Cambiare le regole

Il calcio è uno sport giovane, eppure codificato in modo estremamente rigido. Cosa succede se questo codice cambia, e come si può fare?

Nel tardo pomeriggio del 19 dicembre 1863, al termine della prima partita di calcio della storia, un esponente della neonata Football Association si compiacque della «totale assenza di controversie riguardo le regole». L’esperimento era riuscito, il nuovo gioco era nato, i calciatori di Barnes Fc e Richmond Fc erano leggenda. Soprattutto, un’opera di mediazione lunga diverse settimane aveva portato frutto. Durante i due mesi precedenti l’incontro, difatti, i rappresentanti di undici scuole di Londra si erano incontrati in frenetiche sessioni di studio presso la Freemasons’ Tavern, non lontano da Covent Garden, per mettersi d’accordo intorno a un nucleo di regole che potessero permettere alle squadre dei diversi istituti di misurarsi in una forma condivisa del sempre più diffuso gioco del football. Perché il problema, all’epoca, era che non c’era un solo football, ma un’infinta serie di varianti del football. In alcune contee la palla poteva essere soltanto calciata, in altre soprattutto trasportata a mano. Nel Northumberland le squadre potevano schierare un numero di giocatori imprecisato. Nel Warwickshire non esistevano affatto squadre, il football era uno sport individuale e il vincitore era il calciatore che si trovasse in possesso della palla alle 5 del pomeriggio. Nel Derbyshire le porte erano distanti tre miglia l’una dall’altra. Nel villaggio di Hallaton il pallone poteva addirittura essere sostituito da un fusto di birra, ma solo il lunedì dell’Angelo.

Il documento redatto in mezzo ai fumi della Freemasons’ nel 1863 ebbe il merito di fare finalmente ordine. Di standardizzare obiettivi e limiti del gioco, di definire quali fossero le azioni consentite e quali quelle vietate. Il primo regolamento del calcio, forte della semplicità degli appena 13 punti che lo costituivano, fu una delle chiavi per la diffusione planetaria del gioco, tant’è che il giornalista inglese Melvyn Bragg l’ha inserito nel 2006 nella lista dei Dodici libri che hanno cambiato il mondo.

Con tutta probabilità non cambierà il mondo, ma lo scorso 7 novembre si è disputata in Olanda una partita che in quanto a fantasia e spirito innovativo poco aveva da invidiare al Barnes-Richmond di un secolo e mezzo fa. A Lisse, Olanda meridionale, i padroni di casa hanno affrontato in amichevole i Quick Boys, altra squadra di quarta divisione, seguendo un insieme di regole mai viste prima. Tra le altre: rimesse laterali battute con i piedi; calci di punizione con possibilità di auto-passaggio; rigori assegnati per falli violenti commessi fuori area e non assegnati per falli commessi in area ma lontani dall’azione. Spettatore molto interessato dell’incontro è stato Marco van Basten, che a fine partita ha sottolineato quanto esperimenti così siano «positivi per lavorare a un calcio più equo, convincente e rapido». (Soprattutto rapido, a quanto pare: in un commento alla partita si legge come l’evidente accelerazione di alcune fasi del gioco abbia provocato grande stanchezza tra i calciatori delle due squadre).

Van Basten è dal 2016 il Responsabile per l’Innovazione Tecnologica della Fifa, e lo scorso gennaio ha presentato una sorta di manifesto rivoluzionario in cui, con lo scopo di privilegiare la qualità delle partite rispetto alla loro quantità, si è spinto fino a proporre espulsioni temporanee, sostituzioni volanti e abolizione totale del fuorigioco. Se alcune delle mozioni avanzate dal cigno di Utrecht assomigliano più a provocazioni che a suggerimenti concreti, altre saranno ufficialmente discusse il prossimo marzo dall’International Football Association Board, organo indipendente dalla Fifa, unico autorizzato a introdurre modifiche al regolamento del gioco del calcio valide a livello internazionale.

Gli otto membri dell’Ifab si confronteranno intorno a un documento puntuale, dettagliato. Si chiama “Play Fair!” ed è basato sull’idea che le nuove regole debbano riflettere «quello che il calcio vuole»; che il gioco vada cambiato affinché si conservi gradevole e si adegui con criterio ai tempi. La parte centrale del documento, per esempio, è interamente dedicata a possibili misure per ridurre le perdite di tempo e velocizzare il gioco. Tanto per cominciare, si parla di facoltà di auto-passaggi (gli stessi sperimentati in Olanda qualche settimana fa) in occasione di calci di punizione, corner e rinvii dal fondo. L’Ifab, mostrando che l’innovazione nello sport non procede esclusivamente per graduale allontanamento dal passato, sottolinea come questo tipo di azione fosse consentita già nel proto-regolamento del 1863.

Per la prima volta, inoltre, verrà concretamente affrontata la questione del tempo di gioco effettivo, rispetto al cui incremento l’Ifab concepisce due modalità. Prima: stoppare e far ripartire il cronometro in occasione di ogni interruzione che avvenga durante gli ultimi 5 minuti del primo tempo e gli ultimi 10 del secondo. Seconda: estendere la pratica all’intero match, la cui durata diventerebbe quindi di 60 minuti di tempo effettivo totale. La sola eventualità che il calcio possa rinunciare alla canonicità dei suoi 90 minuti appare radicale, quasi sovversiva. Tuttavia sorprende fino a un certo punto.

Nel testo programmatico dell’Ifab si legge che tali proposte di cambiamento sono state «incoraggiate dalle reazioni positive del mondo del calcio dopo l’introduzione del Var». In effetti, l’affermazione del Video Assistant Referee è stata paragonata per portata rivoluzionaria all’introduzione del tiro da 3 punti nel basket, del rally point system nella pallavolo e della classifica a tempi al Giro d’Italia; il Guardian ha scritto senza troppi giri di parole che il Var cambierà il calcio per sempre. Sembra, insomma, che quella in corso sia una fase particolarmente favorevole ai progressisti del pallone. Volendo spostare il discorso su un piano più teorico, si potrebbe persino pensare di individuare i motivi alla base di questo atteggiamento di generale apertura nei confronti del cambiamento. Ce ne sono almeno cinque. Il primo risiede nella natura dello sport. Lo sport è un luogo sociale e culturale unico, in cui il rispetto di regole del tutto arbitrarie (e non sempre ragionevoli) ha un valore liberatorio. Ogni sport è un tentativo volontario di superare ostacoli non necessari, un tentativo che acquisisce senso proprio grazie alle difficoltà effettivamente generate da tali ostacoli. Le regole, nello sport, sono convenzioni che servono a rendere più complicato il raggiungimento di un obiettivo, e per questo di tanto in tanto occorre adeguarle al mutato contesto atletico. Calciatori più scattanti richiedono un calcio più veloce, così come cestisti più prestanti necessitano di campi da basket più grandi.

Il secondo motivo è prettamente economico. I ritorni monetari sono il principale motore dell’evoluzione degli eventi sportivi, almeno da quando la rivista francese L’Auto, in crisi di vendite, s’inventò la prima corsa a tappe della storia – il Tour de France – come gigantesco mezzo promozionale. Il calcio, osservato dal punto di vista dell’intrattenimento puro, deve oggi essere in grado di reggere il confronto con la qualità e l’efficienza garantite – per dire – da un concorrente come Netflix. Spettatori abituati a selezionare “skip intro” quando parte la sigla di una serie tv sono comprensibilmente poco propensi ad apprezzare le lungaggini di certe fasi di gioco del calcio, o le incongruenze di determinate situazioni. Soprattutto perché – e questo è il terzo motivo a favore dell’innovazione – adesso gli strumenti tecnologici sono quasi tutti disponibili.

Per il quarto motivo occorre predisporsi a un livello di maggiore astrazione. Lo sport moderno – e questo è stato osservato dai sociologi prima ancora che David Foster Wallace scrivesse di Federer e del suo tennis – è paragonabile per molti aspetti a una forma di religione; gli stadi assomigliano a cattedrali, i tifosi a fedeli. I regolamenti sportivi sono testi sacri, tavole della legge dettate da dèi potenti e capricciosi. Tuttavia in quest’epoca di secolarizzazione, dominio assoluto del relativismo, le certezze vacillano, i regolamenti cambiano. Non esistono più dogmi, nemmeno nel rifugio della consuetudine che è stato per decenni il gioco del calcio.

L’ultimo motivo è meno contingente e più romantico. Il fatto è che il calcio ha da sempre un legame molto stretto con l’estetica. È the beautiful game e, si sa, nulla è più mutabile dei canoni della bellezza. Periodicamente è necessario aggiornarli, ridefinire cosa ci piace e perché. Assistere da vicino a questo processo è affascinante; garantisce il privilegio della testimonianza, ed è così fin dagli albori. La partita tra Barnes e Richmond fu disputata il 19 dicembre 1863 perché gli organizzatori avevano troppa voglia di godersi il primo incontro di calcio di sempre per potersi permettere di aspettare la data inizialmente convenuta – cioè il successivo 9 gennaio. Scoprire che effetto facesse giocare al nuovo gioco era un’incombenza irrinunciabile.

Al di là della soddisfazione per l’assenza di contestazioni, in ogni caso, lo spettacolo offerto dal match non dovette essere un granché: finì 0 a 0, e convinse quelli del Richmond a imboccare la strada che sarebbe stata presto battuta da tutti i dissidenti della Football Association: il rugby. Andò decisamente meglio il 9 gennaio 1864, quando a Battersea Park la selezione del Presidente della FA superò quella del Segretario per 2-0. A fine partita, gli inventori del gioco brindarono «al successo del calcio, passatempo incurante delle classi sociali e dei credi».