A che punto sono i club africani?

Calcio e politica sono spesso andate insieme, penalizzando lo sport. Ma qualcosa sta cambiando, soprattutto in Sudafrica ed Egitto.

Nello sterminato ventaglio di cose con cui Pelé si è consegnato all’immortalità calcistica, sicuramente non c’è il cosiddetto settimo senso. Nemmeno O Rei, come molti altri colleghi, ha resistito alla tentazione di regalarci un pronostico un po’ per ogni cosa, anche se quasi mai si è rivelato un oracolo affidabile. Tuttavia, solo una volta si è completamente sbottonato con dogmatica convinzione sullo sviluppo di un intero continente: «Un’africana vincerà il Mondiale entro il 2000», disse.

Il fact checking, però, è stato impietoso: nessuna Nazionale rappresentate dell’Africa è ancora riuscita a raggiungere la semifinale, figurarsi sollevare la Coppa più ambita del pianeta. Eppure è bastato cambiare prospettiva per vedere un’africana in finale mondiale, anche se di club: è la memorabile cavalcata dei congolesi del Mazembe, capaci di battere l’Internacional di Porto Alegre e rompere il tradizionale duopolio Europa-Sudamerica, festeggiando al ritmo dello sculettante portiere Kidiaba prima di venire sconfitti dall’ultima Inter targata Benitez. Lamine N’Diaye, l’allenatore, ha usato quell’exploit per rivendicare i progressi del calcio africano per club e prendersi una rivincita nei confronti della stampa europea, accusata di aver snobbato oltremodo i Corvi: «Abbiamo una testa, un cervello, due braccia, siamo come tutti. Abbiamo mostrato al mondo intero che l’Africa va presa sul serio».

I giocatori del Mazembe festeggiano la CAF Champion League del 2010, vinta contro l’Esperance de Tunis

Affari, società e calcio

In realtà, quella del Mazembe, già vincitore nei primi anni ’60 di due Coppe dei Campioni d’Africa quando era conosciuto ancora con la vecchia denominazione di Englebert, rappresenta un’anomalia per il calcio africano. La seconda epopea dorata dei Corvi, impreziosita dalla conquista di tre CAF Champions League, tre Supercoppe, e due Coppe della Confederazione, è iniziata nel 1997: ovvero quando ha cominciato a investire nel club Moise Katumbi Chapwe, magnate proprietario di diverse miniere nella provincia del Katanga, quella più ricca del Congo di cui è stato anche governatore dal 2007 al 2015. Dal florilegio di ritratti a lui dedicati dalla stampa internazionale che si incontrano sul web, la figura di Katumbi sembra combaciare in più punti con l’archetipo dell’uomo d’affari africano, ricco di contraddizioni e sfaccettature stravaganti, così come di ambizioni politiche. Filantropo ed eccentrico fino al narcisismo, i guai per Mr. Chapwe sono sbucati all’orizzonte quando ha rotto i ponti con il presidente Kabila, suo vecchio alleato accusato di poltronismo, candidandosi come principale leader dell’opposizione alle elezioni inizialmente programmate per la fine del 2016, ma che per tutta una serie di motivi difficilmente si terranno prima del 2019: nel frattempo il tycoon congolese, condannato per frode immobiliare, è stato costretto a fuggire in esilio all’estero.

Si chiama invece Orgi Uzor Kalul il mecenate dei nigeriani dell’Enymba, emersi prepotentemente sulla scena africana nei primi anni del nuovo millennio dopo aver vinto due edizioni consecutive della CAF Champions League. Ex governatore dello Stato di Abia, possiede il Daily Sun e il New Telegraph, due tra le testate più prestigiose e diffuse del Paese, ma a noi è noto più che altro per aver trasformato l’Enymba, il cui nome in lingua Igbo significa “Elefante del popolo”, da piccolo club locale a gigante continentale. Nell’allestire la squadra di cui avrebbe fatto parte anche Vincent Enyeama, Kalu è stato attento a non scontentare nessuno, preoccupandosi che tutte le tribù nigeriane si sentissero in qualche modo rappresentate: «Il calcio può essere utilizzato per unire il Paese: nella mia squadra, ad esempio, si potevano vedere rappresentate un po’ tutte le tribù».

Bruno Metsu con i giocatori del Senegal al Mondiale del 2002, in cui la Nazionale arriva fino ai quarti di finale

D’altronde, quello di ricercare l’alchimia perfetta tra i mille gruppi che ne compongono il variegato mosaico etnico è stato da sempre uno dei tanti temi sensibili del continente culla dell’umanità. Proprio in questo senso, come hanno ben spiegato Tado Oumarou e Pierre Chazaud nel loro Football, religion et politique en Afrique, può essere interpretato il fenomeno degli stregoni bianchi, com’è tradizionalmente indicata dalla stampa la pletora di allenatori europei sbarcati in Africa a più riprese: «L’allenatore bianco, simbolo del professionismo, è visto come un’entità super partes, garante contro le preferenze di matrice etnica». In Kenya il derby di Nairobi tra Gor Mahia e Leopards rispecchia la contrapposizione tra l’etnia luo (quella d’origine di Obama) e quella luhya, e non è un caso che in Camerun, dove si contano quasi 250 gruppi etnici diversi, le sfide tra Tonnerre Yaoundé (etnia bétis) e il Racing de Bafoussam (etnia bamiléké), si giocano sempre in un clima da tregenda: «Alcune partite in Camerun somigliano più a scontri tra villaggi che incontri di calcio», si legge. Sarebbe sempre questa la ragione per cui oggi associamo alle nazioni africane un elemento specifico del Paese di riferimento, in genere appartenente al regno animale. Fa parte del processo di costruzione di un’identità comune: «Gli animali offrono una rappresentazione simbolica forte», spiegano sempre Oumarou e Chazaud.

I giocatori egiziani dell’Al-Ahly salutano gli ivoriani dell’Asec Mimosas, nella CAF Champions Leaguedel 2016

L’ombra dei dittatori

Ancor più che da altre parti, in Africa politica e calcio hanno sempre camminato a braccetto, quasi come fossero un’assioma inscindibile. Nei primi anni Sessanta, il sanguinario Mobutu Sese Seko è stato uno dei primi dittatori africani a intuirne il potenziale propagandistico. Celebri i premi promessi ai calciatori della Nazionale dello Zaire dopo la qualificazione ai Mondiali tedeschi del ’74: «Ha promesso a tutti i giocatori una villa in un quartiere esclusivo di Kinshasa, una Volkswagen Passat per ognuno e infine un bonus collettivo da 100.000 dollari», ha scritto in un articolo lo storico francese Paul Dietschy. La spina dorsale di quei Leopardi, dominatori incontrastati del calcio africano di quegli anni, era la stessa del TP Englebert, l’odierno Mazembe. Non deve stupire, quindi, se Ian Hawkey, l’autore di Feet of the Chameleon, su The Blizzard abbia fatto notare come «l’internazionalizzazione di un club calcistico in Africa, o perlomeno nell’Africa Nera, ha avuto inizio in Katanga».

Anche il carismatico Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana, ha pensato di fare del calcio la base su cui edificare l’identità nazionale, usandolo come collante per sanare le frammentazioni sociali e soffocare nella culla le voglie autonomiste della regione di Ashanti: «Immediatamente ha identificato lo sport come veicolo per unire i mille popoli di un Paese i cui confini erano stati elaborati con poco riguardo per le differenze etnico-religiose», scrive sempre Hawkley. Ma c’è di più: a questo scopo Nkrumah ha anche promosso la fondazione ex novo di una squadra, il Real Republikans, un club praticamente di Stato finito nel dimenticatoio alla stessa velocità con cui era stato partorito.

Tifosi dell’Al-Ahly durante la CAF Champions League del 2013

L’Hafia di Conakry, invece, ha avuto miglior sorte. Tutto è cominciato quando Sékou Touré, l’autocratico presidente guineano, ha deciso di rendere il club un modello di successo con cui accreditarsi agli occhi del Mondo: da quel momento il club guineano ha monopolizzato gli anni ’70, conquistando per ben tre volte la Champions League d’Africa, l’ultima nel ’77. Eppure per uno come Touré, smanioso di primeggiare sempre e comunque, non dev’essere stato abbastanza. Una volta, furibondo per una sconfitta, ha emanato un decreto con cui ha imposto a sette giocatori di appendere gli scarpini al chiodo; nel 1976, invece, per punizione aveva fatto portare i calciatori, rei di aver perso la finale di Coppa dei Campioni con l’Alger, nel famigerato Camp Boiro, un centro usato per torturare i detenuti politici.

Anche Muammar Gheddafi ad un certo punto si è accorto di come il calcio potesse essere uno straordinario strumento per veicolare il messaggio della Jamāhīriyya. Per questo, il 5 marzo 1982, nel giorno in cui si alzava il velo sulla Coppa d’Africa casalinga, ha approfittato della luce dei riflettori per trasformare il discorso inaugurale in un comizio politico: siccome con l’Egitto non correva buon sangue, poi, due anni più tardi ha spinto l’Al-Ahly di Tripoli, la sua squadra del cuore, a boicottare la finale di Coppa delle Coppe d’Africa con gli omonimi di El Cairo. E guai a toccargli la famiglia: nel 2000, dopo che i suoi tifosi avevano cantato cori di scherno nei confronti del figlio Saadi in una gara decisiva per il titolo, il Colonnello ha raso al suolo lo stadio, sospeso per due anni da tutte le competizioni, e poi riammesso in seconda divisione l’Al-Ahly di Bengasi, la squadra più antica di Libia e simbolo della Cirenaica, regione storicamente contrapposta alla Tripolitania. Non deve meravigliare, quindi, se molto prima delle primavere arabe sui muri diroccati dello stadio siano comparse scritte come “Ahly ti amo” e “A morte la dittatura”, come se le due cose fossero sillogisticamente correlate.

A Johannesburg ci si prepara per una partita tra Orlando Pirates e Al-Ahly

L’essenza della sopravvivenza

Attualmente il calcio africano sta attraversando un periodo di grandi cambiamenti, alcuni attesi da parecchi anni. Una delle ultime manovre targate dal governo di Issa Hayatou, prima di lasciare al malgascio Ahmad Ahmad il trono della CAF occupato per quasi trent’anni, è stata quella di rinnovare la struttura della Champions League africana, dal 1997 ispirata al modello di quella europea: in sostanza, format più esteso e limite di due squadre per Paese. L’equazione è chiara: più squadre provenienti da più Paesi, più partite a eliminazione diretta, più spettacolo. Il motivo anche: aumentare l’appetibilità internazionale del torneo, sponsorizzato adesso da Total, e attirare nuovi broadcast interessati ai diritti televisivi degli incontri. Qualcosa, comunque, si sta già muovendo: l’anno scorso, ad esempio, Bein Sports, network leader nel settore, ha acquistato il pacchetto per trasmettere la competizione negli Stati Uniti.

Sono tanti, invece, i motivi per cui le leghe africane godano di scarso appeal al di fuori del continente. Eppure ci sono delle eccezioni positive, in un certo senso incoraggianti. Tornei come quello sudafricano, o quello egiziano, ad esempio, sono in grado di trattenere in patria la maggior parte dei membri delle rispettive Nazionali, o comunque in una percentuale molto più alta rispetto agli altri Paesi, ed è per questo che potrebbero rappresentare il modello da seguire in futuro. I numeri, d’altronde, parlano chiaro. Nel 2007 nelle casse della South African Premier Division sono entrati i 195 milioni di dollari versati da Supersport per i diritti tv del torneo; quattro anni più tardi, invece, per 2,6 milioni di dollari Al-Jazeera Sport è diventata la prima emittente internazionale a trasmettere la Egyptian Premier League, scossa qualche mese più tardi dalla tragedia di Port Said, in cui hanno perso la vita 74 sostenitori dell’Al-Ahly, la squadra più titolata d’Africa, e anche quella africana più seguita sui social secondo i dati di Result Sports. Per questo, come ha concluso in una nota molto interessante il blog Soccer Politcs, «il calcio africano è ancora molto indietro, ma l’Egitto e il Sudafrica hanno dimostrato che è possibile colmare il gap e creare una lega stabile e di successo».

 

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