Qual è la squadra più temibile d’Europa?

I punti di forza e i difetti delle capoliste dei cinque maggiori campionati europei.

Lo scorso 2 novembre, nel commentare un turno di Champions League particolarmente favorevole alle squadre inglese, Craig Bellamy negli studi di Sky Sport sosteneva come la vittoria del Manchester City contro il Napoli al San Paolo avesse un peso specifico maggiore di quella che il Tottenham aveva ottenuto a Wembley contro il Real Madrid campione d’Europa: «Può sembrare assurdo, anche perché il Real non perdeva una partita nella fase a gironi da cinque anni, ma secondo me si è trattata della sfida più difficile affrontata dal City in questa stagione. Andare a vincere in casa di una squadra in gran forma e costruita sul possesso palla come il Napoli è una notevole dimostrazione di forza». In effetti, ben al di là di due sfide molto più equilibrate di quanto non dicano i punteggi finali, ad accomunare la squadra di Guardiola e quella di Sarri, oltre alla miglior partenza stagionale della propria storia (17 vittorie in 18 partite per il City , 11 successi e due pari per il Napoli nelle prime 13 di A, meglio solo la Juventus 2005/06), c’è l’idea di due squadre contro cui è davvero difficile trovare contromisure efficaci. Un tratto comune a tutte le capoliste dei principali campionati europei, seppur per motivi diversi.

Partiamo dal City. Dopo le sperimentazioni continue del primo anno (che gli sono anche costate parecchio in termini di risultati) Guardiola sembra aver trovato un sistema base, incardinato sul 4-3-3 (che muta nell’ormai classico 4-1-4-1 a seconda delle fasi della partita) e sulla dorsale Ederson-Stones-Fernandinho-Agüero/Gabriel Jesus, con De Bruyne “free 8” e Walker e Delph sempre più a loro agio nella loro nuova dimensione di “finti terzini” che restringono e allargano il campo a piacimento, affiancandosi alternativamente a Fernandinho in fase di possesso. In questo modo il tecnico catalano ha portato l’associatività del suo calcio e la varietà di soluzione ad esso collegato ad un livello mai raggiunto prima: 35 dei 40 gol realizzati in Premier sono stati “assistiti” e sono ben sei i giocatori (il quartetto offensivo più De Bryune e David Silva) ad essere stati coinvolti (con un gol o un assist) in almeno dieci marcature stagionali, con oltre 17 conclusioni di media a partita.

La chiave è il ritmo del possesso e l’intensità di un pressing portato altissimo: ci sono momenti in cui gli avversari del City finiscono in una pentola a pressione dove l’unica soluzione percorribile è quella di provare a limitare i danni (i primi 30’ del Napoli all’Etihad ne sono l’esempio) in attesa che passi il peggio. Ammesso che passi. Se fino allo scorso anno si poteva rimproverare a Guardiola la sporadicità dell’applicazione dei suoi principi, nel 2017/18 la continuità dell’azione va di pari passo con la sua incisività. Non solo offensivamente: il City è la miglior squadra d’Europa nel rapporto tra gol subiti (sette in campionato, tre in Champions) e tiri concessi (poco meno di sei di media a partita e poco più della metà all’interno degli ultimi sedici metri), grazie anche all’estremizzazione del pressing alto nella metà campo altrui. Di fatto parliamo di una squadra che va in difficoltà solo quando forza le giocate in costruzione bassa (circostanza rara, vista una pass accuracy che sfiora il 90% in tutte le competizioni) o sceglie di difendersi venti metri più indietro per rifiatare.

La gara interna di Champions contro il Napoli è la sintesi perfetta dei tanti pregi e dei pochi difetti del secondo Manchester City di Guardiola: una prima mezz’ora di altissimo livello che ha rischiato di essere vanificata da una seconda parte di gara in cui l’abbassamento del baricentro e gli errori in impostazione hanno favorito il progressivo ritorno dei partenopei

La qualità e l’efficacia dell’azione difensiva è anche un tratto distintivo del Napoli 3.0 di Sarri, ben più della costruzione e dello sviluppo della manovra d’attacco. Un aspetto spesso troppo sottovalutato ma che sta facendo tutta la differenza del mondo in questo inizio di stagione da record. Non si tratta, banalmente, di essere la seconda miglior difesa del campionato e la seconda squadra per numero di clean sheets: rispetto al recente passato il Napoli è una squadra che, impedendo l’occupazione della propria trequarti (vi agisce solo nel 18% del tempo effettivo), concede pochissimo in termini di conclusioni e occasioni da rete, puntando su un baricentro alto (con la linea difensiva costantemente piazzata ad almeno 40 metri dalla porta), sulla compattezza tra i reparti nella fascia centrale del terreno di gioco (occupata per il 49% del tempo) e sul recupero palla nella metà campo avversaria. In tal senso l’unica squadra italiana ad aver creato seri problemi ai partenopei è stata l’Atalanta di Gasperini che, nei primi 45’ della partita del San Paolo, ha puntato su un prolungato uno contro uno a tutto campo, venuto meno con l’uscita di Petagna e prodromico al crollo dell’ultima mezz’ora. Per il resto, provare a limitare il Napoli significa demineralizzare la propria fase offensiva: lo sanno bene l’Inter e il Chievo, uniche due squadre finora ad aver strappato un punto agli azzurri puntando sulla densità e sull’occupazione preventiva degli half-spaces in non possesso, ma capaci di creare complessivamente appena sette occasioni da rete in due in 180’ di gioco.

Le heatmap delle partite di Inter (a sinistra) e Chievo (a destra) mostrano come le avversarie del Napoli, in questa fase della stagione, siano costrette a puntare principalmente sulla densità in mezzo al campo, penalizzando contestualmente lo sviluppo della manovra negli ultimi trenta metri, per provare a limitare gli azzurri

Un altro dettaglio da non sottovalutare riguarda il controllo della partita. Nelle scorse stagioni, affinché il sistema funzionasse al meglio e pagasse i giusti dividendi, il Napoli era naturalmente portato ad interpretare ogni singola fase alla massima velocità possibile, ritrovandosi talvolta ad andare fuori giri e pagando oltre i suoi effettivi demeriti questa ricerca dell’overperforming prestazionale ad ogni costo. In occasione della gara contro il Milan, non a caso definita da Sarri «la migliore della stagione», gli azzurri hanno saputo gestire al meglio le energie, lasciando campo ai rossoneri nella ripresa e trovando la rete del raddoppio nel momento in cui gli avversari stavano producendo il massimo sforzo. Parliamo, quindi, di una squadra finalmente matura che, anche a causa di un periodo di brillantezza fisica non eccessiva, ha imparato ad alzare i ritmi solo quando è effettivamente necessario, andando in difficoltà solo quando si è trovata ad affrontare avversari che l’hanno messa a loro volta sul piano del palleggio prolungato e dell’intensità (City due volte e Shakhtar Donetsk, coincidenti con le uniche tre sconfitte stagionali).

Difesa attenta degli spazi, possesso lasciato agli avversari per creare spazi attaccabili alle spalle delle ultime due linee, recupero palla, transizione veloce: il gol di Zielinski al Milan rappresenta la perfetta sintesi di come si siano fuse le qualità del  “vecchio” e del “nuovo” Napoli

Il Barcellona, invece, sta costruendo il miglior inizio in campionato della propria storia (11 vittorie e un pareggio nelle prime 12 partite, 33 gol fatti e 4 subiti) attraverso la capacità di reagire brillantemente alla partenza di Neymar e all’immediato infortunio del neo acquisto Dembélé. Ernesto Valverde ha scelto la strada della praticità, perfettamente incarnata dall’altissimo rendimento di Paulinho (già quattro reti in campionato, distintosi come equilibratore in grado di garantire fisicità, dinamismo e profondità grazie ai suoi inserimenti senza palla) e dalla fluidità di un modulo che, per la prima volta, riesce a derogare dai principi del 4-3-3 in favore di una sorta di rombo spurio in cui il ruolo centrale, manco a dirlo, è quello di Messi: l’argentino è libero di agire tanto da trequartista quanto da seconda/prima punta in relazione allo svolgimento della partita, essendogli alternativamente demandati i compiti di rifinitura (4 assist e 31 passaggi chiave in stagione) e realizzazione (12 gol in altrettante partite di campionato), oltre che un più che discreto contributo in fase di non possesso (non è raro vederlo agire da esterno sinistro di centrocampo in una sorta di 4-4-2 atipico quando la palla è tra i piedi degli avversari). Sono tutti i prodromi di una squadra meno tambureggiante rispetto al recente passato (anche perché meno avvezza al recupero palla alto) e maggiormente tendente ad aspettare il momento giusto per colpire: nella gara di Champions al Camp Nou contro la Juventus, allo stesso Messi sono bastati i dieci secondi finali del primo tempo per sparigliare le carte e rovinare il piano gara dei bianconeri, fino a quel momento perfetti per applicazione e intensità.

44’ e 10” perfetti della Juventus al Camp Nou. Poi….

Parliamo, comunque, di un Barcellona forse fin troppo legato alle lune del suo giocatore simbolo (che, di fatto, in questo sistema deve praticamente “sdoppiarsi” nel suo cucire il gioco tra i reparti in fase di prima costruzione e farsi trovare pronto, poco dopo, in quella di realizzazione) rispetto al recente passato. Dettaglio non da poco, soprattutto considerando come sia Sporting Lisbona che Olympiacos siano riusciti a limitare le offensive catalane semplicemente intasando gli spazi intermedi e costringendo Messi a ricevere palla ai 40-50 metri e quasi sempre spalle alla porta. Inoltre privilegiando l’attacco della zona centrale del campo piuttosto che la ricerca dell’ampiezza (almeno fino al ritorno di Dembélé), in caso di palla persa i blaugrana si ritrovano costantemente attaccabili in zone di campo anche piuttosto ampie, con i due terzini spesso costretti a un superlavoro in ripiegamento a causa della scarsa dinamicità delle due mezzali Iniesta e Rakitic e con il lato debole pericolosamente scoperto in caso di transizione avversaria susseguente a un cambio di fronte del gioco.

All’attuale normalizzazione catalana fa da contraltare lo star system, tecnico e non solo, del Paris Saint-Germain. Il nuovo Dream Team che sbriciola primati in serie sul suo cammino (69 gol nelle prime 16 partite stagionali, 24 nelle prime cinque del girone di Champions, nuovo record assoluto con ancora una gara da disputare). Se la relativa competitività della Ligue 1 non aiuta nella definizione di un’unità di misura credibile della forza effettiva dei parigini, si può pensare che il Bayern Monaco è stato trattato allo stesso modo di un Angers qualsiasi. Una disfatta totale e, per certi versi, storica, tanto da costringere la dirigenza bavarese a dare il benservito a Carlo Ancelotti.

Psg vs Bayern

Le heatmap di PSG (a sinistra) e Bayern (a destra) della gara del Parco dei Principi  raccontano come e quanto i padroni di casa abbiano dominato contro una delle favorite alla vittoria finale

Non è solo un discorso di accresciuta dimensione tecnica: il Psg attuale è una squadra che sta ponendo le basi di una stagione di altissimo livello attraverso la personalità (e, in tal senso, gli arrivi di due come Neymar e Dani Alves sono stati decisivi) e una rinnovata consapevolezza dei propri mezzi che sfocia quasi in arroganza. La sensazione è quella che gli avversari siano consapevoli che ci siano punti deboli da poter sfruttare (soprattutto in fase di non possesso, con Emery che continua a voler difendere facendo densità in zona palla, lasciando fin troppo scoperto il lato debole) ma che, alla lunga, la differenza di valori sul campo sia troppo ampia per potersela giocare fino in fondo. La migliore testimonianza possibile è arrivata da Brendan Rodgers, allenatore del Celtic, dopo il 7-1 del Parco dei Principi: «Non ho nulla da rimproverare ai miei giocatori, hanno dato tutto quello che avevano, interpretando al meglio la partita soprattutto nei primi minuti. Ma, certe volte, devi semplicemente toglierti il cappello di fronte a chi ti è troppo superiore in termini di qualità. Il Psg è una squadra al top che può contare sui migliori giocatori del mondo».

Quella del Bayern Monaco, invece, è una forza in divenire e al momento solo potenziale. Per quanto il ritorno di Heynckes in panchina abbia posto rimedio al difficile inizio di stagione (approdo in scioltezza agli ottavi di Champions e cinque vittorie nelle ultime cinque partite in campionato – 14 gol fatti e appena 1 subito – con tanto di scontro diretto vinto al Signal Iduna Park di Dortmund), ci vorrà ancora tempo per vedere i bavaresi esprimersi al massimo delle proprie possibilità. Le indicazioni sono, però, positive a partire da un James Rodríguez (due gol, tre assist e 24 key passes fino ad oggi) finalmente entrato nelle dinamiche del nuovo sistema (che poi sarebbe una versione più moderna e fluida del “vecchio” 4-3-3 del 2012/13 rimodulato in base alle caratteristiche dei nuovi giocatori a disposizione) fino al gruppo di giocatori finalmente fedeli alle direttive dell’allenatore, come testimoniato da Frank Ribery a Kicker: «Heynckes ha riportato nuovo entusiasmo in squadra e ci ha fatti ricompattare. Ha ridato fiducia ai giocatori e lo ha fatto parlandoci faccia a faccia».