La riconoscibilità del numero

Come il numero di maglia è diventato un segno distintivo dei calciatori, fino a diventare un vero e proprio marchio personale.

Chissà le facce dei tifosi del Fluminense de Feira lo scorso 5 aprile, quando hanno visto il loro idolo Fernando Sobral scendere in campo contro la capolista Vitoria de Bahia con indosso la classica maglia numero 10 e il nome “Pizza” scritto sopra. Numero 10,98 per la precisione, perché erano indicati anche i centesimi, più in piccolo. Campionato baiano, la serie D brasiliana: è qui che con una partita di calcio sono state riscritte le regole del marketing, abbattendo anche l’ultima frontiera della sponsorizzazione. I nomi dei prodotti venduti da un supermercato locale scritti sulle maglie al posto dei nomi dei giocatori, i prezzi al posto dei numeri. Dopo Fernando “Pizza” Sobral, infatti, sono scesi in campo anche Shampoo (con il 5), Sardina congelata (7), Schiuma da barba (20) e via via tutti gli altri, ognuno con il suo prezzo in bella mostra sulla schiena.

Il risultato sportivo (Fluminense battuta 6-0) è passato in secondo piano perché mai, prima di allora, ci si era spinti tanto in là. Un conto sono gli sponsor che pian piano si allargano e conquistano nuovi pezzetti di maglia con toppe su petto, maniche, spalle e sedere, un altro è arrivare alla “spersonalizzazione” del giocatore per far posto al marchio. Nome e numero sulla maglia, per un calciatore, sono – dovrebbero essere – sacri: è attraverso loro che l’individuo si distingue in quello che resta sì un gioco di squadra, ma continua a far sognare grazie alle prodezze dei singoli.

Non mi riconosci?

Che un giocatore “spicchi” e si renda riconoscibile con il suo “marchio” fatto di nome-e-numero stampati sulla schiena, in fondo, non spiace neanche ai club, anzi: da quando è stata introdotta la numerazione libera (non più dall’1 all’11 obbligatoriamente in campo) con abbinata la personalizzazione (in Serie A dalla stagione 1995/96) hanno trovato una nuova fonte di guadagno nel merchandising e nella vendita delle maglie di culto. Allo stesso tempo, non sono mancati i giocatori che si sono trasformati in veri e propri brand: iniziali, numero di maglia, e il gioco è fatto. Tutti felici, insomma, nel pieno rispetto della prima regola del marketing e delle sue tante “P” che si studiano ai corsi (da Prezzo a Packaging a Promozione): rendere il Prodotto riconoscibile. Se le maglie con cui si gioca sono uguali per tutti – portiere a parte, ma chissà perché il suo fascino è inferiore a quello dei colleghi che sgambettano all’attacco – l’unico modo per essere distinti nella massa è quello di affidarsi all’accoppiata nome-numero. E più è inusuale, il numero, più resta in testa. Il 32 di Vieri (copiato poi dall’amico e socio in affari Brocchi), il 23 di chi voleva onorare Michael Jordan (Materazzi, Ambrosini), il 22 di Kakà o di Milito, il 13 di Nesta, il 17 di Hamsik, il 19 di Bonucci.

Chievo Verona v Inter Milan

A dir la verità, prima della rivoluzione dei nomi, alcuni grandissimi si erano fatti bastare il numero. Il Manchester United ha costruito tutta una leggenda attorno al suo magico numero 7 che, a seconda delle ere, è stato George Best, Eric Cantona, David Beckham o Cristiano Ronaldo; al primo della stirpe non serviva nemmeno il nome: 7=Best era un’equazione, all’Old Trafford. Lo stesso si potrebbe dire per Johann Cruyff e il suo 14: impossibile scinderli, dici uno e inevitabilmente pensi all’altro, con il genio olandese che si rivelava avanti anche su questo fronte con la trovata delle due strisce nere (anziché tre) sulla maglia oranje, l’unico in tutta la squadra al Mondiale del ‘74, in polemica con lo sponsor tecnico della nazionale olandese. Una lezione di marketing: trovate una maglia più personalizzata di così…

Veri 9, falsi 10 e altre stranezze

31 agosto 1997, Inter-Brescia, prima giornata di campionato e prima assoluta di Ronaldo con la maglia nerazzurra. San Siro ribolle di entusiasmo, in migliaia si sono presentati allo stadio con addosso la maglia numero 10 del Fenomeno. Al termine della partita saranno altrettanti a fiondarsi sulle bancarelle del piazzale antistante lo stadio alla ricerca della numero 20 del semisconosciuto Recoba, che con una doppietta – e che doppietta – ha raddrizzato il pomeriggio storto dell’Inter (sotto 0-1, gol di Hubner) e oscurato la tanto attesa prima in nerazzurro del compagno brasiliano. Recoba 20, ovvero 10×2, diventa il suo marchio, tanto che il Chino all’Inter non se ne separerà mai, neanche quando avrà la possibilità di vestire la più prestigiosa numero 10. Moltiplicazioni o addizioni, Ronaldo è sempre in mezzo: al suo arrivo all’Inter, infatti, vestiva la 10 solo perché Ivan Zamorano non ne aveva voluto sapere di cedergli la 9. L’anno dopo, però, complice la pressione dello sponsor tecnico (che versa milioni e deve dare un senso al marchio R9) e grazie al salomonico intervento di Massimo Moratti, Zamorano cede: sarà la sua fortuna. Laddove non arrivano gli sponsor, arriva l’ingegno: due pezzi di nastro adesivo incollati sulla maglia a formare un piccolo + tra le due cifre del 18. 1+8=9.

Manchester United v Liverpool - Premier League

Recentemente l’Inter ha dato il via a una sistematica campagna con cui omaggia i suoi ex campioni, invitandoli a scendere sul prato di San Siro nel prepartita per salutare il pubblico e regalando loro una maglia personalizzata incorniciata. Sono stati premiati Matthaus (maglia numero 10), Zanetti (4, accompagnato dalla scritta “ever” sotto, in modo che si legga “forever”: maglia poi ritirata), Ruben Sosa (11), Cauet (15), Altobelli (9), Zenga (1), Ferri (5), Berti (8). Quando Zamorano ha ricevuto la sua, anche sulla maglia incorniciata c’era il + tra l’1 e l’8. Ufficializzato, potremmo dire. L’idea, poi, contribuì anche a rendere il 18 una sorta di 9bis, agli occhi dei tifosi: dopo di lui, in mancanza dell’originale, lo sceglierà anche Batistuta alla Roma, ad esempio. Un fenomeno simile si è verificato con il 21, improvvisamente diventato “the new 10” nella percezione del tifoso grazie ai giocatori di classe che l’hanno indossato in tempi recenti: Pirlo (con Inter, Milan e Juventus), Zidane (uno che paradossalmente non ha mai trovato la numero 10 libera nei club in cui ha giocato), Dybala (in onore dei primi due). Restituire la numero 10 ai tifosi bianconeri, affidandola quest’anno a Dybala dopo una stagione senza proprietario e dopo due “falsi 10” come Tevez e Pogba, è stata l’ultima trovata – anche di marketing – della Juventus, il tutto mentre a Napoli proseguono i sondaggi sulla convenienza o meno di ritirare fuori dagli armadi il 10 che fu del più grande di tutti e su chi sia meritevole, nel caso, di indossarlo.

L’importanza di essere qualcuno

E poi c’è chi si è sempre tenuto stretto il proprio numero, trasformandolo in un simbolo: il 7 ha segnato la carriera dello spagnolo Raúl (numero di maglia ritirato in suo onore dallo Schalke, ma non dal Real Madrid) e segna tuttora quella di Cristiano Ronaldo, alias CR7; Gigi Riva voleva a tutti i costi l’11 facendone anche una questione scaramantica (una volta in Nazionale giocò con il 9 e si ruppe la gamba), lo stesso storico numero di Giggs o Drogba. Meno interessato alla questione Neymar, che nel Santos vestiva l’11 in onore del suo idolo Romario, lo mantenne al Barça e una volta approdato al Psg ha “sbancato” con la 10: diecimila maglie vendute solo il giorno della sua presentazione (circa un milione di euro dei 222 spesi per comprarlo rientrato così), 120mila dopo un mese (al ritmo, quindi, di 4mila al giorno), con lo sceicco Al Khelaifi che si frega le mani annunciando di aver decuplicato le vendite e che «non ci sono magliette sufficienti per accontentare tutti».

Real Madrid v AC Milan - UEFA Champions League

Discorso simile per Zlatan Ibrahimovic, uno che non ha bisogno di un numero fisso – nemmeno di una maglia, in verità – per vendere la propria immagine e risultare riconoscibile. Non per questo, Ibra ha rinunciato a vestire i panni del rompiscatole, impuntandosi un paio di volte e uscendone sempre, naturalmente, da vincitore. Al suo arrivo al Psg, ad esempio, chiese gentilmente il numero 10, già occupato da Nené. Lo inseguiva da anni, ritenendolo il numero dei campioni, e non era mai riuscito a ottenerlo, trovando nel corso della sua carriera in van der Vaart, Del Piero, Adriano e Seedorf gente non disposta a trattare. Non lo ottenne subito, ma a gennaio, insieme alla testa di Nené che gli aveva rifiutato il favore, ceduto (esiliato?) all’Al Gharafa. Morale: Zlatan accontentato da metà stagione in poi, ma costretto a tenere il 18 in Champions League, dove la numerazione resta fissa per tutto il torneo. Piedi nuovamente puntati una volta approdato al Manchester United: questa volta Ibrahimovic vuole a tutti i costi il 9, già sulle spalle di Martial. I Red Devils – loro sì che sanno come farlo felice – glielo concedono senza avvisare nemmeno il francese, che non la prende benissimo quando gli assegnano l’11. Le strategie di marketing non guardano in faccia a nessuno: Ibrahimovic con il 9 vende e piace di più alla gente, che vuole il gol ma anche il suo totem. Cosa sono poi, se non marketing creativo, il 7 a Nani (a furor di popolo di Twitter, quando firmò con la Lazio), 5 Sensi (Cesena) o 44 Gatti (Perugia)?