Guardiola ha rovinato i difensori?

Più abili nel palleggio, meno marcatori puri: «un buco generazionale», secondo Chiellini. Ma è tutta colpa del tecnico catalano?

Il concetto di selezione naturale è stato introdotto da Charles Darwin nel 1859, nel libro L’origine della specie. Si tratta di un’opera inizialmente discussa, che finirà per diventare un riferimento universale, non solo per la biologia ma per la teoria scientifica intesa in senso assoluto. Darwin spiega che tutte le strutture genetiche si evolvono in relazione all’ambiente circostante, chiarisce come in un gruppo potenziale di mutazioni casuali ci siano trasformazioni “selezionate” che portano gli organismi ad avere caratteristiche più vantaggiose in determinati contesti. È un’immagine potente, totalizzante, ed è facilmente traslabile a tutti gli aspetti della vita umana e della socialità. Anche allo sport e al calcio, soprattutto per quanto riguarda il racconto dello sviluppo tattico del gioco: tutte le grandi rivoluzioni teoriche lungo la storia del football hanno modificato la percezione dei calciatori, i modelli di riferimento e quindi le richieste rispetto alle loro qualità tecniche. Proprio a causa di queste variazioni al sistema di concetti e significati iniziali, i cambiamenti più significativi hanno avuto una ricezione e un impatto controversi.

In Italia, uno dei dibattiti calcistici degli ultimi giorni – ovviamente “alimentato” anche dalla clamorosa eliminazione della Nazionale dai Mondiali di Russia 2018 – si è basato sulle parole di Chiellini, che ha individuato un legame causa-effetto tra l’esplosione del guardiolismo e l’impoverimento della nostra scuola difensiva: «C’è un buco generazionale, perché il guardiolismo ha rovinato un po’ tanti difensori italiani. Ora i centrali sanno impostare, si allargano tutti per giocare, e non ce n’è uno che marchi l’uomo». Analizzare il discorso del difensore della Juventus significa affrontare uno studio che abbraccia un lunghissimo arco temporale, non solo il decennio scarso condizionato dalla filosofia di Guardiola e delle sue applicazioni; vuol dire riconoscere un caso di selezione naturale, un meccanismo di adattamento innescato nei primi anni Settanta – quando Pep non aveva ancora in programma di diventare un calciatore o un allenatore, né tantomeno di contribuire fattivamente alla trasformazione del gioco.

Molto prima di Guardiola venne codificato il Calcio Totale: letteralmente “A caccia della palla”

Nella sua autobiografia, Johan Cruijff spiega come le due grandi rivoluzioni calcistiche di cui è stato protagonista attivo (l’Olanda del Total Voetbal e il Barcellona del Dream Team) siano state fondate sulla modifica delle dimensioni e dei movimenti di gioco: «L’obiettivo della fase difensiva collettiva è il restringimento degli spazi. Per questo, la mia coppia di centrali al Barcellona era composta da Guadiola e Koeman: entrambi non erano veloci né difensori puri, eppure stazionavano nella metà campo avversaria, con il portiere che restava sempre alto per prevenire i lanci lunghi degli avversari. In questo modo, i giocatori impegnati nella fase passiva non devono fare scatti di trenta metri, ma coordinarsi per movimenti più brevi. Dopo il recupero del pallone, è necessario eseguire il gioco di posizione, per il quale ogni volta si formano nuovi triangoli – così che il calciatore in possesso palla abbia sempre due possibilità di passaggio. Il personaggio chiave, in questa situazione, è il terzo uomo. È lui che decide cosa succede. Sono i giocatori senza palla a direzionare il passaggio. Poi, l’appoggio deve essere effettuato in maniera precisa. Alla base di tutto il nostro lavoro in allenamento c’è sempre stata la tecnica di base».

La (doppia) rivoluzione di Cruijff è stata costruita sul pressing organico, collettivo e sistematico in fase difensiva, e sull’esasperazione del possesso palla per la manovra d’attacco. Sono i concetti alla base del guardiolismo, codificati con largo anticipo rispetto all’approdo di Pep sulla panchina del Barça B, nel 2007. Ma sono anche i postulati che inducono a riscrivere l’approccio al gioco, quindi anche il concetto di allenamento:  si è passati in maniera graduale da una preparazione per sviluppi di gioco a una per principi di gioco, il fine di una squadra è diventato imporre in ogni partita una serie di concetti chiari, necessariamente condivisi da tutti gli elementi in campo. Sempre dall’autobiografia di Cruijff: «Il portiere è il primo attaccante, il centravanti è il primo difensore». Per rispondere alle richieste di un contesto che ha cercato nel tempo di riprodurre questa impostazione tattica, con undici uomini impegnati per 90′ in un lavoro composito, i calciatori hanno dovuto adattarsi, proprio come le strutture genetiche per la selezione naturale. Sono cambiate le specificità fisiche riferite ai vari reparti, soprattutto si è ampliata la richiesta tecnica anche ad altri ruoli in campo. Di conseguenza è mutato l’obiettivo della formazione: un percorso di definizione e specializzazione è diventato di completamento, la costruzione di un giocatore si è trasformata in un lavoro di addizione continua, piuttosto che di concentrazione rispetto a caratteristiche particolari.

Un processo di questo tipo doveva obbligatoriamente influenzare percezione e didattica del difensore centrale, il ruolo con la caratterizzazione storica più lontana dal nuovo paradigma. All’interno di un articolo pubblicato a giugno del 2016 dal Guardian, che tratta lo stesso tema toccato da Chiellini in riferimento alla nazionale inglese, le parole di James Scowcroft – ex attaccante di Ipswich e Leicester, oggi preparatore nell’academy del Town – spiegano questa dinamica: «Nei nostri settori giovanili, l’insegnamento dell’arte difensiva non è incoraggiata come una volta. C’è un accento più tecnico, i difensori sono tenuti a portare palla e a chiedersi e chiederci: “Ora cosa devo farci?”. La mentalità è cambiata, c’è una nuova cultura del gioco che sembra aver bypassato l’apprendimento delle nozioni difensive».

Barcellona, stagione 2009/2010: 3 minuti scarse di azioni offensive partite dalla costruzione bassa, dall’impostazione dei difensori.

In una conferenza tenuta nell’estate del 2009, Pep Guardiola utilizza quasi gli stessi identici termini di Cruijff per definire la sua idea di fase passiva: «Alla fine tutto si basa sul pallone, sul recupero e il mantenimento del possesso. Tutti i calciatori devono essere pronti ad aggredire gli avversari in caso di un appoggio errato, e se partiamo da posizioni difensive più avanzate il nostro sforzo fisico si riduce a scatti brevi, magari di cinque metri. In seguito, una serie di cinque o sei passaggi di fila permette di cambiare le dinamiche di un’azione, l’inerzia del gioco. E, potenzialmente, della partita».

Attuando la sua rivoluzione, Guardiola ha riportato al centro del discorso tattico una riedizione del Calcio Totale in chiave moderna. Ma soprattutto ha aperto un ciclo di vittorie basate su questa filosofia, quindi il suo gioco è diventato un nuovo benchmark, un modello di riferimento. In uno scenario del genere, era ineluttabile che la figura del difensore centrale venisse resettata in maniera definitiva, anche se in realtà è più corretto parlare di un aggiornamento alle nuove esigenze, di un’integrazione additiva. Di un adattamento al contesto, praticamente una mutazione genetica per selezione naturale. Nel libro “Pep Guardiola, la metamorfosis“, scritto da Marti Perarnau  e pubblicato nell’ottobre del 2016, questa evoluzione è spiegata in maniera chiara: «I centrali delle squadre di Guardiola devono difendere la propria zona come qualsiasi difensore, con la stessa abilità, con la stessa aggressività, con la stessa destrezza. Ma devono anche essere eccellenti in un altro aspetto: l’uscita pulita della palla. Senza questa qualità il gioco di posizione non esiste e non è possibile stabilirsi e imporsi nella metà campo degli avversari. Dai difensori centrali comincia il viaggio, si origina la manovra d’attacco, anche loro devono essere veloci, audaci, capaci di prendersi dei rischi. Devono essere proattivi».

Le parole di Chiellini, per tornare all’inizio del nostro discorso, sono quindi giuste nella sostanza: un cambiamento c’è stato, e ha riscritto – forse irrimediabilmente – il ruolo e l’idea stessa del difensore centrale. Solo che esprimono concetti fuori dal tempo, o comunque fuori tempo massimo: l’esplosione del guardiolismo, una detonazione composita di successi e nuova estetica calcistica, non è la causa del cambiamento di prospettiva. Piuttosto è una legittimazione definitiva, perché impressa anche negli albi d’oro, di un percorso di trasformazione già in atto da molto tempo. E che fa riferimento a teorie ed ideologie tattiche che nascono prima dello stesso Guardiola, ma si affermano compiutamente dopo di lui – in questo senso, si può fare riferimento alle parole di Pep su Marcelo Bielsa: «È il miglior allenatore del mondo per l’influenza che ha avuto nello sviluppo del gioco, ogni confronto che ho avuto con lui mi ha sempre aiutato». Del resto sarebbe eccessivo ricondurre tutto al tecnico catalano: come scritto in un editoriale di Panenka, «guardiolismo e antiguardiolismo hanno poco a che fare con Guardiola, in realtà è una battaglia ideologica che si rinnova da sempre: industria contro arte, pragmatismo contro immaginazione». È il discorso sull’impatto fragoroso di certe teorie e di certi risultati, della sua natura controversa, una condizione inevitabile quando avvengono le grandi rivoluzioni.

La prima stagione al Bayern Monaco di Mats Hummels, prototipo del difensore centrale moderno (che non è mai stato allenato da Guardiola)

La supernova guardiolista ha innescato un meccanismo di velocizzazione rispetto a un cambiamento tecnico e tattico già in atto, un cambiamento che in qualche modo è stato anche culturale. Già nel gennaio 2012, il sito della Uefa pubblicava un articolo in cui venivano riassunte le nuove teorie e tecniche del difensore centrale. Questo è uno dei passaggi più significativi, ed è sostenuto anche dalle parole e dai numeri di alcuni statistici: «Ora le grandi squadre costruiscono l’azione partendo da dietro, facendo girare il pallone. Inoltre le analisi di Opta Sports dimostrano che, mentre i calciatori diventano più atletici, gli intercetti hanno sostituito il tackle come dote fondamentale per un difensore moderno». Probabilmente non è un caso che il pezzo si concluda con la frase: «Resta da vedere se sia solo una moda o una vera evoluzione darwiniana».

A quasi sei anni di distanza, la tendenza non è cambiata, e va decisamente oltre Guardiola. La figura del difensore centrale contemporaneo, che costruisce e legge il gioco piuttosto che distruggerlo e basta, viene esaltata dai numeri e dalla narrazione degli addetti ai lavori. Sei mesi fa, Bonucci è stato eletto dal Telegraph miglior difensore del mondo proprio per «la capacità di distruggere la fase passiva avversaria con un passaggio illuminante e per la contemporanea qualità nella difesa posizionale»; Nicolás Otamendi, Jan Vertonghen e John Stones sono rispettivamente quarto, sesto e decimo nella classifica dei palloni giocati in Premier League, un campionato considerato tatticamente poco affine a certe ideologie di calcio. Insomma, il processo di selezione naturale è ancora in corso, è inarrestabile. E per qualcuno va bene così. Gary Neville, ad esempio. In un contributo del 2014 per il Telegraph, l’ex terzino del Manchester United ha scritto: «Tendo a guardare tutto da un punto di vista difensivo, evidentemente dovrò cambiare mentalità. Non è colpa dei calciatori se un certo tipo di marcatura o di contenimento non fanno più parte del loro modo di giocare. Allo stesso tempo, però, la velocità è molto più alta, il livello tecnico è fantastico, è tutto così elettrizzante. Andiamo di nuovo incontro a un’era di calcio audace, come negli anni Quaranta e Cinquanta. Evidentemente, il gioco è andato in letargo dagli anni Settanta agli anni Novanta, quando prevalevano organizzazione e struttura difensiva. Oggi stiamo rivedendo il calcio per com’era stato pensato e previsto, forse».