Pare che, quando era 13enne, Ronaldinho diventò famoso perché una volta a scuola segnò 23 reti, e la partita finì 23-0. Da allora, attorno a lui, le leggende sono cresciute, moltiplicate. A un certo punto non era nemmeno più importante appurarne la veridicità. Quello che era impossibile, Ronaldinho lo rendeva possibile. Esempio. Nel 2006, il brasiliano girò per Nike uno spot in cui colpiva per quattro volte di fila la traversa senza lasciar cadere il pallone. In molti dissero: dai, si vede che è finto, lui calcia con violenza ma la palla gli arriva esattamente sui piedi. Però, sotto sotto, rimanevamo tutti con il dubbio. E se invece fosse vero? Insomma, gli abbiamo visto fare cose che… No, non può essere. O forse sì. In fin dei conti, è Ronaldinho.
Non è stato il più forte di sempre. Ma, in un certo senso, ha cambiato il calcio, gli ha dato un’immagine nuova. Tutti volevamo essere Ronaldinho, perché tutti provavamo per ore – elastico, sombrero o espaldinha che fosse – quello che lui faceva in campo. Se ci riuscivamo, allora potevamo dire di essere forti. Ma per lui tutto quel repertorio di numeri da giocoliere non era abbellimento, era il suo modo di fare calcio. Nessuno, come lui, è riuscito a far sì che quel tipo di gioco – da strada, freestyle, chiamiamolo come vogliamo – diventasse funzionale.
A volte sembrava che intendesse il calcio come un hobby, e invece si era ritrovato nel calcio ipertrofico del Ventunesimo secolo. Non ho mai sentito dirgli: devo migliorare, dobbiamo impegnarci di più, la squadra deve comportarsi così. Giocava per giocare, non per alzare trofei. Anche se poi ha vinto qualsiasi cosa – un Mondiale, una Champions, due campionati spagnoli.
Per esempio, qui, cosa si è inventato? Un sombrero con l’esterno, di spalle all’avversario, ma intanto così ha creato superiorità numerica, e il Barça arriva in porta
E poi il Pallone d’Oro. Nel 2005, al Bernabéu, la recita migliore della carriera. Si gioca la dodicesima giornata di Liga. In testa al campionato c’è l’Osasuna, ma era risaputo che, una volta di più, sarebbe stata una questione a due tra Barça e Madrid. Come l’anno prima: i catalani l’avevano spuntata per soli quattro punti. Quando va in scena il Clásico, il 19 novembre, la distanza è minima, con i blaugrana a +1. Si gioca a Madrid, ed è la grande occasione per la formazione di Luxemburgo di sorpassare i rivali. Il Real manda in campo, dal primo minuto e contemporaneamente, Beckham, Zidane, Robinho, Raúl e Ronaldo. Al Barça, che pure ha in campo gente come Messi ed Eto’o (che sblocca il risultato nel primo tempo), basta Ronaldinho per fare meglio di tutta la concorrenza messa insieme.
Minuto 58, primo gol. Non so quale gesto, movimento, personaggio possa meglio interpretare il senso di onnipotenza. Se la maldestra scivolata di Ramos, Helguera preso in controtempo che oscilla all’indietro, Roberto Carlos sdraiato a terra, Casillas rimasto fermo. Sono imbarazzati: c’è Casillas che se la prende tantissimo, i compagni di squadra che lo guardano, poi si guardano. Cosa cavolo potevamo fare, sembrano dirsi.
Minuto 76, il bis. Lo sviluppo del gol è abbastanza simile, ma stavolta il brasiliano supera Ramos correndo a velocità doppia. In mezzo, c’è Helguera che non sa dove andare, se scappare verso di lui o verso la porta. Casillas, che prima se l’era presa tantissimo, stavolta non fiata. Guarda nel vuoto, scuote la testa, farfuglia qualcosa tra sé e sé. Cosa cavolo potevamo fare, stavolta lo pensa anche lui.
La doppietta al Bernabéu contro il Real Madrid, nel 2005: uno dei saggi più esemplari dell’onnipotenza calcistica di Ronaldinho. Il Barcellona vince 3-0 e il brasiliano, che di lì a poco vincerà il Pallone d’Oro, guadagna la standing ovation del pubblico avversario
L’onnipotenza di lui riflessa negli altri. Prima i calciatori del Real, poi i tifosi. Lo applaudono, si alzano in piedi. Il Bernabéu ai piedi di un calciatore del Barcellona: capita solo con i grandissimi, come Maradona, 22 anni prima. A fine partita, la gente ha ancora addosso la sciarpa del Real, o la camiseta blanca. E dice: «Non divento del Barcellona, questo no. Ma di Ronaldinho sì». Qualche settimana dopo, Luxemburgo viene esonerato. A fine stagione, il Barcellona vince Champions e Liga. Il Madrid arriva 12 punti dietro.
È un Barcellona straripante, eppure quando Ronaldinho ci arriva trova solo macerie. I blaugrana non vincono nulla da sei anni, quando c’era un altro brasiliano, Rivaldo, a illuminare la scena. In mezzo, pure un sesto posto, e un paio di quarti posti. Quando arriva Dinho arriva dal Psg, nell’estate del 2003, si fatica a capire che cosa vuole diventare il Barcellona. Joan Laporta è appena diventato presidente, battendo il suo rivale Lluis Basset con la promessa di portare David Beckham al Camp Nou: mentre i soci blaugrana si recavano a votare, i media spagnoli e inglesi davano l’affare – subordinato all’elezione di Laporta a presidente – fatto per 50 milioni di sterline. Invece Beckham preferì il Real Madrid: Laporta, in forte imbarazzo, ripiegò su Ronaldinho, pagandolo 30 milioni di euro.
Il resto del mercato non era stato memorabile (arrivarono Quaresma, Márquez e Rüstü) e le incertezze attorno alla squadra venivano amplificate dalla scelta di un allenatore inesperto, quel Frank Rijkaard che aveva guidato l’Olanda alle semifinali di Euro 2000 ma che, alla prima esperienza di tecnico di un club, aveva contribuito alla prima retrocessione della storia dello Sparta Rotterdam. Le malelingue suggerivano che Ronaldinho preferì Barcellona a Manchester per la movida. I lunghi riccioli, i denti sporgenti e le gengive in evidenza, il suo modo di agitare le mani. «Il mio gioco è basato sull’improvvisazione. È l’istinto che dà gli ordini». Non aveva esattamente l’aria di un calciatore professionista. Ma, alla prima gara al Camp Nou, si inventò una rete pazzesca contro il Siviglia. E nessuno poteva più metterlo in discussione.
Il primo gol con la maglia del Barcellona, una perla: parte da centrocampo, evita due avversari e fa partire una conclusione potentissima e imparabile
A fine campionato, il Barcellona arrivò secondo, alle spalle del Valencia. Ma qualcosa era cambiato dalle parti del Camp Nou. Con Ronaldinho in campo, il Barcellona non perse per 17 partite di fila. Il numero dieci segnò 15 gol in campionato più 4 in Coppa Uefa ma, forse, la giocata più decisiva della stagione fu un assist nel Clásico di ritorno, alla quintultima di campionato. Quello che, nei fatti, permise ai blaugrana di piazzarsi davanti al Real Madrid in classifica, con due punti di vantaggio. Sono gli ultimi minuti di gara, mentre i catalani risalgono il campo: Xavi conduce palla, poi serve orizzontalmente Ronaldinho. Una leggera esitazione del brasiliano, poi la giocata: scucchiaiata millimetrica per lo stesso Xavi, che nel frattempo si era mosso sulla linea della difesa avversaria come un attaccante d’area, e gol del definitivo 2-1. Alcuni – Kluivert, Luis Enrique – vanno ad abbracciare l’autore del gol, altri – Motta e Cocu – raggiungono festanti l’uomo assist. Che li accoglie, con un’espressione che sembra intendere: ehi, è il mio lavoro. A fine anno, Ronaldinho vinse il Fifa World Player. Il Barcellona sfondò quota 125.000 soci.
Uno degli assist più belli in carriera: la scucchiaiata per Xavi, in un Clásico giocato al Bernabéu nel 2004. Il modo migliore e più fantasioso per premiare l’inserimento del compagno
Il Ronaldinho di Barcellona ha lasciato le istantanee più indelebili della carriera, quelle dove realmente abbatte i confini dell’impossibile. Il 25 novembre 2006 segna un fantastico gol contro il Villarreal, in rovesciata. È particolarmente impressionante per la rapidità del movimento. Chiunque lì si aspetta, dopo lo stop di petto, il tiro al volo con il destro. Invece lo stop gli riesce così così, e la palla gli schizza leggermente alle spalle. Attimo giusto perso? Non per lui. Ecco lo spostamento repentino: si gira immediatamente e con il sinistro la mette sul palo più lontano in sforbiciata. Difficile da pensarle, certe cose, figuriamoci farle. «Non scorderò mai questo gol, ho sempre sognato di farne uno così sin da quando ero piccolo».
La rovesciata “innaturale” contro il Villarreal, nel 2006: stoppa il pallone, poi per girarlo in rete, in rovesciata, è costretto a spostare tutto il peso del corpo in una frazione di secondo. Difficile pensarlo, figurarsi eseguirlo
C’è il gol di punta al Chelsea, quello che Collina, arbitro di quell’ottavo di Champions, definì «la rete più incredibile mai vista». In quella rapida serie di finte Ronaldinho prende le misure, è un geometra, e di fatto quel gesto tecnico è un calcolo geometrico, che richiede una mente fuori dal comune per trovare qualcosa che nessuno, nella sua posizione, poteva vedere.
2005, ottavi di Champions a Stamford Bridge: il Barcellona perde 4-2, ma intanto Ronaldinho segna un gol imprevedibile, un tocco di punta da fermo, da calcetto
Poi c’è il dribbling, la fulmineità dello scatto, la danza tra gli avversari. C’è un’azione contro l’Athletic Bilbao che stava diventando uno dei gol più belli della storia del calcio – e invece si limiterà a essere uno dei quasi-gol più belli. Succede che Ronaldinho prende palla sulla sinistra, salta di netto un avversario che finisce fuori dal campo, arriva in area e riesce a mandare in confusione non uno, ma due difensori avversari contemporaneamente, e poi la conclusione si stampa sulla traversa. L’azione del brasiliano sembra accelerata, non alla velocità a cui vanno gli altri in campo, e quel pallone spostato una, due, cinque volte sembra rimanga incollato al suo piede, un misterioso effetto magnetico.
Non un gol (per poco), eppure una delle giocate più impressionanti in carriera: dalla linea laterale fino in porta in una danza irrefrenabile, con tre giocatori dell’Athletic Bilbao a farne le spese
C’è, ancora, la padronanza tecnica assoluta, anche in situazioni complicate, anche nel bel mezzo dell’area di rigore, dove c’è poco tempo per pensare, o forse non ce n’è affatto. È un pallone difficile da controllare, quello che gli arriva, e già per questo dovrebbe calciare subito, non cercare la giocata pulita: invece, in tutta naturalezza, ammansisce la palla, con il destro se la fa passare dall’altra parte del corpo, per eludere la pressione di un avversario, e poi, ancora con il destro, si esibisce in una girata volante, a mezz’altezza, per anticipare il difensore a contrasto. Una cosa più difficile dell’altra, nel giro di pochissimi secondi.
Stop-sombrero-girata: tutto in perfetto controllo ed equilibrio, in un’altra rete da ricordare. L’anno è il 2004/05, il secondo con la maglia del Barcellona, l’avversario l’Osasuna
Negli anni in Spagna, mentre Messi si affacciava tra i grandi, Ronaldinho era il Barcellona. E c’è un momento che, anche se non riguarda il campo, è molto significativo. È una delle ultime giornate della stagione 2005/06, con il Barcellona sul campo del Celta Vigo: un successo garantirebbe la conquista aritmetica della Liga per la seconda stagione di fila. Non appena Eto’o porta in vantaggio i blaugrana, dieci minuti dopo l’inizio della ripresa, Rijkaard richiama in panchina Ronaldinho. Da allora, la regia della partita, a ogni pausa del gioco, a ogni momento spendibile, inquadra il brasiliano. Si sta godendo il successo, scherza, parla con i compagni, a un certo punto prende i parastinchi in mano e comincia a batterli uno contro l’altro, tam, tam, tam, a ritmo. È il protagonista indiscusso, e per celebrare la vittoria della Liga va celebrato lui. E poco importa se la partita va avanti. L’impossibile ha preso vita.