Al termine della carriera agonistica, raramente i portieri decidono di diventare allenatori. Abbiamo chiesto ai migliori di loro il perché.
Se scorriamo i nomi degli atleti che hanno caratterizzato i nostri campionati degli ultimi quarant’anni gli unici ad aver provato a sedersi in panchina sono stati Dino Zoff, Walter Zenga e Nando Orsi. Un po’ pochi. Come viceallenatore di Ciro Ferrara, nell’Under 21 prima e nella Sampdoria poi, Angelo Peruzzi sembrava orientato a intraprendere la stessa strada, poi però ha virato sul ruolo più defilato di club manager della Lazio. Vedremo se Marco Landucci, numero due di Massimiliano Allegri alla Juventus ed ex portiere della Fiorentina degli Ottanta, avrà in futuro l’ambizione di diventare il titolare della panchina. Nessuna tentazione, invece, per Enrico Albertosi, Ivano Bordon, Giuliano Castellini, Giovanni Galli, Franco Tancredi, Stefano Tacconi, Luca Marchegiani, Gianluca Pagliuca, Luca Bucci, Fabrizio Lorieri, Francesco Toldo o Christian Abbiati.
Sulle panchine di Serie A e Serie B in quest’ultima stagione non si è seduto alcun allenatore proveniente dai pali. E non è un caso solo italiano. Anche nell’ultima Liga spagnola non ci sono stati ex portieri in panchina, e lo stesso in Premier League o nella Ligue 1 francese. Le uniche eccezioni si sono verificate in Bundesliga con Manuel Baum, allenatore in seconda dell’Augusta promosso a titolare dopo l’esonero di Dirk Schuster, e, soprattutto, in Portogallo con Nuno Espírito Santo, tecnico del Porto (secondo dietro al Benfica), approdato ora in Inghilterra ai Wolverhampton, dove non nutrono pregiudizi sull’affidare la guida tecnica a ex numeri uno, visto che avevano iniziato lo scorso torneo con Zenga in panchina.
Vanno poi segnalati i due commissari tecnici di Spagna e Russia, Lopetegui e Cercesov, le buone prestazioni di Michel Preud’homme alla guida del Bruges, fino a giungo scorso, e le innovazioni di Ricardo La Volpe, noto per aver dato il nome alla salida lavolpiana, quel movimento che, per capirci, in fase di possesso palla prevede l’arretramento del centrocampista tra i due difensori centrali e la contemporanea salita dei due laterali. Nessuno però dei grandi nomi internazionali del passato – da Yashin a Gilmar, da Kahn a Schmeichel, da Dasaev a Banks, da Maier a Barthez – ha scelto di cimentarsi nel ruolo di allenatore.
L’assenza di ex portieri in panchina a cosa è dovuta, quindi? C’è una diffidenza dell’ambiente calcio verso di loro o, al contrario, è figlia di una sorta di pigrizia insita nella categoria nel proporsi? «Sicuramente c’è un pregiudizio nei nostri riguardi, si pensa che non siamo abbastanza preparati da un punto di vista tattico», commenta Dino Zoff, 75 anni, 262 panchine di Serie A tra Juventus, Lazio e Fiorentina, oltre alla guida della Nazionale, con cui conquistò il secondo posto all’Europeo del 2000. «Guardate la mia carriera, dovunque sono stato ho fatto bene e ottenuto buoni risultati, eppure non sono stato considerato all’altezza per altri incarichi». È una storia antica quella della valutazione del portiere per Silvano Martina, numero uno di Genoa e Torino, ora affermato procuratore sportivo: «Ai miei tempi anche nelle valutazioni economiche pativamo il confronto con i nostri colleghi».
«Ai nostri tempi», dice Zenga, «l’allenamento tattico era meno curato,nell’esercitazione undici contro zero per memorizzare i movimenti collettivi il portiere non veniva coinvolto»Per Gianluca Pagliuca, 39 presenze in Nazionale, titolare della porta azzurra nei Mondiali del 1994 e del 1998, la ragione è da rintracciare in un’impreparazione tattica di fondo dei gardien de but: «Onestamente, quando mi allenavo ero molto meticoloso nel curare la preparazione individuale, ma tendevo a distrarmi quando il mister di turno impartiva lezioni tattiche. Forse alla fine, noi portieri ci sentiamo meno preparati sotto questo aspetto». Una ragione che però non convince Zenga, portiere icona nel decennio a cavallo del Mondiale di Italia ’90, per tre anni riconosciuto numero uno al mondo da IFFHS e per sette consecutivi nella top ten mondiale: «Rispetto il pensiero di Pagliuca, ma non sono d’accordo. Chi guida la formazione sui calci d’angolo, chi dà indicazioni sulle imbucate avversarie, chi accorcia la squadra? Il portiere ha un’enorme e crescente importanza tattica». L’ex Uomo Ragno ha costruito la sua carriera da tecnico soprattutto all’estero, guidando i New England Revolution negli Stati Uniti, le tre squadre di Bucarest (National, Steaua e Dinamo), la Stella Rossa in Serbia, il Gaziantepspor in Turchia («nell’Anatolia sudorientale, vicino al confine con la Siria»), e poi molto mondo arabo tra Emirati e Arabia. È stato anche nella shortlist per la selezione del nuovo ct dell’Iraq, conclusasi poi con una scelta interna. «Certo, ai nostri tempi», prosegue Zenga, «l’allenamento tattico era meno curato, nell’esercitazione undici contro zero per memorizzare i movimenti collettivi il portiere non veniva coinvolto, oggi sì. Nel palleggio difensivo devi saper giocare con il portiere, altrimenti parti già in svantaggio».
Anche Luca Marchegiani non crede all’obiezione tattica: «Il portiere ha il vantaggio di una visuale libera, può studiare i movimenti degli attaccanti, conosce gli schemi che fanno andare in difficoltà la sua difesa. Semmai, se un limite vogliamo trovare, è quello di un punto di vista solo difensivo. Non voglio dire che gli ex portieri siano dei difensivisti, altrimenti Zoff si arrabbia. Ho avuto la fortuna di essere allenato da lui nella Lazio, ed era un gigante, per esperienza, leadership, carisma». Lui, Dino, in effetti se la ride su questo concetto che gli ex portieri non sarebbero in grado di insegnare calcio alle punte: «Andate a vedervi le statistiche delle mie squadre. Tutti ricordano Zeman, ma Beppe Signori alla Lazio è stato capocannoniere per due anni con me, e Totò Schillaci arrivò in splendida forma a Italia ’90 dopo aver brillato nella mia Juventus. Forse qualche consiglio giusto lo sapevo dare». Va anche detto che ai vertici del calcio mondiale sono arrivati tecnici dal passato non eccelso come calciatore: Arrigo Sacchi, Marcelo Bielsa o José Mourinho (figlio di Felix, ex portiere ed ex allenatore, recentemente scomparso).
Secondo Marchegiani al portiere si rimprovera una visione limitata a 180 gradi, rispetto a quella di un centrocampista, che può osservare tutte le fasi di gioco, a 360 gradi. È questo ad esempio l’opinione dell’ex Pallone d’oro Roberto Baggio che, in un’intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato: «I centrocampisti sono i calciatori che conoscono meglio le due fasi di gioco, quella offensiva e quella difensiva. Quindi sono i più portati a fare gli allenatori. Chi gioca in mezzo ha più conoscenze».
E quanto incide invece l’aspetto caratteriale, la solitudine del numero primo, come è stata chiamata? Il portiere è un pezzo unico di una scacchiera che «condannato a guardare la partita da lontano, senza muoversi dalla porta, attende in solitudine, fra i tre pali, la sua fucilazione», scriveva Galeano. Per Zenga la paternità della diffidenza va rintracciata nel vecchio preconcetto dei portieri dipinti come i folli della compagnia: «Di me ricordano sempre il giocatore fumantino che affrontava il guardalinee o si prendeva con qualche avversario. Non si guarda alle competenze, ai risultati, alle esperienze acquisite» «Lasciate perdere le esteriorità istintive di un momento, la verità è che il portiere esprime un grande valore umano», ribalta Francesco Toldo, «spesso è un fratello maggiore, la persona di riferimento a cui aggrapparsi, quella che armonizza le dinamiche della squadra. Il portiere è uno che fa gruppo». Guidato proprio da Zoff, Toldo fu l’indimenticato protagonista della semifinale degli Europei del 2000 contro l’Olanda, dove parò ben tre rigori agli Orange. «Averlo come ct fu una situazione per me singolare, per la prima volta avevo un allenatore ex collega. Certo dovevo sgranare gli occhi e aprire bene le orecchie quando mi dava delle indicazioni, perché doveva occuparsi di tutta la squadra. Era strano però per me, sentire un portiere preparare la partita».
L’immagine del portiere armonizzante non persuade molto Enrico Brizzi, romanziere saggista, grande appassionato di football, che spesso ha utilizzato come ambientazione per i suoi romanzi. «Nella mia esperienza di difensore amatoriale, ho conosciuto solo portieri individualisti, indisciplinati ed estrosi, anche fuori dal campo. Creature ontologicamente diverse. Mi sono sempre chiesto cosa pensava il portiere quando rimaneva da solo, perché il pallone era nell’altra metà del campo e con esso noi tutti, avversari e compagni. O anche come faccia a non tremare quando tornavamo di corsa verso di lui, tra timori e speranze. Ecco, il portiere è uno abituato a fronteggiare incubi e diavoli. Incarna la poesia del buon selvaggio, di colui a cui non serve la cultura per vivere bene. È un anarchico individualista che si arroga il diritto di come far cadere la sorte, non troppo interessato agli altri, perché non può curarsi delle pene altrui, ma deve rimanere spietato nel suo essere messaggero del destino. Uno così non fa l’allenatore. Quando Zoff divenne ct della Nazionale ero felicissimo, nel mio Olimpo di ex bambino nel 1982, nulla vi era più in alto di lui, Pertini e Batman. Ma ero consapevole fosse un’eccezione, come un Chilavert che fa gol».
Giuliano Terraneo, che da portiere ha difeso le porte di Torino, Milan, Lazio e fu protagonista di un clamoroso rifiuto al Manchester United di Alex Ferguson, non crede ci sia una ostilità da parte delle dirigenze nello scegliere un portiere. Dopo le esperienze da dirigente con Inter, Barcellona e Fenerbache, ora Terraneo fa il consulente per varie società e ricorda come a lui stesso è capitato solo in un’occasione di consigliare un ex collega: «A una squadra inglese con cui collaboro avevo suggerito Leonid Sluckij, l’ex ct della Russia, ma hanno preferito puntare su un altro nome e Sluckij è andato all’Hull City. Personalmente sedermi in panchina non mi ha mai interessato, anche se inizialmente presi il patentino. Preferivo già da allora incarichi più gestionali, certo forse una proposta da allenatore manager all’inglese, con responsabilità ampie anche fuori dal campo, avrebbe potuto interessarmi».
Al di là di una possibile sfiducia nella categoria, va registrato il dato oggettivo dei pochissimi ex portieri che si lanciano in una nuova carriera, anche in serie minori. Al recente Master di Coverciano della Figc per formare futuri tecnici si sono iscritti ex calciatori come Esteban Cambiasso, Mohamed Kallon, David Di Michele, Ibrahim Ba, Riccardo Zampagna, Sasa Bjelanovic, ma nessun portiere. «È solo una questione di tempo», rassicura però il presidente dell’Assoallenatori, Renzo Ulivieri, «una volta i portieri erano fuori dal gioco. Oggi interpretano tre fasi: parare, difendere e costruire. Non arrivano ancora alla conclusione in porta, ma sono più partecipi al gioco collettivo della squadra e vedrete che nel tempo avremo sempre più ex portieri che decideranno di fare gli allenatori».
«Il nostro è un ruolo molto particolare da un punto di vista psicologico, dove si deve lavorare molto su stessi»Dopo una vita trascorsa sull’ultima trincea, l’ex portiere preferisce – almeno per il momento – ruoli meno di confine, all’interno negli staff tecnici, dove la responsabilità è condivisa. Si stringono così sodalizi come quello che lega Franco Tancredi a Fabio Capello, con cui collabora ora in Cina dopo averlo già fatto alla Juventus e con le Nazionali d’Inghilterra e Russia, oppure il binomio tra Ivano Bordon e Marcello Lippi, insieme alla Juventus, all’Inter e alla Nazionale. In altri casi il rapporto di fiducia è con il club come accaduto tra l’Inter e Luciano Castellini, pretoriano di Massimo Moratti che a lui si affidò anche come tecnico d’emergenza dopo gli esoneri di Roy Hodgson (’97) e di Mircea Lucescu (‘99). Ci sono poi portieri che scelgono di rimanere nel calcio intraprendendo altre strade, come i già ricordati Terraneo, Martina, Toldo (ideatore del progetto Inter Forever, la community degli ex giocatori nerazzurri), o ancora Giovanni Galli, Luca Marchegiani e Nando Orsi, apprezzati commentatori televisivi.
Proprio quest’ultimo, Orsi, che a caricarsi il mondo sulle spalle ci ha provato con una breve esperienza al Livorno di Aldo Spinelli, dopo essere stato per quattro anni il vice di Mancini alla Lazio e all’Inter, spiega così la scelta di lavorare negli staff. «È la comfort zone del portiere. L’area di rigore è il suo possedimento, si vive spesso in solitudine e alla fine si tende a voler ripercorrere la stessa strada. E questo è un peccato, perché noi portieri avremmo tutte le potenzialità per affermarci come allenatori, abbiamo una visione del gioco come nessun altro, conosciamo e studiamo i movimenti degli attaccanti, leggiamo gli inserimenti, dirigiamo la difesa». Uno che ha scelto questa strada “comoda” è Bordon, che a 21 anni giocò (perdendola) una finale di Coppa Campioni contro l’Ajax di Johann Cruyff: «Già negli ultimi anni di carriera avevo deciso che avrei fatto il preparatore. Il nostro è un ruolo molto particolare da un punto di vista psicologico, dove si deve lavorare molto su stessi. Ancora oggi, anche se si partecipa di più all’azione, il portiere rimane solo in un gioco collettivo. Nudo e vulnerabile, come nessun altro, alle critiche per un unico, ma decisivo, errore. Al termine della carriera si preferisce lavorare con altri portieri perché il lavoro psicologico che facevamo su noi stessi lo proiettiamo sui giovani allievi e poi siamo ancora innamorati di questo ruolo, dei tuffi e delle uscite, e riviverlo in un erede fa piacere».
Per Zenga alla fine il portiere fatica a sedersi in panchina per un eccesso di leadership, come capita ai fuoriclasse del passato. «Dei grandi campioni della storia, a parte Zidane, chi ha sfondato come allenatore? Pelé, Rivera, Maradona, Zico, Matthaeus, Platini, Baggio, Van Basten, Gullit, Beckham… nessuno!». In controtendenza, il numero uno attuale, e forse della storia, Buffon, che non ha escluso un futuro in panchina, crede nel binomio portiere-allenatore, purché sia frutto di un percorso programmato: «Se un portiere tentasse la carriera di allenatore al termine della sua attività, senza aver mai lavorato su questa idea prima, difficilmente potrebbe avere successo. Ma se durante la sua esperienza professionale provasse la curiosità di voler imparare le dinamiche dell’organizzazione del gioco e acquisire gli insegnamenti giusti dagli allenatori con cui lavora nel corso dei suoi anni di carriera, avrebbe tutte le possibilità di diventare un ottimo tecnico».
Per risolvere l’enigma dell’idiosincrasia tra portiere e allenatore, lo scrittore Sandro Veronesi offre un’altra chiave: «Nessuno di loro lo ammetterà mai, ma alla fine la ragione inconfessabile è quella che in cuor loro i portieri tifano per gli avversari. Come tutti gli atleti, anche loro vogliono mettersi in mostra e l’unico modo per farlo è di vedere la squadra nemica avanzare, prendere campo, avere magari anche un rigore contro. Per un portiere non esiste il concetto di battere l’avversario tatticamente, per lui la supremazia è “te le paro tutte”. Per l’allenatore lo scopo è l’opposto, non far tirare l’altra squadra. Si crea un dualismo già su questo. Se un portiere è il migliore in campo, l’allenatore ha poco da rallegrarsene, perché vuol dire che la sua squadra ha subìto gli avversari, magari proprio a causa sua, perché ha sbagliato la formazione o delle marcature».