Sembrava tutto finito a Indian Wells. Ogni speranza di vittoria per Juan Martin Del Potro sembrava essere stata sotterrata con quel diritto finito sotto il nastro sul match point nel tie-break del secondo set, poi perso per 10 punti a 8 contro quel “vecchiaccio malefico” che di professione distrugge generazioni di tennisti e di nome fa Roger Federer. Tradito proprio dal colpo che da circa un’ora e mezzo sta creando i solchi sul Centrale di Indian Wells, alzando allo stesso tempo cori d’esclamazione meravigliati dal pubblico. Sembrava proprio che dovesse ripetersi ciò che era capitato a Marin Cilic poco meno di due mesi prima quando, durante la finale degli Australian Open, sprecò in rete allo stesso modo la palla break in apertura di quinto set che avrebbe potuto raccontarci una storia forse diversa. Anche lui contro Roger Federer. Ancora lui con il suo colpo migliore, il diritto.
Nessuno a quel punto avrebbe scommesso su un primo titolo 1000 già sfuggito dalle mani di Del Potro in altre tre occasioni. Una volta nel 2009 contro Andy Murray a Montreal e due nel 2013 contro Djokovic e Nadal, rispettivamente a Shanghai e a Indian Wells. Tutti avrebbero creduto folle pensarlo quando, dopo due ore di partita, l’argentino cedeva per la prima volta la battuta, mandando Federer a servire per il suo sesto titolo in California. Per il suo ennesimo record personale. 15-0, 15-15, 30-15, 40-15. Due match point Federer. È finita. O meglio, sembrava finita.
Sì, perché, forse inebriati dalla voglia di festeggiare ancora il fenomeno di Basilea, nessuno all’interno di quel centrale ricolmo di appassionati ha saputo notato la cosa più importante e che differenzia sensibilmente l’argentino dal collega croato. Al dì là della rete non vi era solo Juan Martin Del Potro, nato a Tandil il 23 settembre 1988. C’era qualcosa di più. C’era un uomo semplicemente incapace di arrendersi. Quella stessa qualità che ha permesso a Del Potro di riemergere dopo tre operazioni al polso sinistro tra il 2014 e il 2015, dopo due anni di stop e dopo la paura di non riuscire più a tornare a giocare su un campo da tennis. Una dote che l’argentino palesò già in giovane età quando – dopo il trionfo agli Us Open 2009 proprio contro l’avversario svizzero di domenica scorsa – era visto da tutti gli addetti ai lavori come destinato ad abbattersi definitivamente sui Fab Four per ergersi magari come una sorta di “quinto Beatles”. E invece gli infortuni si misero di traverso, mettendo davanti agli occhi dell’argentino più volte una cartella clinica di un trofeo.
Il periodo di baratro in cui il ritiro era più che un’opzione non ci ha restituito solo un giocatore di tennis. Ci ha restituito un uomo capace di compiere imprese memorabili destinate a rimanere nella memoria. Un’estrema abnegazione tennistica che trova la sua origine da quei travagli senza fine e che rappresenta qualcosa di nuovo per l’argentino, che più di una volta in passato si era trovare ad affrontare maratone per poi perderle sulla linea del traguardo. Basti solo pensare a tutte le maratone perse all’ultimo chilometro, dalla semifinale contro Federer alle Olimpiadi di Londra nel 2012, persa per 19-17 nel set decisivo a quella di Wimbledon 2013, ceduta a Djokovic per 6-3 al quinto, fino alla finale di Shanghai 2013 sfuggita via ancora una volta contro il serbo nel tie-break decisivo. Adesso quelle stesse maratone Juan Martin Del Potro spesso le vince.
Risorgere quindi – prima sportivamente poi tennisticamente – è diventata una piacevole abitudine. Piacevole per chi deve scrivere o guardare chiaramente. Meno per i suoi avversari. Ne sa qualcosa Andy Murray che nella semifinale di Coppa Davis 2016 si vide violato nella sua terra natia scozzese – dopo essere stato avanti per 2 set a 1 – con il punteggio di 6-4 5-7 6-7 6-3 6-4 al termine di un match pazzesco durato 5 ore e 20 minuti e che ha lanciò l’Argentina verso l’appuntamento finale del torneo inaugurato nel 1900. Ne sa qualcosa anche Dominic Thiem che, agli ottavi di finale degli Us Open 2017, fu testimone di un’autentica resurrezione sportiva, con un Del Potro debilitato e sotto per 6-2 6-1 ma capace di rimontare vincendo i tre parziali successivi per 6-1 7-6 6-4 dopo aver salvato due match point nel quarto set sul 6-5 15-40 per l’austriaco. Ma, soprattutto, ne sa qualcosa l’attuale n. 3 del mondo Marin Cilic che sul cemento di Zagabria, durante la finale di Coppa Davis nel 2016, pregustava già il successo avanti due set a zero sull’argentino. Un successo che invece per Cilic non arriverà mai. Il 6-7 2-6 7-5 6-3 6-4 finale consacrerà Juan Martin agli occhi di un’intera nazione estasiata, dando la consapevolezza che per la prima volta nella storia l’insalatiera avrebbe preso la strada di Buenos Aires. La vittoria decisiva di Delbonis su Karlovic fu solo una naturale conseguenza.
Dall’argento clamoroso alle Olimpiadi di Rio 2016 – dopo aver battuto “quel” Novak Djokovic e Rafael Nadal – alla Coppa Davis fino a questo suo primo trionfo in un Masters 1000 a Indian Wells. È un cerchio emozionale di grandi imprese quello di Juan Martin Del Potro. Un comeback che ha attratto migliaia di appassionati e che forse non è ancora giunto al suo punto più alto.
Paradossalmente a 30 anni Delpo sembra pronto a prendersi quello che per troppo tempo la sfortuna o il destino hanno rallentato. D’altronde – con Djokovic, Murray e Nadal non al meglio e con i giovani ancora troppo acerbi – è l’unico a sapere davvero come battere un numero uno. Nei venti incontri contro i leader della classifica, è uscito vincitore in ben nove occasioni. Quasi il 50% delle volte. Per il momento sono due i titoli nel 2018 – Acapulco e Indian Wells. Undici le vittorie consecutive. 445 i punti dal suo best ranking al numero quattro del mondo. È dunque per questa natura magica da “uomo dei miracoli”, che ormai aleggia costante su Juan Martin Del Potro, che non era impossibile immaginare ciò che poi si è verificato sotto il sole californiano mentre Federer si accingeva a servire l’ultimo punto per il titolo. 40-30. 40-40. 40-vantaggio Del Potro. Game Del Potro, 5-5. Game, set and Match Del Potro, 7-6.