I fantasmi di Genova

Un viaggio nelle viscere della rivalità tra Genoa e Sampdoria, vista dal punto di vista rossoblù.

 

Sempre peggio
(scritta sui muri di Genova)

Da Stanford, non molti giorni fa, è arrivata la notizia che nella formazione delle opinioni e nella genesi dei sentimenti i fatti avrebbero una rilevanza molto più marginale di quella loro attribuita fin qui. È una conclusione di estremo interesse, che tuttavia si sarebbe potuta raggiungere anche senza anni di ricerche. Bastava un weekend a Genova nell’imminenza di un derby, trascorso chiedendo un pronostico ai passanti che su una maglietta, un adesivo, un portachiavi esibiscono, in campo rosso e blu, la scritta: «Io non ho cugini». Si sarebbe così appreso che in certi casi una partita ufficialmente in programma per un certo giorno a una certa ora, secondo molti non verrà giocata.

La teoria è semplice, e qualunque interpellato la ripeterebbe come l’avesse mandata a memoria in una scuola quadri: il derby non si gioca, perché non c’è nessun derby, anche se due volte l’anno, per un disegno perverso della Figc,  la squadra di Genova è costretta ad affrontare la rappresentativa di una delegazione di periferia, alla quale non la lega alcun rapporto di prossimità, tantomeno geografica. Punto, e più o meno basta. Ma quella che è interessante è la pratica. Conosco una ragazza che, nei messaggi legati ad appuntamenti in un certo quartiere, scrive «Ci vediamo a SPDena» – e ci siamo capiti. Il povero Sampirisi ha giocato una stagione e mezzo con la squadra più antica d’Italia senza brillare, ma lo scarso rendimento non è la ragione per cui, fin dal primo giorno, si è sentito chiamare «Irisi». Quando fa alla conduzione tecnica del Genoa è stato chiamato Andrea Mandorlini, la società si è precipitata a chiarire con un comunicato ufficiale che Enrico Nicolini, abituale secondo del nuovo allenatore, sarebbe rimasto a casa, perché legato «ad altri colori». E, nel caso nessuno dei concetti espressi fin qui fosse chiaro, ricordo solo che quando la partita in questione si gioca in casa del Genoa, la Gradinata Sud è, formalmente, il Settore Ospiti: e che ai cachinni in arrivo dai dirimpettai la Nord usa reagire con un coro secco e per una volta fattuale, anche se un filino tautologico: «Ospiti / siete ospiti».

Benvenuti nella mente genoana, e nel suo intricato rapporto con l’evidenza. Nel 1893 il Genoa Cricket and Athletic Club non era solo la prima squadra di calcio italiana, era anche l’unica, o quasi. Di conseguenza, per giocare qualche partita aveva due sole possibilità: sfidare un equipaggio delle navi inglesi all’attracco – la barriera della lingua non esisteva, fino al 1897 nel Genoa militavano solo inglesi o svizzeri –, oppure affrontare le altre, meno strutturate, rappresentativa della città: il Liguria o, poco dopo, la Società Ginnastica Andrea Doria. In entrambi i casi, gli incontri si svolgevano in una piazza d’armi, il Campasso, nel cuore dello stesso comune autonomo (allora) che ospitava la Lanterna, e cioè Sampierdarena.

Due indizi nel resto d’Italia fanno una prova, specie se rafforzati da una consuetudine linguistica, quella di chiamare l’altra squadra, se proprio si deve, «Doria», ma Genova è Italia fino a un certo punto. Per questo ho mandato un messaggio a Giovanna Liconti, che lavora per la Fondazione e dirige il Museo storico del Genoa, per chiederle se conoscesse qualcuno che di questa storia sapesse tutto, e fosse in grado di raccontarmelo in un lasso di tempo ragionevole. Uno che sa tutto ce l’ho, mi ha risposto. In quanto al tempo, dipende da te, ha aggiunto con l’emoji di un sorriso.

*

La palazzina seicentesca del Museo sorge sulla linea dove fino a vent’anni fa una cancellata in ferro separava il Medioevo della città vecchia e gli anni Sessanta della Sopraelevata dal porto, allora quasi in abbandono, e destinato a diventare un meraviglioso museo a cielo aperto della marineria primonovecentesca. Era il mondo di Conrad, che prima Renzo Piano e poi Farinetti hanno trasformato in un’ampia area turistica. Eppure, facendo qualche passo verso l’acqua e poi voltandosi a monte, in un tardo pomeriggio di febbraio Genova può ancora sembrare il posto dove il dottor Spensley aveva deciso di prendere terra e fondare una squadra di calcio.

Per gli ologrammi però non avevo tempo. Giovanna voleva farmi visitare il museo prima che arrivasse il nostro ospite, e c’era parecchio da vedere: l’atto di fondazione, le prime maglie – bianche, poi bianche e azzurre – della squadra, i plastici degli stadi in cui il Genoa giocava all’inizio della sua lunga storia. Concentrarsi però era difficile, per una ragione acustica: da alcune sale, dedicate a una mostra sul tifo organizzato, arrivavano infatti i cori registrati della Nord, che si mischiavano con un altro sottofondo, visto che al piano superiore qualcuno doveva aver deciso di mandare in loop quella che, per chiunque abbia a che fare con questi colori, è una scena primaria.

balsamini_undici_derby_lanterna14

Sì, per me e per i miei correligionari, quasi nulla vale la visione fiabesca – appunto – di Palladino e Milito che si fanno sessanta metri di campo da soli, e del Principe che deposita nella loro rete, sotto la loro gradinata, il gol del 3-1, chiudendo il derby del 2009. Come ha detto un padre posteggiando la carrozzella del bambino davanti al maxischermo, è un’immagine che si guarderebbe all’infinito.

Concordavo, ma Stefano Massa, che era finalmente arrivato, aveva un desiderio più concreto: «Se non retrocediamo fino al 2023,» ha detto porgendomi la mano «avrò visto più campionati in A che nelle serie inferiori. Solo che mi preoccupa il Città di Palermo».

Se riuscite a immaginare John Belushi brizzolato e in Principe di Galles, inutile che vi descriva Stefano con altri particolari. Ci sarebbero i favoriti, ma in famiglia le eccentricità tricologiche devono essere una marca genetica. Il cugino di suo padre, Celeste Enrico Sardi II, esibiva infatti una zazzera alla Pietro Secchia, che verosimilmente incuteva agli avversari una certa soggezione. Sardi è stato il quarto marcatore nella storia del Genoa, e la sua parabola contiene tutti gli elementi che fanno del calcio di quegli anni una storia infinitamente evocativa: esordi in una squadra che sembra inventata, il General Kuroki – solo gli argentini potevano dedicare una squadra di calcio al generale giapponese più temuto dai russi nel 1905, ma questa è un’altra storia –, cinque anni e 36 gol nell’Andrea Doria, e nel 1913 il passaggio al Genoa, dove rimane fino al 1925, andando a segno 81 volte. Questo secondo i tabellini ufficiali, ma fin da ragazzino – da quando i genitori gli avevano raccontato che Sardi, ormai anziano, si era presentato al loro matrimonio, e dopo qualche secondo di auguri si era lanciato in un interminabile monologo sul Genoa –, Stefano ha cercato di approfondire la biografia dell’avo, nel modo che fin dall’inizio sembra essere stato il suo: coi numeri.

Mentre si procurava l’attività di copertura che ancora oggi svolge – insegna italiano e storia in un liceo artistico –, Stefano ha infatti cominciato a battere archivi ed emeroteche fra la Liguria, il Basso Piemonte e Trieste, dedicando un centinaio di viaggi alla precisazione di dati e statistiche. Un compito non banale, se concentrato su anni in cui le partite di campionato erano risse nel fango fra giocatori senza numero di maglia, che al momento di dettare dieci righe al giornale i cronisti ricostruivano a senso. Eppure, incrociando i dati di testate estinte, Stefano ha accertato che in realtà, i gol di Sardi con la maglia del Genoa sono stati 90. Ma mancano i dati di alcune partite – per il momento.

Ascoltare Stefano è impegnativo, e alcuni suoi vezzi, come quello di far precedere il nome di ogni giocatore dal soprannome con cui era conosciuto all’epoca, non facilitano il compito dell’interlocutore. Ma gli devo la scoperta di una dimensione del calcio a Genova, e delle sue rivalità, che non conoscevo. Ad esempio, ignoravo che la contrapposizione fra Genoa e Andrea Doria fosse anche politica. Le società ginnastiche giocavano un calcio tutto loro, basato su una religione fanatica del collettivo, e si consideravano il baluardo di valori autoctoni dei quali una squadra cosmopolita per statuto come il Genoa era l’antitesi – il demonio, l’Anticristo, lo straniero. L’episodio che secondo Stefano proiettò l’animosità reciproca nell’era moderna fu un Genoa-Pro Vercelli decisivo per l’assegnazione del titolo 1913. Arrivate a Genova non solo per vincere, ma per difendere l’«onore italiano», le Camicie Bianche si imposero per uno a zero, col sostegno, sugli spalti, di altre camicie bianche, quelle della società ginnastica locale. Nell’intervallo la dirigenza rossoblù, allora poco incline alle pagliacciate, impedì la consegna al capitano degli ospiti, Milano I, di un enorme fascio di rose bianco, rosso e verde. Per ripicca, dopo la vittoria la Pro Vercelli venne portata in trionfo da un corteo immacolato, che dallo stadio raggiunse Piazza de Ferrari. Dove il Secolo XIX mise a disposizione di Milano I uno dei suoi balconi, dandogli modo di arringare la folla in delirio. Sempre all’avanguardia, i cuginastri, sempre chic.

balsamini_undici_derby_lanterna06

Non che qualche motivo di rosico non ce l’avessero. Dal 1911, e per quindici luminosi anni, le due squadre giocarono in due stadi costruiti uno di fianco all’altro sull’ex galoppatoio del genoanissimo (è un eufemismo) marchese Musso Piantelli, nella stessa area dove oggi c’è il Luigi Ferraris. Quello del Genoa era un elegante impianto all’inglese, con tribuna coperta in legno e spalti degni di questo nome; l’altro, poco più di una spianata, era noto, grazie al comportamento irreprensibile dei suoi frequentatori, come La Cajenna. Basterebbe questo, ma la Cajenna ha un posto d’onore, nella lunga memoria genoana, per due motivi. Il primo è che in quei quindici anni di convivenza forzata, per volontà del Divin Marchese, affitto e manutenzione della staccionata che separava i due stadi rimasero a carico dell’Andrea Doria. Il secondo è che su quel palcoscenico andò in scena, nel 1914, un incontro che tutti vorremmo avere visto, quello in cui il Genoa vinse 8-0, e cinque giocatori loro uscirono dal campo prima del tempo, uno per infortunio e gli altri quattro, riportano le cronache, per «sconforto».

Avrei voluto sapere molto su vari altri argomenti, a partire dallo scatto d’orgoglio che costò al Doria, nel 1927, la confisca della Cajenna, e cioè il rifiuto di accondiscendere alla fusione, voluta dal Regime, con l’odiata Sampierdarenese. Ma il Museo stava chiudendo, e Stefano cominciava a distrarsi, recitandomi per la terza o quarta volta – con una voce melodiosa, e uno splendido sguardo fisso – il tabellino che ci avrebbe condannato a una sicura retrocessione, a vantaggio del Città di Palermo.
«Non mi chiedi perché lo chiamo Città di Palermo?» mi ha detto salutandomi.
Non gliel’ho chiesto, in effetti. Ma me lo ha detto lo stesso.

Poco prima che Stefano arrivasse, stavo raccontando a Giovanna che da ragazzino avevo un amico il cui fratello maggiore era uno dei capi di quella che allora si chiamava Fossa dei Grifoni. Mentre cercavo di recuperare qualche ricordo più preciso ho fatto il nome di quell’eroe della mia preadolescenza. Si chiamava Dario Bianchi, le ho detto. Giovanna ha sorriso, voltandosi verso uno schermo della mostra. «Lui?». Mi è preso quasi un colpo.

Sullo schermo il ragazzo che ricordavo, non più così giovane, ma perfettamente riconoscibile, sedeva davanti a una Singer in una struttura che poteva essere un capannone industriale, o una rimessa per la nautica da diporto. Dalla sua postazione, una specie di isolotto in un mare di stoffa rossa e blu, Dario stava raccontando di essere ormai al quarto figlio: ognuno aveva richiesto una gestazione di mesi, e forse quello sarebbe stato l’ultimo.

«Ma ho capito bene? Fa tutto da solo?» ho chiesto a Giovanna.
«Sì».
Mi sono fatto dare il numero.

Al telefono, Dario mi aveva detto che, anche se ormai i ragazzini facevano da soli, di qualche consiglio avrebbero avuto bisogno. La cosa migliore quindi era vederci allo stadio: i lavori per la coreografia del derby cominciavano alle tre.

Meno male che era solo qualche consiglio. Lo scambio di battute con gli steward, cui Dario ha consegnato un minuscolo telefonino al posto dei documenti («Tanto lo conoscono, di solito lo perdo, belin, in campo») è stato l’ultimo pronunciato a voce normale. Nelle due ore successive, si è passati al volume necessario per trasmettere ordini a settanta metri di distanza, o a commentare le sporadiche intromissioni di qualche addetto alla sicurezza, («È vietato, mi fa, è vietato. Ma cosa vuol dire è vietato? Ah è vietato? E vietamelo»).

Il lavoro di un coreografo da stadio ricorda quello di un suo collega da teatro, solo che per portarlo in fondo servono l’attitudine al comando di un capocantiere navale – come nella vita Dario è – e le capacità atletiche di un marinaio da coffa. È tutto un fatto di cime, carrucole e verricelli da montare a trenta metri d’altezza, arrampicandosi su ringhiere e cornicioni. Difficile improvvisare, e infatti, pur essendo giovani e piuttosto ben messi, i circa duecento ultras che avrebbero dovuto collaborare seguivano più o meno da lontano i traffici, piuttosto esoterici, di Dario e dei suoi – una decina di vecchi ragazzoni tatuati, rasati e sorridenti. Nello stadio deserto si sentiva chiamare solo Dario, e non a caso quando una funzionaria di polizia è entrata per sapere in cosa consistessero le coreografie, ha parlato con lui. Ora, Dario non ha l’aspetto né i modi di un diplomatico vecchia maniera – portava una vecchia felpa del Genoa e pantaloni da lavoro, e le cerimonie non sono la sua specialità –, ma neanche un professionista della reticenza sarebbe riuscito a tranquillizzare l’interlocutore rispondendo a qualsiasi domanda con una sola parola – «Dottoressa…» – e un sorriso.

Del resto, il segreto della coreografia non sono riuscito a farmelo raccontare neppure quando siamo usciti dallo stadio, e ci siamo messi a parlare, da soli, contro il muro delle carceri. Eravamo sotto la Nord, in uno spazio ai nostri tempi piuttosto animato, e oggi chiuso da due altissime cancellate. Inevitabilmente, il discorso è partito dai cambiamenti del calcio. Da lì in genere si arriva a deprecare la tirannia delle tv, dei diritti, e più in generale del denaro, ma a Dario interessava soprattutto la perdita di spontaneità – e di tradizione artigianale. Ormai in Serie A nessuna tifoseria fa come noi, ha detto. Quando vedi una coreografia, vuol dire che la società ha appaltato i lavori a una ditta. Qui invece abbiamo sempre fatto tutto da soli. È tutto pagato da noi, e realizzato da noi. Nessuno ci regala niente.

Dopo un po’ ho capito che quel «noi» era un plurale di comodo. Le coreografie da derby per cui il Genoa va famoso sono interamente opera di Dario. Le immagina, le disegna, le taglia, e soprattutto le cuce. Sembrerebbe un onesto lavoro manuale, non stessimo parlando di teli unici anche di settanta metri per trenta. Solo a sentirlo raccontare, il procedimento fa girare la testa – il disegno preparatorio, a colori, su carta millimetrata; il trasferimento sulla stoffa; la preparazione delle singole parti, già enormi, da applicare in un secondo tempo. E lo sfondo. Tradotto, tutto questo significa sei ore di lavoro al giorno per tre mesi, e in media quattro macchine da cucire buttate: più i viaggi al campo di allenamento del Genoa, per provare i singoli pezzi – uno scudetto, mettiamo, o un grifone. Mai l’insieme, però: per ragioni tecniche, la coreografia da stadio non prevede generali – solo la prima.

Da quando sua nonna, che gli cuciva le prime bandiere, gli ha insegnato la tecnica, Dario non ha più smesso. Ed è diventato un maestro, tanto che negli anni Novanta lo hanno chiamato per preparare il Camp Nou a un match col Real. Sono stati tre giorni belli, dice adesso, ma non entusiasmanti. A partire dal disegno, i tecnici della società hanno proiettato tutta la coreografia coi laser, e a quel punto realizzarla è stato un fatto meramente esecutivo.

Come con Stefano, avrei voluto proseguire. E in effetti abbiamo passato il pomeriggio insieme. Prima davanti a una focaccia col formaggio insieme agli altri del nucleo storico, poi in mezzo ai tifosi che cominciavano a scaldarsi. In una nebbia di fumogeni rossi e blu, Dario mi ha mostrato i vari gruppi in arrivo da fuori: marocchini, bulgari, inglesi – e, chissà perché, udinesi. Mi ha anche indicato alcuni striscioni ai balconi, rivelandomi di averli fatti quasi tutti lui. Sì, perché Dario cuce anche a tempo perso: se qualcuno gli porta la stoffa, e gli dice come vuole uno striscione, si mette al lavoro. Secondo i suoi calcoli ne ha cuciti, letteralmente, centinaia.

Alla fine mi ha accompagnato a ritirare l’accredito, e quando gli ho detto che sarei andato in tribuna, ha fatto una piccola smorfia di disgusto. Dovevi venire là in mezzo, ha detto indicando con la testa la Nord, se no che partita vedi. Va be’ che io non la guardo neanche. Glielo avevo sentito dire nel video, ma credevo fosse una battuta.

«Ma veramente non guardi?».
«Veramente. Mi dàn fastidio, quei colori. Agli occhi. E poi quest’anno, dopo Pescara, partite non ne vedo più».
«Però allo stadio ci vai lo stesso?».
«Sì, ma mi faccio portare una sedia, mi metto in mezzo alla gradinata, e do la schiena al campo».
«Tutta la partita?»
«Sì».

All’ingresso delle squadre sono apparse le scenografie. Sulla Nord, prima un grifone giallo, quindi uno striscione rossoblu. Poi, ogni spettatore ha sollevato un quadrato bianco. La seconda maglia del Genoa. Cosa avrà voluto dire Dario, visto che anche questo disegno, alla fine, era suo? Che la Nord era la seconda squadra? O che lo era quella in campo, rispetto a un Genoa immaginario? Intanto la partita stava per cominciare, e la seconda maglia è stata rapidamente smantellata. Tre mesi di lavoro per trenta secondi di spettacolo. Il tifo calcistico è l’arte più effimera che esista, ma proprio per questo anche la più emozionante.

Il match lo è stato molto meno. Durante le pause guardavo la Nord cercando di trovare Dario, seduto di schiena, e a un certo punto mi è sembrato persino di vederlo. È stata una specie di allucinazione autoindotta, probabilmente: o forse solo un omaggio mentale alla sua coreografia più riuscita.

 

Dal numero 15 di Undici
Fotografie di Mattia Balsamini