Un vecchio, nuovo Tour de France

Perché ha vinto un capitano, in mezzo a tanti gregari, e segnali di cambiamento per il futuro.

Il Tour del cambiamento?

Lo scorso 17 ottobre Christian Prudhomme, direttore generale del Tour de France, mostrava al mondo due cartelli. Uno difendeva i ciclisti sulle strade, l’altro presentava il percorso della Grande Boucle 2018. Il primo è stato applaudito da tutti, il secondo anche. Certo, qualche piccola pecca affiorava qua e là, ma l’impressione generale era stata quella di una corsa finalmente decisa ad osare. Le ultime edizioni, tatticamente bloccate e imballate dalla superiorità di Chris Froome e della sua Sky, d’altronde, avevano imposto a livello internazionale una riflessione sulla noia: la corsa più importante del mondo non poteva più permettersi di allontanare spettatori. Messaggio recepito con chiarezza dall’organizzazione, che si era prodigata nell’allestimento di una gara di altissimo livello e nel disegno di un tracciato il più possibile vario e insidioso.

Adesso che il Tour de France si è concluso con un altro trionfo Sky, raggiunto con un nome e una storia (parzialmente) differenti, il problema non sembra del tutto svanito. Un percorso che si preannunciava come foriero di continui colpi di scena e ribaltamenti di classifica ha premiato invece il corridore con la maggiore costanza di rendimento, capace di schivare le cadute, fortunato nel salvarsi dalle forature, abile nel conquistare gli abbuoni. Una somma di fattori che, certo, ha finito per premiare colui che nel complesso è stato il più forte, ma che dall’altro lato non ha esattamente realizzato l’ideale di tre settimane di assalti all’arma bianca.

A scorrere la classifica alle spalle di Geraint Thomas si scopre un distillato della nobiltà dei Grandi Giri. Nomi senza dubbio prestigiosi, sui quali hanno però pesato più del previsto i guai incontrati nella prima settimana di gara, la più ordinaria, rivelatisi la più selettiva. Una beffa non da poco per un Tour che aveva osato per provare a diventare più attraente. Doveva essere l’edizione della rivoluzione; si è rivelata, più modestamente, quella del cambiamento.

Geraint Thomas vince il Tour a 32 anni, a coronamento di una carriera fatta soprattutto di sliding doors, di cose che avrebbero potuto essere diverse ma che mai lo sono diventate. Vince da capitano e da gregario insieme. Segno particolare: la continuità. Anno dopo anno, Thomas si è trasformato da talento della pista a promessa delle classiche, quindi a buon cronoman e discreto scalatore, infine ha raggiunto l’apice, supportato dalla solita corazzata-Sky.

È una bella storia, la sua, ma pare destinata a durare poco. L’età e la mancanza di attitudine da vincente peseranno da subito sulle spalle del Signor G, e il suo ruolo con buona probabilità diventerà quello dello spartiacque generazionale. Una situazione già vista nel ciclismo moderno con Bjarne Riis e Carlos Sastre, che nel 1996 e nel 2008 chiusero rispettivamente le epopee di Miguel Indurain e Lance Armstrong.

Caso strano quello del Tour: appena finisce si corre già a pensare al prossimo. Quest’anno ancor di più, perché il Tour 2018 forse non ci ha detto molto sulle possibili innovazioni dei percorsi di gara, ma ha definitivamente strappato il sipario sul domani. Dietro a Thomas si sono piazzati il primo e il secondo dell’ultimo Giro d’Italia, ed era da 24 anni che non si vedevano due corridori in grado di ripetersi sul podio: sembrava un’altra era, invece si può ancora. E se la doppietta fallita di Froome sa tanto di ultima occasione, i due secondi posti di Tom Dumoulin indicano con chiarezza il dominatore del futuro prossimo, capace di esaltarsi anche senza il supporto di uno squadrone come la Sky.

Dumoulin non avrà vita facile, ad ogni modo, perché Primož Roglič (sorprendente 4° in classifica generale) ed Egan Bernal (eccezionale ultimo uomo Sky in montagna) sono in agguato. Proveranno a vestire la maglia gialla anche loro, forse già tra un anno, con le loro storie e i loro tempi diversi. Diversi saranno anche i prossimi Tour: ora forse possiamo dirlo davvero, ed è una lieta novità. (Filippo Cauz)

 

A different Sky

L’ultima volta che i francesi se la sono presa così tanto con un gruppo di inglesi fu probabilmente durante la Guerra dei cent’anni. Il clima pesante che si respirava ovunque sulle strade del Tour non ha comunque impedito al Team Sky di dominare in lungo e in largo anche questa Grande Boucle. È innegabile che la corsa l’abbia fatta ancora lo squadrone britannico, che piazza un proprio corridore sul gradino più alto del podio per la sesta volta nelle ultime sette edizioni.

Questa volta è toccato a Geraint Thomas, capace di sublimare alla perfezione il concetto che per vincere un grande giro serve la giusta miscela tra spunto individuale, lavoro di squadra e capacità di leggere la corsa. Thomas ha fatto suoi due arrivi in salita (La Rosière e Alpe d’Huez), scattando agli ultimi metri in faccia ad avversari sfiancati dall’infernale ritmo imposto dalla propria squadra. Oltre a ciò, il gallese ha sfruttato a suo favore tutte le situazioni che la corsa gli ha offerto, a cominciare dal ritardo in classifica di quello che doveva essere il suo capitano e che invece ha finito per essere stopper di gran lusso.

Si dice che gli dèi tormentano chi vedono, e Chris Froome a questo Tour era veramente visibile. Attardato di un minuto dopo la caduta rimediata durante la prima tappa, e forse stanco delle fatiche del Giro, Froome ha visto la sua leadership iniziale perdere quotazioni giorno dopo giorno. Per nulla infastidito dallo scettro perduto, il keniano bianco si è diligentemente messo a fare il gregario, dichiarandosi sinceramente felice del trionfo dell’amico. Alla fine, pur non realizzando la tanto agognata doppietta, ha chiuso sul podio un’edizione del Tour che lascia in eredità due dubbi non da poco sul suo conto: Chris Froome tornerà in Francia? Se sì, riuscirà a rivincere il Tour?

La forza della Sky, ad ogni modo, non risiede solo in Thomas e Froome. C’è soprattutto la compattezza di un team che è stato in grado di uscire indenne persino dalla prima (e unica) situazione in cui i suoi avversari l’hanno messo a dura prova: nemmeno i ripetuti attacchi di Movistar e LottoNL nel tappone pirenaico di Laruns sono riusciti a isolare definitivamente la maglia gialla, soprattutto per merito dello scalpitante puledro di razza che risponde al nome di Egan Bernal.

Portato al Tour per “fare esperienza”, il 21enne colombiano è riuscito a chiudere al 15° posto nonostante il gregariato. In definitiva, la presenza di Bernal sulle strade francesi si è risolta in una nuova scommessa vinta da Sir David Brailsford e soci. E anche in ciò risiede la straripante forza di Sky: a girare bene non sono solo gambe dei corridori e risorse economiche, ma anche testa e fiuto dei direttori sportivi. (Pietro Pisaneschi)

 

Il Tour degli errori (e gli errori del Tour)

Il Tour era cominciato sotto la stella sbagliata. Alla vigilia della partenza dalla Vandea l’interesse era quasi tutto concentrato sull’affaire-salbutamolo e sull’assoluzione last minute di Chris Froome. Era cominciato tra i fischi del pubblico, i quali – a differenza di gran parte delle discussioni sul suo caso – non se ne sono mai andati, scortando il campione inglese dal primo all’ultimo chilometro.

Tifosi che non tifano ma fischiano, quindi; altri che magari non fischiano ma fanno peggio – cercando di colpire o rallentare i ciclisti – o fanno addirittura altro: perlopiù fotografie, in genere brutte, sfuocate, inutili, destinate a svanire nel giro di poche ore. Probabilmente si tratta delle stesse persone che ci si trova davanti ai concerti, talvolta le stesse che ci minacciano sulle strade guidando con gli occhi sulle vacanze altrui.

Il ciclismo non si fa mancare nulla di tutto ciò, e al Tour tutto ciò diventa protagonista, perché al Tour, si sa, tutto è ingigantito: la posta in palio, la carovana, il traffico, e pure il disagio. Che in Francia esplode perché l’affetto (e l’invadenza) dei tifosi si trova a cozzare con una corsa che non è più in grado di governare se stessa. È questo il caso dell’incidente di Vincenzo Nibali sull’Alpe d’Huez, stretto contro la muraglia umana dei tifosi da due delle 13 motociclette che affiancavano il suo gruppetto sfidando la geometria euclidea.

È il caso anche dei gendarmi che irrorano di spray urticante manifestanti seduti per terra e corridori lanciati sui pedali alle loro spalle, o di quelli che placcano Chris Froome sulla discesa del Col du Portet scambiandolo per un cicloamatore, o ancora di quelli che guidano Andrea Pasqualon in ricognizione sulla strada sbagliata costringendolo a partire con 6 minuti di ritardo nella cronometro conclusiva.

Un rosario di rischi ed errori che ha finito per avere un peso non irrilevante nell’economia della corsa, e che obbliga l’organizzazione – ma anche l’UCI e le associazioni dei corridori – a una riflessione non più rinviabile. Prima che la grandeur finisca per soffocare la competizione stessa; prima di passare a una petiteur che non si augura nessuno. (Filippo Cauz)

 

A caccia di predatori: il Tour delle squadre a più teste

Scorrendo la classifica generale, non può non saltare all’occhio come all’interno della top ten siano finite tre coppie di compagni di squadra: Thomas e Froome della Sky (1° e 3°); Roglič e Kruijswijk della LottoNL (4° e 5°); Landa e Quintana della Movistar (7° e 10°). In questo Tour di squadre a più teste, persino il Team Sky, grande teorizzatore del capitano unico, si è trovato – più o meno volontariamente – a gestire la variante tattica dei capitani plurimi. Condizione che evidentemente si è rivelata funzionale per gli inglesi: gli occhi di tutti su Froome e Thomas quatto quatto a mietere risultati.

Più complesso valutare gli esiti delle altre squadre instradate sulla stessa via. Quintana, Landa e Valverde, i tre hidalgos in divisa azzurra schierati dalla Movistar di Unzué, non si sono complessivamente mostrati all’altezza della sfida, portandosi a casa la miseria di una tappa (per quanto bella, con Quintana), e un ridotto bottino di scompiglio provocato da azioni corali.

Decisamente più efficace la prova dei giallo-neri olandesi capitanati da Kruijswijk e Roglič, talmente agguerriti e in palla da mettersi alle spalle in classifica tutti e tre i leader Movistar. Peccato per le sbavature tattiche che nella tappa dell’Aubisque hanno finito per dare una mano alla Sky più che metterla in difficoltà, ma i risultati complessivi rimangono confortanti.

Sembra dunque verosimile un futuro in cui la lotta per la vittoria sarà affare di squadre a più teste: il branco di lupi Quick-Step ha fatto scuola nelle classiche, il pod di orche in bianco ha divorato il Tour. Anche se sarà difficile scovare predatori naturali per queste specie, Movistar e Lotto sembrano pronte a ricandidarsi: la fame c’è, chissà però se basterà. (Michele Polletta)

 

Nouvelle Vitesse

Non occorre scomodare Bob Dylan per affermare che, in fatto di volate, i tempi stanno cambiando. Il Tour del tanto atteso scontro fra la vecchia guardia e la nuova generazione di ruote veloci si è concluso con una schiacciante vittoria della seconda sulla prima. Gli esponenti della nouvelle vitesse (Fernando Gaviria e Dylan Groenewegen) si sono aggiudicati due tappe a testa, lasciando ai velocisti più esperti appena il tempo di leggere loro i numeri dietro la schiena. Kittel e Greipel hanno ottenuto al massimo un terzo posto, mentre peggio di loro ha fatto Mark Cavendish, che, stizzito da una bici a suo dire poco “rigida” nelle fasi incandescenti della volata, è riuscito a portarsi a casa un misero ottavo come miglior piazzamento.

Peccato che il Gran Galà dei velocisti si sia chiuso dopo appena 9 tappe. Le Alpi hanno infatti mietuto più vittime fra le ruote veloci del Tour che fra i soldati di Annibale: tutti a casa (o quasi) dopo le prime due tappe di montagna, chi per essere arrivato al traguardo fuori tempo massimo e chi per aver messo anzitempo il piede a terra. Buon per Démare e Kristoff che, vincendo le volate dei reduci, hanno salvato il Tour delle rispettive squadre.

Infine Peter Sagan, che – senza troppe sorprese – ha centrato l’obiettivo della sesta maglia verde (eguagliato il record di Erik Zabel). Per riuscirci nell’impresa, però, il campione del mondo ha dovuto convivere nelle ultime tappe con i postumi di una caduta che poteva costargli il ritiro. Alla fine, insomma, ad impensierirlo maggiormente nella lotta per la classifica a punti sono stati più i cerotti che gli avversari. Questi ultimi Sagan non li ha nemmeno visti: due vittorie di tappe e piazzamento nei primi 8 in 13 tappe su 21. (Stra)ordinaria amministrazione. (Pietro Pisaneschi)

 

Niente di meglio: la maglia a pois di Julian Alaphilippe

«Ero uno dei più attesi, ma semplicemente non avevo le gambe per fare niente di meglio». Con queste parole Julian Alaphilippe commentava la sua prima settimana di Tour. Era l’8 luglio e LouLou aveva appena assistito alla vittoria di Dan Martin sul Mûr-de-Bretagne. Il giorno prima gli era già toccato osservare Sagan alzare le braccia sul traguardo di Quimper, di conseguenza le sue sarebbero facilmente potute suonare come parole di resa. Tutto il contrario.

Dopo avere votato testa, cuore e gambe all’obiettivo delle classiche delle Ardenne, quest’anno Alaphilippe ha dedicato la parte restante della preparazione a perfezionare le sue doti in salita, la sua resistenza all’altitudine e alla fatica prolungata. Difatti, dopo aver conquistato tappa e maglia a pois nel giorno de Le Grand Bornand, il suo Tour si è trasformato in uno spettacolare crescendo tecnico ed emotivo.

Sempre in fuga, sempre in salita (ma con un occhio di riguardo per le discese), spesso primo su ogni GPM, con il solo Warren Barguil a provare a contestargli il primato (più per dovere, essendo il campione uscente, che per gambe e convinzione). La frustrazione di Barguil è diventata preoccupazione in Adam Yates, caduto nella discesa che portava a Bagnères de Luchon mentre veniva inseguito da un Alaphilippe che interpretava il ritmo delle curve come uno dei semplici tre quarti che suona alla batteria.

Risultato: un’altra maglia a pois francese, in una classifica – quella delle montagne – che a differenza della generale è da 25 anni territorio di caccia preferito dai corridori di casa. D’altra parte Julian Alaphilippe è nato in uno dei paesi della valle della Loira che rivendicano il titolo di “centro della Francia”, e davvero pochi avrebbero potuto interpretare meglio di lui, per tre settimane, il ruolo di centro e cuore della Nazione. (Francesco Bozzi)

 

Lawson Craddock e la sofferenza utile

Se tra una decina d’anni dovesse capitarvi, guardando le Olimpiadi o il Tour de France, di imbattervi in un corridore americano che telecronista o grafiche in sovraimpressione vi informeranno essere cresciuto presso il velodromo di Alkek, Texas, beh, ricordatevi del Tour del 2018 corso da Lawson Craddock.

Ricordatevi della sua scapola, fratturata il primo giorno di corsa, e della sua faccia, sofferente per i restanti venti. Recuperate il ricordo della sua divisa fucsia, la prima a staccarsi – sempre – e l’ultima ad arrivare – molto spesso. Riprendete la classifica finale dopo la tappa di Parigi e ricalcolate il ritardo di Craddock da Thomas (sarà di 4 ore, 34 minuti e 19 secondi), dopodiché sfogliate le classifiche parziali al termine di tutte le altre tappe, affinché vi torni alla mente il fatto che Craddock fosse rimasto in fondo alla classifica tutti i santi giorni, in quel Tour del 2018: iniziava la giornata da ultimo in classifica e la finiva da ultimo in classifica, e l’unica cosa in cui sarebbe riuscito ad essere il primo (nella storia del Tour) sarebbe stato proprio il suo essere così a lungo ultimo, dalla prima all’ultima tappa, senza interruzioni.

Ricordatevi del Tour del 2018 di Craddock, quando sarà, perché Craddock aveva promesso di ritirarsi da quel Tour solo se fosse stato assolutamente necessario, e, siccome l’assoluto del dolore è sempre relativo, lui aveva deciso di rimanere in corsa fino alla fine. Senza alcuna possibilità di ottenere risultati, ovviamente, ma cavalcando l’onda mediatica della sua impresa per promuovere una raccolta fondi che in tutto avrebbe donato più di duecentomila dollari al velodromo di Alkek, semidistrutto dall’uragano Harvey. E il velodromo di Alkek, Texas, è il luogo dove Craddock ha imparato a correre in bicicletta, e dove sta per farlo anche il corridore che tra una decina d’anni potrebbe farvi ricordare del Tour del 2018, di Lawson Craddock e della sua volontà di trasformare un innecessario calvario in una sofferenza utile. (Leonardo Piccione)