Un’integrazione ben riuscita

Il calcio svizzero ha beneficiato dell'accoglienza degli slavi in fuga dalla guerra dei Balcani.

Germania 2006, Sudafrica 2010, Brasile 2014 e Russia 2018: per la quarta volta consecutiva, la Svizzera si è qualificata alle fasi finali dei Mondiali. Difficile trovare un periodo tanto fortunato nello storico della nazionale alpina: fino a due decenni fa, sarebbe servito uno sforzo immaginifico altrettanto discreto anche per pronosticare il successo elvetico contro le nazionali della tradizione balcanica. Il 22 giugno, invece, gli uomini di Vladimir Petković scenderanno in campo, con i favori del pronostico, contro la Serbia di Mladen Krstajić.

Nulla di strano, una partita del girone come le altre, se non fosse per l’odore di derby che si andrà respirando all’Arena Baltika di Kaliningrad. Serbia-Svizzera è, infatti, anche Kolarov contro Behrami, Matić contro Shaqiri, Mitrović contro Xhaka. Serbia-Svizzera è Serbia-Bosnia, Serbia-Macedonia e, soprattutto, Serbia-Kosovo. Gli esuli di una regione che conta poco più di due milioni di abitanti sono all’origine degli inaspettati successi rossocrociati: per alcuni, un esempio d’integrazione ben riuscita. Quegli stessi figli di quella stessa regione fuggiti per un rapporto conflittuale, violento e drammatico con i vicini di casa slavi: in ogni caso, un esempio cristallino di bilaterale intolleranza.

Xherdan Shaqiri, svizzero di origini albanesi, esulta dopo un gol a Euro 2016

Il calcio svizzero, dall’anonimato alla ribalta

Rapide comparse nei gironi eliminatori, eccezionali qualificazioni ai quarti di finali nei tornei degli anni Trenta, ventotto anni d’astinenza dalle competizioni mondiali: la cultura elvetica non entra certo nell’immaginario collettivo per le performance calcistiche. La continuità delle mancate apparizioni ai Campionati del mondo è il sintomo di quanto poco il calcio abbia significato per gli svizzeri e di quanto poco la Svizzera abbia significato per il calcio, almeno fino all’ultimo ventennio.

I primi segni di un atteggiamento nuovo verso il mondo del pallone arrivarono a metà anni Novanta, durante i gironi di qualificazione per Usa 1994. Presi per mano da Roy Hodgson, Ciriaco Sforza, Stéphane Chapuisat e Alain Sutter, gli elvetici batterono inaspettatamente l’Italia a Berna e si qualificarono per la trasferta transatlantica. Il sogno durò incredibilmente fino agli ottavi di finale, ma bisognerà attendere fino al torneo tedesco, dodici anni più tardi, per apprezzare un cambiamento di rotta definitivo nella struttura della Svizzera.

È in quell’occasione, infatti, che i cognomi francesi, tedeschi e italiani presenti nella lista dei partenti cominciarono a mischiarsi con quelli di origine spagnola, ivoriana, turca, albanese e bosniaca. Anche in Germania, il cammino si fermò agli ottavi. Fu l’Ucraina ad accompagnare all’aeroporto Frei e compagni dopo i calci di rigori. Tuttavia, su quel mix di nazionalità verrà costruita la continuità di risultati che fino a quel punto era sfuggita alla formazione alpina. Proprio in quel mix di nazionalità si iniziano a intravedere le radici balcaniche di alcuni dei giocatori più importanti delle rose future.

La Nazionale svizzera festeggia una rete di Chapuisat contro la Romania nel 1994

Serbia, Kosovo, Svizzera: l’esodo

Blerim Džemaili, Admir Mehmedi, Valon Behrami, Albert Bunjako, Xerdan Shaqiri, Granit Xhaka: da dieci anni gli albanesi di provenienza macedone e, soprattutto, kosovara sono la spina dorsale delle formazioni elvetiche. Per trovare le ragioni di questa ibridazione nel movimento calcistico svizzero bisogna guardare alla storia recente della regione balcanica. Nel corso dei secoli, bizantini, slavi, ottomani, serbi e albanesi si sono battuti e contesi quel quadrato di terra collinare che si estende attorno a Pristina. Una storia di tensioni stabilizzate durante la dittatura di Tito e riprese con vigore dopo i primi indizi di dissoluzione del regime jugoslavo.

Il primo segnale dell’instabilità politica e degli umori etnici pronti a ritornare a galla si avverte subito dopo la morte del dittatore. Nel marzo del 1981, gli universitari di etnia albanese scendono in piazza per protestare contro il regime. Il Kosovo gode, allora, di un certo livello di autonomia garantita dalla riforma costituzionale del 1974. Tuttavia, la povertà, le ineguaglianze reclamate e lo spirito indipendentista mai placato spingono in piazza gli studenti. Seguono arresti e trattamenti coattivi sommari da parte della polizia del governo centrale: azioni che portano a un numero crescente di atti discriminatori (avallati dalle autorità locali) contro la minoranza serba. È il 1987 quando Slobodan Milošević visita per la prima volta la regione. L’astro nascente della politica balcanica fa appello all’orgoglio slavo dando il la a una nuova concezione di Jugoslavia: non più socialista, autoritaria e aperta al riconoscimento delle differenze locali, ma, piuttosto, accentratrice, nazionalista e a guida serba.

Nei due anni che seguono, la “rivoluzione anti-burocratica” porta in piazza migliaia di cittadini slavi in tutta la Jugoslavia. La protesta è rivolta contro i governi delle province autonome accusati di essere corrotti e di minare la salute economica del Paese. L’onda popolare spinge Milošević verso la presidenza ed è il motore per fare pulizia ai vertici delle istituzioni regionali in Kosovo, Montenegro, Macedonia e Vojvodina. La drammatica riduzione delle autonomie, il crollo economico e la povertà fomentano la protesta dei minatori kosovari-albanesi: è l’inizio di nuove e più violente tensioni che si prolungheranno otre la dissoluzione della Jugoslavia nel 1990 per toccare l’apice durante la guerra del 1996.

Proprio tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si registra una forte ondata di migratoria verso l’Europa occidentale. Non la guerra, distante ancora diversi anni, ma la povertà crescente, la disoccupazione e il clima ostile sono all’origine della diaspora kosovara. Una diaspora che ha la Svizzera come destinazione privilegiata dopo la Germania. I genitori di Behrami, Shaqiri e degli altri calciatori che giocano o hanno giocato per la selezione rossocrociata si sono spostati verso le Alpi in quell’esatto periodo insieme ad altre centinaia di famiglie. Operai, minatori e studenti, ma anche professori, impiegati e funzionari politici hanno attraversato i Balcani per trovare condizioni di vita meno proibitive.

Slobodan Milošević a Belgrado nel 2001

Calcio e integrazione

Come accade in tutti i Paesi che si trovano ad affrontare le ondate migratorie, anche in Svizzera c’è voluto del tempo prima che l’integrazione potesse dirsi compiuta, almeno in certi termini. Al tempo degli eventi, i partiti di destra pubblicizzarono campagne xenofobe esplicite contro i nuovi arrivati. Le iniziative istituzionali per favorire l’integrazione non trovarono l’appoggio politico per essere portate a termine. Dal punto di vista sociale e occupazionale, alcuni studi mostrano evidenze significative che suggeriscono come le persone con cognomi balcanici avessero difficoltà a trovare un impiego nelle floride imprese alpine.

Segretaria la madre, dirigente d’azienda il padre: i genitori di Valon Behrami trovarono residenza a Stabio, sul confine italiano, dopo aver perso il lavoro e abbandonato la loro casa a Titova Mitrovica. Sono fra i più fortunati e riescono a inserirsi nella realtà produttiva del Canton Ticino dopo pochi mesi. Il padre di Shaqiri, pastore sulle Alpi, cerca di evitare al figlio le fatiche di un servizio sottopagato e logorante supportandolo nella carriera da calciatore fin dall’infanzia. Particolarmente significativa è la storia di Ragip ed Elmaze Xhaka, genitori del centrocampista dell’Arsenal. Durante le prime e fibrillanti manifestazioni studentesche sul finire degli anni ottanta, Ragip viene arrestato e detenuto per crimini contro il regime jugoslavo. Secondo i racconti, subisce torture e intimidazioni. Dopo tre anni e mezzo, le autorità lo rilasciano senza una ragione chiara. La coppia cerca di raggiungere il nord Europa, ma una volta in Svizzera gli amici della comunità kosovara li convincono a rimanere. Al termine di un percorso più travagliato di altri, finiscono a lavorare per una società di pulizie notturne

Emarginati in un Paese straniero, stretti orgogliosamente attorno alla cultura d’origine, legati alla loro comunità d’appartenenza: kosovari, albanesi come bosniaci, croati, sloveni e macedoni hanno ripercorso le orme solite dei popoli che emigrano. Sono ripartiti da lavori umili e mal pagati, hanno sviluppato imprese proprie talvolta superando i confini della legalità. Hanno attratto il risentimento e la frustrazione dei locali per vedersi riconosciuti solo una volta raggiunto il successo, soprattutto sportivo. Ancora una volta, il calcio è servito come “exit” individuale con benefici per le condizioni di un’intera comunità. Come accaduto in Germania con turchi e polacchi e (almeno parzialmente) in Francia e Inghilterra con i popoli delle ex colonie, il pallone è servito da fluidificante per un processo d’integrazione rallentato nella quotidianità sociale e dalle logiche del consenso politico.

A Euro 2016, dopo aver scelto due Nazionali diverse, i fratelli Xhaka si sono sfidati in Albania-Svizzera