Senza Mondiale

Sei firme indagano, tra passato e futuro, sul significato di un'estate mondiale senza Italia, e sulle sue ripercussioni emotive, più che sportive.

Ezio Azzollini

Può darsi occorrano poche parole per spiegare l’impatto di ogni estate mondiale nelle nostre vite. Non ne occorreva nessuna, per esempio, a nostra nonna undici anni fa. Di anni lei ne aveva già ottantasei, di ictus alle spalle uno e mezzo, e nei giorni di Berlino aveva deciso di andarsene in Toscana, per l’ultima volta, dagli zii. Pretese di lasciarci le chiavi di casa, perché così s’era sempre fatto, e non vedeva perché la cosa dovesse cambiare. Pretese che tutti quanti, anche senza di lei, andassimo al suo appartamento, con il balcone al primo piano sulla via d’accesso alla città, perché era ottimale per i caroselli. Sponsorizzò pizze e birre, e chiamò all’intervallo per controllare che fossero arrivate. Questa è la Berlino di nostra nonna, e questa è la mia Berlino: una decina di personaggi sfatti ed ebbri di gioia su un balcone senza proprietaria. L’estate che verrà, l’appartamento al primo piano rimarrà vuoto e chiuso a chiave. La proprietaria non c’è più da un po’, e io non lo so se si possa morire un’altra volta, dopo la prima. Ma giurerei che a noi, il giorno del calcio d’inizio in Russia, lei mancherà un po’ di più.

Quanto i suoni ed gli odori di un Mondiale siano destinati a diventare quelli della nostra vita lo spiegano bene i social, in queste ore. Tra i suoni della mia, ci sono le conversazioni improbabili che solo un Mondiale regala, come quella feroce, a undici anni scarsi, contro quelli che «con Baggio si gioca in dieci». A vent’anni avevo perso un po’ di quell’animus pugnandi, ma in compenso avevo nelle narici l’odore ingombrante del sigaro di mio zio. Finché non era sceso in strada, lontano dalla tv, senza dir niente a nessuno, andandosene e basta, perché ai rigori contro la Francia era davvero troppo. È così che zio scoprì che eravamo campioni del mondo: sentendolo dalle finestre, fumando per strada nella città vuota.

Non sono disposto a pensare alle nostre infanzie, alle nostre adolescenze senza quei suoni e quegli odori. Non lo era nostra nonna, non lo sono io, ma dovrà esserlo una generazione di ragazzini che verrà scaraventata direttamente a vent’anni, senza conoscerli mai. «Ma dài – diranno quelli bravi e di sufficiente spessore morale –. È colore e struggimento per poeti e romanzieri. La vita vera è un’altra cosa». Non esattamente. Anche perché un paio di considerazioni andrebbero fatte. La prima: a undici anni, di quali sogni più grandi di quelli incarnati dalla nostra squadra – anzi, della squadra di tutti – a un Mondiale eravamo capaci? Cosa sognavamo di più grande e più nobile, nelle sere della vigilia, nei pensieri prima dormire? Poi la seconda, forse più fondamentale: in quella fase della vita che va dalla caduta dei denti da latte all’età matura, quante cose sono state capaci di educarci alla sconfitta, al valore del percorso più che del risultato, di insegnarci che può accadere, per quanto grande possa essere il nostro impegno, di non arrivare a ciò che desideriamo, quanto l’Italia ai Mondiali? Esiste pedagogia altrettanto potente, fatale e inappuntabile? Siamo superficiali se, ora che i capelli bianchi e la pancia iniziano a fare scempio di noi, crediamo che quasi niente ci abbia insegnato la vita più di Baresi in lacrime a Pasadena? Di tempo, purtroppo, non ne mancherà: magari servirà ad instillare il dubbio, negli immancabili soloni che tentano generosamente di insegnarci che la vita è un’altra, che almeno questa volta il problema sia sentimentalmente, culturalmente e socialmente un po’ più complesso di quanto ritengano. O, forse, semplicemente più triste.

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Alfonso Fasano

Il giorno prima di Italia-Slovacchia, lo ricordo bene: un sms di M. mi diceva che «Domani c’è una partita da vincere». Estate 2010, la mia prima stagione da responsabile in un villaggio vacanze e il terrore di non essere pronto. Era il primo Mondiale da postadolescente, avevo vissuto la gioia del 2006 con gli amici di sempre e la spensieratezza del liceo. Italia-Slovacchia fu uno strazio, però di me e di quell’estate ho un ricordo dolce: andò tutto bene, alla fine ero pronto per davvero. Nel 2014 sono partito che l’Italia era già stata eliminata, io andavo a lavorare e i giocatori andavano in vacanza dopo Suárez e Godín. M. c’era ancora, lei c’è sempre stata, e mi informava sui risultati delle altre – per esempio ho saputo del Mineiraço via sms, non riuscivo a crederci. In realtà studiavo già da giornalista, immaginavo che il torneo del 2018 l’avrei seguito per lavoro, al computer, in tv, o magari dal vivo, in Russia. Ero pronto per crescere ancora un po’, coltivavo speranze in vista di un nuovo Mondiale: io e l’Italia che partiamo e riportiamo tutto a casa, insieme.

La mia estate senza Coppe del Mondo sarà soprattutto questo: un appuntamento che era certo e poi invece è saltato. L’Italia doveva esserci e non ci sarà, mentre io incontrerò comunque il nuovo me stesso. Solo che succederà senza la certezza delle cose che non cambiano: gli stessi amici, quelli che sono rimasti, che fumano e imprecano; gli idealisti che non vogliono tifare e poi esplodono, non riescono a contenersi; l’ansia e la rabbia e la gioia e la delusione, poi tutto dipende da come va il gioco ed è proprio così che nasce la bellezza. È impossibile raccontare i Mondiali senza utilizzare le retorica del sé, del proprio gruppo, degli affetti, del tempo che passa. Anche perché è tutto fottutamente vero, pure quando magari il calcio è diventato davvero il tuo lavoro e allora vorresti pensare di essere serio e professionale ma proprio non ce la fai, ti rode che l’Italia non ci sarà e dovrai aspettare altri quattro anni per tornare adolescente, anche solo per il tempo breve di una partita. In compenso M. c’è ancora, e mi ha già detto che «a giugno siamo più liberi, quest’anno». Ha sempre finto per farmi contento, evidentemente.

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Cristiano Carriero

Se oggi ricordo nitidamente cosa accadde il giorno in cui ho baciato per la prima volta una ragazza, lo devo a Roberto Baggio e a Beppe Signori. Ci sono loro, in un piccolo televisore Grundig di inizio anni ’80, che si abbracciano, inginocchiati sull’erba di Boston. Mondiali 1994. «Vieni qua Bepi», dice Roberto dopo aver saltato Zubizzarreta e aver mandato mandato in estasi noi ragazzini. Poi il mio sguardo che incrocia il suo. Farei fatica a ricordare l’anno, ma per fortuna le estati non sono tutte uguali. Ci sono quelle vuote degli anni dispari, e poi, per fortuna, quelle dei Mondiali. Come le notti del 1990, con mia madre che preparava la focaccia col sale grosso e mio padre che invitava i suoi amici, autorevoli dissertatori di pallone ai miei occhi, a casa. Io, al mio primo grande appuntamento sportivo, ho dieci anni e un quadernetto in cui colleziono ritagli di giornale e i risultati delle squadre divise per girone. Mia madre ha uno sguardo amorevole, mi ricorda quando battevo i coperchi delle pentole nel 1982. Ma avevo solo 3 anni e non mi fregio di aver vinto quel Mondiale. Ho dato l’orale della maturità il giorno dopo Francia-Italia del 1998. Con Baggio, ancora lui, che dice «È uscita di tanto così» e io che dopo aver sbagliato un accento sulla metrica di Odi et amo di Catullo ripeto quel gesto davanti alla commissione. E poi le maglie attillate di Corea 2002. Le sessioni di luglio con la sveglia alle 7 per vedere la partita. I tavolini ribaltati a Fabriano, per il gol di Grosso in semifinale. La notizia che non mi avrebbero confermato il contratto alla Indesit. Le vuvuzuelas. Le fughe dal mare per poter vedere Italia-Inghilterra del 2014. «Andiamo a casa, non mi va di vederla in mezzo alla gente, voglio stare concentrato». E invece all’ultimo decido di andare in quel locale, e per la prima volta incrocio gli occhi della persona che amo. Come in un romanzo, c’è Balotelli sullo sfondo di questa storia. Che anno era? E come fai a scordarlo? Ci sarà sempre un gol di Grosso, un rigore di Baggio, uno stinco di Totò Schillaci a ricordartelo. Accadranno comunque cose belle e indimenticabili nel 2018. Rideremo, ci innamoreremo, resteremo svegli fino a tardi. Ma a questo universo narrativo forse mancherà un riferimento a cui appigliarsi tra cinque, dieci, venti anni. I Mondiali hanno, per noi appassionati, il potere di custodire immagini che dovrebbero essere soltanto fotografie ingiallite, e invece sono fotogrammi nitidi. L’odore di casa della nonna, le canzoni sulla spiaggia, gli abbracci che non dimenticheremo. Ci danno 5 minuti di recupero. È un tempo inutile. I giocatori cadono a terra, fucilati dal triplice fischio. Noi ci guardiamo attoniti, e ci chiediamo se è tutto vero. L’idea, mai considerata, di un’estate senza Italia ai Mondiali.

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Roberto Venturini

C’hanno levato Francesca Sette alle feste delle medie. Pressappoco funzionava così: quando non c’era Francesca era una festa a metà. Tutti noi ragazzi speravamo ci fosse perché la sua sola presenza giustificava l’emozione di un compleanno non tuo che se anche lei non ti parlava, o lo faceva con qualcun altro, tu eri contento lo stesso perché lei era bella che riempiva i compleanni. I popcorn homemade erano deliziosi, la Fanta una bibita inarrivabile e i panini all’olio con il salame e il cotto erano tipo le cose commestibili più buone al mondo. Poi quando prima di qualcuna di queste feste si veniva a sapere che lei non ci sarebbe stata la depressione ci invadeva tutti, a noi ragazzi. Cioè, ai compleanni ci si andava lo stesso. Sia ben chiaro. Se andava bene si riusciva anche a trescare forte. C’era sempre la Lemonade, l’acqua frizzantissima Guizza e le pizzette con lo strutto. E poi le luci psichedeliche che poco più era un attacco epilettico. Il momento maglietta madida di sudore ballando La mia banda suona il rock e Sciogli le trecce ai cavalli non ce lo facevamo comunque mancare. Però Francesca Sette non c’era ed era tutto un po’ meno.

Quest’estate snorkeling a Ustica con la ragazza che abbiamo corteggiato tutto l’anno lo faremo lo stesso. Saremo felici organizzando falò illegali sulla ridente spiaggia di Torvaianica sul litorale romano; organizzeremo financo uscite fra amici con tappa obbligata al chiosco di piazza Quadrata bevendo lemoncocco corretto alla vodka, o al gin, parlando dell’orrido indie di ritorno che sta affliggendo la musica italiana. Però non sarà lo stesso. Sì, certo, magari la spaghettata col sugo al tonno, e la Peroni che sgrassa, guardando la finale di Supercoppa italiana la faremo lo stesso. A limite mediamente pure l’evento pizza a taglio e romanella guardando Brasile-Germania. Ma sarà diverso. Ci priverete di fingere biecamente di avere impegni improbabili per non uscire perché: TI PARE CHE NEL 2018 UNO NON ESCE PER VEDERE UNA PARTITA DI PALLONE! Ci negherete di ansimare daje Danielì abbattilo Neymar (n.d.a Danielì sarebbe Daniele De Rossi, chi scrive è laziale e Dio solo sa quanto gli sarebbe costato), Cirù tiragli ‘na saracca, Gigiò che la Madonna ti protegga sempre. Odiosa banda Ventura vi biasimerò per sempre perché questo Mondiale 2018 sarà come quando Francesca Sette non veniva alle feste delle medie.

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Simone Torricini

Nel luglio del 2006 compivo otto anni. Mi interessavo del calcio quel tanto che bastava, e se non ricordo male avrei visto la mia prima partita dal vivo, in uno stadio, soltanto qualche mese dopo. Della finale di Berlino, io che non ho una gran memoria, ricordo nel complesso poco e nulla; e anzi, sono abbastanza sicuro di aver trascorso buona parte di quelle due ore a farmi i fatti miei. La location la ricordo bene, perché ero in Puglia con la mia famiglia e il mare, beh, parlava da solo. Immagino che il piazzale del villaggio fosse piuttosto pieno intorno alle 23 del 9 luglio – anche se pure questo è un dettaglio che fatico ad estrarre. Ma c’è un momento, che è poi quel momento, che sono in grado di ripercorrere in tutta la sua brevità. Il boato che mi fece irrigidire, i piedi che si staccarono da terra, quell’inquadratura un po’ strana direttamente dal campo che prese Pirlo per primo e via via tutti gli altri esplodere in una corsa senza meta. È una frazione di secondo, un vero e proprio istante che conservo dentro in maniera del tutto naturale. Ne faccio una testimonianza, per me stesso prima di tutto, di come il calcio in sé e il sentimento di aggregazione della Nazionale siano in grado di incidere sulla sfera emotiva delle persone. Con il trascorrere degli anni ho maturato convinzioni poco sensate verso la Nazionale: mi sono professato, nell’ordine, indifferente, anti-tifoso e ignavo. Oggi che l’accavallarsi di problematiche di varia natura ha portato l’Italia a fallire la qualificazione al Mondiale mi sento coinvolto, e mi dico deluso. L’idea che quel frangente non sarà ripetibile ancora per molto provoca la nostalgia, ma anche un sano, patetico ed immotivato senso di rancore. Un po’ verso tutti: guardando in casa nostra, verso chi poteva fare di più e non l’ha fatto, ma anche in casa degli altri, verso chi al Mondiale ci andrà, e quel frangente lo vivrà magari per la prima volta. Perché in fondo per noi era importante, e forse lo avremmo anche meritato. Ma diciamocelo, almeno a posteriori: siamo sicuri che il merito conti davvero qualcosa?

Soccer Fans in Italy Watch Worl Cup Match

Ilaria Calamandrei

Sta arrivando l’inverno e non solo non ci sarà nulla di calcisticamente emozionante da aspettarsi dall’estate perché guarderò i Mondiali super partes – manco l’Olanda, l’unica altra squadra che per me ha senso tifare, si è qualificata – ma sì è pure aperta larghissima una fogna di chissenefrega, di luoghi comuni, strumentalizzazioni politiche, moralizzazione e opinioni, caos totale in Federazione. Ci ha preso in giro mezzo mondo – ovvio, ne abbiam vinti quattro, siamo i grandi assenti per antonomasia. E tolto il sorteggio dei gironi, che ci ha messo in gruppo con la Spagna di questi ultimi anni – fortissima, organizzatissima, con un bacino di rinnovo giocatori di qualità che pare non esaurirsi – non c’è neanche andata di sfiga nello spareggio, ce lo siamo meritato proprio di perdere contro la Svezia, e questo è un giudizio tecnico. Il prezioso e tenace lavoro di Conte dell’anno scorso su un gruppo scarso è stato annullato completamente dalle scelte di Ventura.

Adesso sembra il panico totale se non si fanno un po’ di considerazioni razionali. Le estati senza mondiali saran due fila, perché i Mondiali 2022 in Qatar saranno invernali. Questo è, e salvo miracoli, non ci si può fare niente. Bisogna pensare di già agli Europei edizione speciale itinerante del 2020 e alla possibile qualificazione anticipata via Europe Nation League in cui noi, bocciati alle qualificazioni del Mondiale prossimo venturo, siamo comunque già stati messi in prima fascia. Insomma, chi sperava di essersi levato il calcio dalle scatole, resterà deluso, si torna già tra un anno. L’interrogativo come? resta, per ora, in sospeso. Io credo solo che bisognerebbe andare avanti verso questo Europeo che abbiam vinto solo nel ’68, senza speranza o fiducia o altre polveri magiche, ma pensando a quello che diceva William Gibson sul futuro: è già nel presente, solo maledettamente mal distribuito. Ok, il maledettamente l’ho aggiunto io, ma è l’unica cosa sicura da pensare.