La lotta delle cheerleader

È una questione salariale e legata a assurde regole che regolamentano corpo e comportamenti. Ed è una cosa importante e da tenere d'occhio.
di Erminia Voccia 27 Aprile 2018 alle 11:53

Tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila, high school movie come Ragazze di Beverly Hills, The Breakfast Club o Mean Girls hanno contribuito ad alimentare in Europa e nel resto del mondo il mito delle cheerleader americane. Ragazze sportive, popolari, spesso ricche, bianche e bionde. L’universo di pompon e lustrini è, tuttavia, meno rosa di quel che si pensa, come dimostra il caso di Bailey Davis, l’ex cheerleader licenziata a gennaio 2018 dai New Orleans Saints per aver postato una foto in lingerie di pizzo nero sul suo profilo Instagram. Il New York Times ha rivelato che la cheerleader silurata dai Saints si è rivolta alla Equal Employment Opportunity Commission, lamentando un trattamento ingiusto da parte del team. Ma quella dei Saints non è l’unica franchigia dello sport americano che ha regole rigidissime sulle cheerleader, codificate in specifici manuali di comportamento. La denuncia si somma alle beghe legali che già impegnano la National Football League: scandali interni e casi di molestie sessuali che coinvolgerebbero giocatori e dipendenti della lega. Intanto, Davis è comparsa in molti show e programmi tv e ha svelato le ombre di una professione all’apparenza privilegiata, rivelando le ingiustizie che le cheerleader sono abituate a subire. La forza del ciclone Davis si è abbattuta sugli Stati Uniti in un momento in cui la richiesta di pari opportunità e la diffusione del movimento #metoo stanno mettendo i diritti delle donne al centro dell’agenda dei media e sotto la stretta osservazione dei vertici dello sport.

Con una madre coreografa per i New Orleans Saints da 18 anni, Bailey Davis è nata e cresciuta nell’ambiente del team, e sognava fin da piccola un futuro da line leader, incarico che ha poi ottenuto al suo secondo anno in squadra: da quando 19enne ha iniziato a ballare per il club ne ha rispettato le regole rigide, e retrograde e discriminatorie. La foto pubblicata sul suo profilo privato di Instagram mostra, come ha dichiarato lei, al massimo un bicipite ben allenato. Su consiglio di una collega, Davis ha rimosso il post poco dopo, ma era troppo tardi. La relazione tra pizzo e sport non è mai stata facile, e Davis non avrebbe potuto ricordare il clamore suscitato dalla “divina” Lea Pericoli, pluricampionessa italiana di tennis, che sorprese il pubblico di Wimbledon con un paio di mutandine in merletto rosa.

Convocata dai Saints, Davis ha dovuto difendersi dall’accusa di aver danneggiato la reputazione della squadra a causa del suo comportamento. Le è stato anche contestato di aver partecipato a un party dove era presente anche un giocatore della squadra. In genere, alle cheerleader è severamente vietato “fraternizzare” con i giocatori: non è permesso seguire gli atleti sui social e, se sono questi a cercarle, hanno l’obbligo di bloccarli. Se, invece, una cheerleader nota in un locale un giocatore, è tenuta ad andar via subito. Queste regole sarebbero state pensate dai team per proteggere le ragazze da eventuali stalker. Tuttavia i conti non tornano, se si pensa che tra i compiti delle cheerleader dei Saints c’è stato per anni anche quello di vendere blocchi di calendari patinati, girando per gli stadi tra i tifosi.

Lo stereotipo delle ragazze pompon è stato ribaltato nella cultura pop dal film del 2016 di Irving Franco intitolato Cheerleader. La protagonista Mickey è l’esatto opposto della ragazza sicura di sé e spregiudicata che ci saremmo aspettati. I tormenti emotivi e il turbine dei suoi pensieri aprono una finestra sul panorama scuro e triste della vita da cheerleader: Mickey sente la pressione della società e il peso della sua immagine pubblica. L’idea che una cheerleader sia una una donna sempre a disposizione e pronta ad assecondare ogni desiderio dell’uomo è proposta anche dalla canzone del 2015 di Omi che paragona la ragazza pompon a un genio rinchiuso in una lampada.

Le cheerleader, ancora oggi, non sono padrone del proprio corpo: sono molte le squadre che vietano alle ragazze di posare in bikini o in altri tipi di costumi da bagno, e può essere previsto uno scarto minimo dal “peso ideale”. Alcuni manuali di comportamento, invece, includono anche una serie di multe: si paga per aver portato i pompon sbagliati, e per aver dimenticato un capo dell’uniforme bisogna dire addio a un giorno di paga. Fino al caso limite delle cheerleader che sembrano lavorare per i servizi segreti, quelle che non possono rivelare il loro datore di lavoro e sono invitate a disattivare il segnale gps del cellulare.

E poi c’è l’aspetto economico. Le cheerleader pagano centinaia di dollari per le uniformi e vengono remunerate con assegni che sono al di sotto della soglia del salario minimo, devono vendere i biglietti delle partite, presenziare ad aventi benefici e a tornei di golf senza avere alcun guadagno. In più, le cure di bellezza sono tutte a spese delle ragazze, dalle sedute dal parrucchiere a quelle dall’estetista. Strano, se si considera che parte del loro lavoro consiste nell’apparire al meglio e nell’essere inquadrate dalle telecamere al momento giusto e nei punti giusti.

Infine, ci sarebbe anche un aspetto medico-sportivo che spesso passa in secondo piano o sbiadisce sullo sfondo, ma meriterebbe di salire qualche gradino nella scala di priorità. Secondo l’American Academy of Pediatrics le cheerleader dovrebbero essere trattate come atlete, soprattutto per prevenire infortuni dovuti alle acrobazie che eseguono. Invece non godono di questa considerazione. In un report pubblicato nel 2012 ed esaminato dal Wall Street Journal, l’associazione dei medici americani ha invitato a ritenere «l’attività di cheerleader una disciplina sportiva al pari delle altre, sin dalle esibizioni alle partite del liceo o del college». Motivo per cui le ragazze dovrebbero avere accesso allo stesso livello di assistenza degli altri sportivi, di personale medico qualificato e di coach.

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