito. «Presidente, ancora tre anni e poi…». Il resto è storia recente.