Come si inizia a tifare

Qual è l'origine dell'amore per una squadra? C'entra la storia, ci sono implicazioni più intime? Un racconto tra Napoli e Milano.
di Cristiano de Majo
25 Dicembre 2017

Ho iniziato a tifare Inter all’età di sei-sette anni, ma non ricordo precisamente perché. I dati che ho a disposizione permettono un tentativo di ricostruzione molto parziale. Sono nato a Napoli nel 1975, vivevo a Napoli, mio padre era tifoso del Napoli. Tutto andava in una direzione – il Napoli – se non fosse che i miei proprio in quel momento si stavano separando e mio padre era stato trasferito a Milano per lavoro.

Se il tifo ha sempre un’origine edipica, perché però non tifare per la squadra di mio padre ma per quella della città in cui mio padre si era trasferito? Non riesco a capirlo, anche perché non era un momento particolarmente felice in termini di successo sportivo per l’Inter (un mio amico, anche lui napoletano, iniziò a tifare Verona l’anno dello scudetto di Bagnoli). Nella Serie A del 1982/83, quella dopo il fantastico Mondiale di Spagna – che è sicuramente il motivo per cui iniziai a interessarmi al calcio – l’Inter fece uno di quei suoi tipici campionati mediocri e arrivò quinta. In realtà la cosa che ricordo con più nitidezza è questa: i colori della maglia. Mi piaceva la maglia.

Ho due figli maschi, gemelli di 6 anni, che oggi hanno esattamente l’età in cui ho iniziato a tifare. Non sono un fanatico e non ho mai pensato di dovergli trasmettere per forza la passione del calcio, ma a un certo punto, pochi mesi fa, ho visto aprirsi una breccia. Mi chiedevano a quali maglie corrispondessero i nomi Juventus, Roma, Inter, confondevano squadre di club e Nazionale, pensavano tra le altre cose che si potesse tifare per due o tre squadre contemporaneamente, così come può piacerti Batman ma anche Spider-Man. La cosa quasi sempre vera, o almeno lo è nel mio caso, è che, quando si inizia a tifare, il calcio, inteso come gioco/sport retto da un insieme di regole, non riveste nessun tipo di interesse. Magari, e non sempre, può essere divertente per un bambino di quell’età tirare calci a un pallone (si sono lamentati tantissimo quando ultimamente ho comprato una specie di pallone regolamentare in simil-cuoio da Decathlon e, del resto, nel cortile preferivo anch’io giocare col più morbido Super Santos), ma quello che di sicuro non li diverte è: guardare le partite in tv. La loro iniziazione al tifo, che assecondo benevolmente senza esagerare, consiste quindi in due o tre attività che, aggiornate al tempo presente, sono nella sostanza, le stesse da decenni: guardare le maglie su Google Immagini, ascoltare gli inni su Youtube, e attraverso la mia guida, rivedere highlights di vecchie partite, tipo – indovinate un po’? ­– la finale di Champions League del 22 maggio 2010. Poi qualche giorno fa gli ho promesso: «Quando a dicembre esce, vi compro l’album delle figurine».

Ecco, credo che, molto più del campo, le figurine, siano state (e probabilmente non sono più) uno dei modi più frequenti per i bambini di avviarsi al culto dei giocatori. Nei miei culti mi sono spesso dimostrato forzatamente originale. Molto prima della mitologia ligabuiana del centrocampista, mi piaceva il numero 8 e mi ero fissato con un giocatore dalle qualità non soprannaturali come Antonio Sabato. Poi certo negli anni sono arrivati i culti di Brehme e Matthäus, di Ronaldo e Djorkaeff, di Eto’o e Stankovic, ma soprattutto di Eto’o. Poi è arrivato Icardi.

Uno dei due gemelli sa chi è Icardi perché è il più sensibile alle pressioni paterne. Dice che è il suo giocatore preferito senza averlo mai visto giocare perché si è convinto di tifare per l’Inter. Dice a tutti che tifa Inter, anche se qualche volta continua a chiedermi a bassa voce: «Ma posso tifare per l’Inter e anche per la Juve?», e io ovviamente gli rispondo di no. L’altro, invece, che agisce soprattutto per contrasto, continua a ripetere che tifa il Napoli e ascolta “I ragazzi della Curva B” a tutto volume sul mio telefono.

Tutto questo – la trasmissione e l’opposizione – mi dà il senso e la bellezza di essere un genitore maschio di figli maschi. Resta il fatto che nessuno dei due è ancora riuscito a resistere a una partita per novanta minuti.

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