Calvino in Russia

Quando lo scrittore andò a Mosca a vedere e raccontare la finale di Coppa dell'Unione Sovietica del 1952.

Il Dynamo Stadium, a Mosca, non c’è più. Costruito nel 1928, è stato demolito sette anni fa per far sorgere, al suo posto, la Vtb Arena, costruita da una ditta italiana e rimasta fuori dagli impianti di Russia 2018. Nei suoi anni di storia non ha mai visto una partita di Mondiali, ma in compenso ha aperto le porte a Michael Jackson, ai Deep Purple e a Italo Calvino. «Il nostro autobus procede in un mare d’automobili. Stiamo andando allo Stadio “Dynamo” dove si gioca la partita finale della coppa di calcio. La partita è tra la Ze-De-Sa (Casa centrale dell’Esercito Sovietico) e la Kalinin. A Mosca non si parla d’altro; anche noi delegati siamo divisi in tifosi dell’Esercito e in tifosi della Kalinin». Inizia così l’articolo “Vittoria per i tifosi”, comparso sulle colonne de l’Unità il 13 febbraio 1952 a firma dello scrittore sanremese.

Calvino ha 28 anni, sulle spalle l’esperienza della Resistenza raccontata ne Il sentiero dei nidi di ragno. Nello stesso anno uscirà il primo tassello dei Nostri Antenati, Il Visconte dimezzato, e seguirà da inviato speciale per l’Unità le Olimpiadi di Helsinki. Tra l’ottobre e il novembre del 1951 compie un viaggio di cinquanta giorni in Unione Sovietica, la cui corrispondenza verrà pubblicata un anno dopo, a puntate, sul giornale e poi in un Taccuino di Viaggio. Fu un vero e proprio reportage di vita e di costume sull’Urss, con cui lo scrittore sanremese vinse il Premio Saint Vincent per il giornalismo. In un articolo, comparso su la Repubblica del 21 dicembre 1979, prenderà le distanze dai toni di quel suo viaggio, rimproverandosi di essere stato troppo rasserenante, sicuro, banale, di aver rivestito con una maschera la tragedia storica degli ultimi anni di Stalin.

La partita che il cronista Calvino racconta è la finale di Kubok Sssr, la Coppa dell’Unione Sovietica di calcio, giocata a Mosca tra la Casa centrale dell’Esercito Sovietico, l’odierno Cska, e la Kalinin, compagine di Serie B russa che ha smesso di esistere nel 1956. Giusto il tempo di arrivare in finale contro i più forti, segnare al 90esimo il gol del pareggio e vederselo annullare. Fu un cammino glorioso quello della piccola squadra, che agli ottavi buttò fuori la Dinamo Erevan, ai quarti la Dinamo Mosca, e in semifinale vinse 1-0 contro il Sachtyor Stalino, squadra che oggi porta il nome di Shakhtar Donetsk: «La Kalinin è la rivelazione della coppa», scrive Calvino, «era una squadretta della provincia, che giocava in Serie B; ed ecco che ha vinto la Dynamo (4-0), ha fatto prodigi contro tutte le altre squadre ed è arrivata in finale coi campioni dell’Urss».

Più che la partita, lo scrittore racconta le frenesie («C’è dietro di me uno di questi moscoviti anziani e grossi, con un bastone in mano, che fa un tifo tutto brevi grida e battute rabbiose»), gli animi, i protagonisti di quel calcio. È una carrellata di volti e di figure: «Il pubblico dello stadio ci offre una vista la più gaia e varia di tutta l’umanità sovietica mescolata gomito a gomito», dai «panciuti moscoviti vecchio stile» ai «baffuti operai anziani, giovani intellettuali, studentesse, generali seduti accanto a soldati» fino alle «belle signore impellicciate (altre Anne Karenine!)» delle quali oggi, nei Mondiali del 2018, è stato deciso di bandire l’inquadratura. «Questi romantici di moscoviti pare siano tutti per la Kalinin, anche i soldati, anche i generali. E fanno un tifo da non dire».

È la prospettiva inversa che permette di cogliere la vera entità delle cose. Mentre tutti guardano la partita, Calvino, spalle al campo, guarda loro. Non può che essere così per chi ha sempre affermato che «l’unica cosa che vorrei insegnare è un modo di guardare». E guardare è un modo di essere al mondo, di farne parte. Calvino lo smonta e lo comprende, per capire come anche il calcio sia metafora della vita, sugli spalti come in campo, dove «dai primi minuti di gioco è chiara la superiorità dell’Esercito, ma l’irruenza della Kalinin ha ragione dell’abilità tecnica degli avversari».

«La Ze-De-Sa che non la spunta su quei pivelli è oggetto d’invettiva e motteggi: – Dove sono i maestri del football? – L’arbitro, invece, pare che sia più tenero per l’Esercito e il pubblico gli diluvia addosso fischi e contumelie. Mi traducono il grido: – Va a scuola a studiare! – ma ce ne devono essere di molto peggiori. I moscoviti sono gran tifosi, pressapoco sul nostro tipo. Ogni azione andata male alla Kalinin è sottolineata da grida e gesti di sconforto (c’è un gesto russo, volgare ma espressivo, per esprimere dispetto: si portano un pugno vicino alla bocca e fanno la mossa di sputarci sopra)».

Anche Calvino, in mezzo a quelle «migliaia di facce stravolte, tirate per la paura, la speranza, la tensione, tutti completamente persi senza nient’altro nella testa», come si legge in Febbre a 90 di Hornby, si lascia andare: «Stepanovic afferra al volo le nostre imprecazioni italiane e le usa anche lui. Noi kalininisti della delegazione soffriamo per l’andamento della partita ma ci compiacciamo di avere quasi tutta Mosca dalla nostra parte e tacitiamo i compagni tifosi della Ze-De-Sa che si trovano in netta minoranza».

La Kalinin segna il gol del 2-2 al novantesimo ma «in un tripudio d’entusiasmo» ci si accorge che l’arbitro ha annullato il gol. «La banda si mette a suonare, la coppa viene portata in campo ma il pubblico continua a diluviare fischi e urli. La Kalinin ha fatto ricorso ai giudici di campo, il risultato è sospeso». Come si legge dalla cronaca di Aksel Vartanyan per il giornale Sport Sovietico, l’allenatore della Kalinin Petr Zenkin, in passato giocatore della ZeDeSeA, fa mettere a verbale che il gol era regolare.

Non avranno usato il Var, forse la sua bisnonna, ma i giornali del lunedì mattino riportano il risultato definitivo: 2-2, la partita si deve rigiocare. «Non andiamo allo Stadio», racconta ancora Calvino, «ma vediamo come Mosca segue la partita. Nei corridoi dell’albergo, cameriere e facchini non si staccano dagli altoparlanti che trasmettono la radiocronaca. Nei negozi, nei caffè, per la strada la gente fa grappolo attorno alle radio. Siamo alla fine della partita e non ci si muove dal pareggio: 1 a 1». Calvino è alla redazione di Ogoniok, rivista moscovita, quando incontra Boris Polevoi, autore di Storia di un uomo reale, «torna proprio adesso dallo stadio, ancora tutto scalmanato. Ha vinto l’Esercito: 2 a 1. Ma la Kalinin ha tenuto duro per due tempi supplementari; la vittoria morale è della giovane squadra di provincia».

La squadra di B contro i campioni, la provinciale contro la squadra dell’Esercito. Come il Panama che arriva in finale contro la Francia, come Pin da solo contro tutti i tedeschi. L’autore sanremese non poteva che tifare per la Kalinin. Come tutti i tifosi, alla fine, anche Calvino non è schiavo del risultato, e come tutti i tifosi, il suo cuore è leggero: «La mia operazione è stata più delle volte una sottrazione di peso», spiega in Lezioni Americane, «ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti ora alle città». E adesso anche a una partita di calcio, a un’impresa assurda ma solo sfiorata, ad una vittoria fantastica soltanto accarezzata. E cosa c’è di più leggero?

 

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