Di cosa è fatto il mito di Wimbledon?

Quali sono le abitudini, i luoghi e le stranezze che rendono così forte il fascino dello Slam più prestigioso del mondo.

L’ultima volta, a Wimbledon, c’era un signore in cerca della “tomba dei campioni”, il campo 2, che è un po’ come piazza della Bastiglia a Parigi: arrivi, e ne trovi solo lo spirito. Per gli appassionati di tennis, quel piccolo court era meta di pellegrinaggio perché custodiva un segreto inconfessato, con la sua lista di campioni caduti per mano di avversari spesso ignoti ai più: Connors eliminato da Patrich Kühnen, McEnroe battuto da uno dei gemelli Gullikson, Tim; e poi Michael Stich, il campione del 1991, fatto fuori da Bryan Shelton, Richard Krajicek (re del 1996) sgambettato da uno svizzero appena meno noto di Federer, Lorenzo Manta. Un campo umido più degli altri, si diceva. Intimo, isolato, un po’ spettrale verso il calar del sole. Però quel campo non c’è più, la superficie fisica è diventata un vialetto che conduce al campo 3 e la fascinazione delle sue storie è stata arata via dai giardinieri del Tempio.

In verità, almeno per chi frequenta Church Road dall’era analogica, Wimbledon ha finito con il cedere parte della sua essenza al pressing della modernità già dai primi anni del millennio, quando il capo giardiniere – ora pensionato – Eddie Seaward tramò con il Comitato del torneo per una rivoluzione molto più silenziosa e incruenta di quella francese: studiò una nuova miscela di sementi per i prati, fece rullare pesantemente i basamenti e alzò di qualche millimetro il taglio delle macchine a motore. Col risultato che, dal 2000 in poi, l’erba di Wimbledon è diventata molto più folta, molto più verde e adatta anche al gioco da fondocampo. Con tanti saluti al serve&volley. Provando a camminare a lato dei campi più periferici, o infrangendo le regole e dando una pettinata furtiva a una zolla tra un match e l’altro, chiunque abbia un praticello a casa, o abbia visto più di qualche area condominiale ben curata, si accorgerà che il terreno dei Championships è straordinariamente compatto. Ogni volta che i vecchi campioni tornano per disputare il torneo delle leggende, restano straniti: «Questo è uno scherzo», disse una volta Goran Ivanisevic, il cavallo pazzo del tennis che riuscì ad agguantare quel titolo così sfuggente ormai fuori tempo massimo, in una indimenticabile edizione 2001. «Qui, ormai, è più lento che sulla terra battuta».

Insomma, sarebbe un esercizio piuttosto semplice, elencare i motivi per cui “quel” Wimbledon è andato un po’ perso, e con lui anche gli echi della finale che Goran vinse, un lunedì perché quell’anno pioveva e il tetto non c’era ancora, contro Pat Rafter. Una partita giocata con il pubblico più popolare e rumoroso mai visto, entrato in un giorno feriale a fare i cori per l’impresa del croato. Ora il tetto c’è, anzi, questo sarà il decimo torneo con la copertura sul campo centrale; non appena inizia a piovere, lo spettacolo si arresta, le due lame a fisarmonica vengono fatte avvicinare dai verricelli e Wimbledon, per chi ha il biglietto più ambìto del mondo tennistico, diventa una sorta di cattedrale raccolta in adorazione dei suoi miti. È una sensazione straniante: il tifo british, soprattutto se in campo non c’è Andy Murray, accompagna le giocate vincenti con un prolungato e composto “yeeeeeeee”, un po’ come i compagni di partito del portavoce alla Camera, e non c’è nulla di più abbottonato – nel mondo occidentale – di quella maniera di vivere un luogo sacro del tennis. Al chiuso, il tutto viene ovattato e non si disperde un decibel. La stessa partita giocata sul centrale degli Us Open, tra schiamazzi, puzzo di fritto, gente che parla al telefono o ride fragorosamente nel corso del gioco, è un altro sport. Anche se ha infranto il tabù della pioggia che comanda il torneo, il campo col tetto è un’esperienza da provare.

Nonostante numerose restaurazioni e ammodernamenti, però, ci sono ancora tanti modi per vagare per Wimbledon e perdersi alla ricerca delle sue storie. Se si è interessati a qualcosa di più dell’immediato, una visita al campo 18 evoca The Match, un incontro tra due ragazzi ignoti ai più, John Isner e Nicolas Mahut che, un pomeriggio del giugno 2010, iniziarono una più che ordinaria partita di primo turno del tabellone di singolare. Solo che quella partita si trasfigurò in un mostro di 11 ore e 5 minuti, spezzato in tre (tre!) giorni e finito con un punteggio che pare una stringa di un codice per programmatori: 6-4 3-6 6-7(7) 7-6(3) 70-68. Se si circumnaviga il campo, appesa a un muro di mattoni, si scorge una targa a ricordo di un episodio che ha smosso i cervelli pensanti della Federazione internazionale, perché qualcuno approfittò di quello sbrodolamento di 138 giochi nel quinto set per proporre di sostituirlo con un tie-break, fingendo preoccupazione per la salute degli atleti e nascondendo un mandato dei network televisivi, storicamente afflitti dall’incertezza della durata degli eventi sportivi. Per fortuna, quella volta, i conservatori resistettero. E se spesso i musei sportivi sono il prodotto di un progetto globale di acchiappaturismo di massa in cui si vendono suggestioni d’accatto mostrando qualche reliquia per denaro, il Lawn Tennis Museum Wimbledon è un altro posto da non perdere, se ci si vuole immergere nello spirito di quanto si inventarono dal 1877 in poi, prima a Worple Road e poi qui. Un racconto lungo quasi 150 anni in cui c’è tutto, dal languido tango all’ora del tè di Spencer Gore alla canotta ancora strisciata di erba di Rafa Nadal, teiere d’argento e borracce piene di intrugli proteici, passando per l’ologramma di John McEnroe che ti si para innanzi a tutta parete in uno spogliatoio ricostruito ad arte, e ti ricorda che quella palla – la chiamata più famosa del tennis, da cui originò il suo «You cannot be serious!» – era davvero sulla riga.

Wimbledon è un posto in cui non puoi capitare per sbaglio, anzi, ti tocca fare quasi tutta la District Line e scendere a Southfields per incamminarti fino ai Cancelli, non sbarramenti qualsiasi ma i Doherty Gates in ferro battuto, dedicati ai due fratelli plurivincitori a cavallo tra Ottocento e Novecento e marchiati a oro con una sigla da iniziati, AELTC (All England Lawn Tennis Club). Scuri e imponenti, intimidiscono il passante, come a rimarcare che si entra solo con invito: del resto, Wimbledon rimane un tennis club privato. La celebre coda per accaparrarsi i biglietti che vengono venduti giornalmente, un serpentone che riempiva buona parte di Church Road, è stata spostata nel più attrezzato Wimbledon Park, ma rimane un’esperienza che i più giovani e i meno esigenti possono regalarsi: zaino, tenda, cibo, fornelletti da campo e chitarre bastano per passare una notte estiva all’addiaccio e regalarsi una giornata che inizia alle sei del mattino, con la sveglia forzata degli addetti. Anche senza i ticket più ambìti, ci si può infilare nei ground e respirare l’aria incantevole di un torneo che riesce a essere anacronistico ma mai grottesco, con i giudici elegantemente retrò e i giocatori in bianco che si battono su una superficie viva, mica inerte come il cemento o il mattone tritato.

Una volta entrati, il richiamo del giro intorno al fortino del campo centrale è difficilmente resistibile: quel palazzotto ricoperto di edera, e il più moderno Millennium Building accanto, è il Colosseo degli sportivi, lo si è visto tante volte dal restituire una sensazione familiare, quasi casalinga. Soprattutto se si guarda in su dal lato sudovest: c’è un terrazzo con una ringhiera, anzi, c’è il Terrazzo. Da lì, si sono sporti tutti i campioni per mostrare ai fan il trofeo dopo la finale della domenica, anzi, il Trofeo, con quell’ananas sul coperchio che di british non ha nulla, e su cui si tramandano teorie non molto convincenti, eppure è un oggetto tra i più riconoscibili dello sport.

E siccome non c’è leggenda che resista alla fallacia umana, i più attenti noteranno che la hedera helix ormai arrampicatasi fino ad abbracciare tutto l’edificio è malata da anni, proprio nel punto più esposto agli sguardi dei tifosi, e finora non c’è stato modo di eliminare quelle zone marroncine. Altri, girovagando per i viali, si saranno già fatti accecare dalla fama delle fragole con panna, smerciate al cambio intorno ai 5 euro a coppetta. Sono quattro frutti ghiacciati e insapori, inzuppati in una cremina gialla liquida e appiccicaticcia. Eppure val la pena provare pure quelle, perché resteranno nei ricordi come il miglior pessimo dessert della vita.

 

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Dal numero 22 di Undici