Se gli Australian Open sono lo Slam delle sorprese, il Roland Garros e Wimbledon quelli degli specialisti con i vincitori (quasi) sempre scontati, non c’è dubbio che gli US Open sono il torneo più aperto, o almeno quello in cui i distacchi tra i Big 3 di oggi sono più ridotti. Nadal è il recordman del Roland Garros con 11 titoli, nessuno ha vinto più edizioni di Wimbledon rispetto a Federer (8), che con Djokovic detiene anche il record di vittorie agli Australian Open (6). A New York i tre hanno vinto quasi allo stesso modo: 5 volte Federer (ma l’ultima volta risale a 10 anni fa), 3 volte Nadal e 2 volte Djokovic, che però ha giocato anche altre 5 finali a New York.
I tre reduci del quartetto noto come Big Four arrivano al torneo nelle migliori condizioni possibili. Il numero uno del mondo, Rafael Nadal, ha gestito la transizione erba-cemento nel miglior modo possibile, giocando, vincendo e convincendo a Toronto, dove ha vinto il trentatreesimo Masters 1000 della carriera, record assoluto (oltre che impressionante). Saggiamente, per non accumulare troppe partite nelle gambe ma soprattutto per ricaricarsi di energie nervose, lo spagnolo ha deciso di non giocare il seguente Masters 1000 di Cincinnati. Nadal, che esordirà contro il suo amico David Ferrer, si presenta a New York perfettamente rodato, fresco e pronto a difendere la facile vittoria dell’edizione 2017, quando batté Kevin Anderson in finale.
Roger Federer ha scelto di saltare il Masters canadese e si è rivisto a Cincinnati, dopo l’epica partita persa ai quarti di Wimbledon 13-11 al quinto set contro Anderson. In Ohio Federer non ha brillato anche se ha raggiunto la finale. Lo svizzero è sembrato lento dal punto di vista fisico, non ha regolato i primi turni nella solita agevole maniera e ha approfittato di un Goffin non al meglio fisicamente (il belga si è ritirato dopo aver perso il primo set per 7-6) per raggiungere Djokovic in finale. Il match è stato a senso unico, con lo svizzero disgustato da se stesso: «Ho sbagliato tantissime risposte, oggi è stato orribile, le mie gambe non sono state sufficientemente reattive». Questo però dà modo a Federer – che giocherà il primo turno contro il giapponese Nishioka per poi, si spera, incrociare Nick Kyrgios al terzo turno – di presentarsi a New York con lo status di primo fra i non favoriti, cosa che distoglie attenzioni dal fatto che si parla di un tennista che, nell’anno in cui ha compiuto trentasette anni, è riuscito a vincere gli Australian Open, Rotterdam, Stoccarda, tornare numero 1 nel ranking e a non scendere mai al di sotto della seconda posizione mondiale. Si tratta di risultati straordinari anche se il tennista in questione è Federer, che proprio grazie alla sconfitta di Cincinnati giocherà con meno pressione rispetto al grande favorito del torneo, forse anche più di Rafael Nadal, e cioè Novak Djokovic.
Autore di una prima parte di stagione disastrosa (una sconfitta simbolo su tutte: quella contro Paire nel primo turno di Miami), il serbo è risorto dopo il match perso contro Marco Cecchinato ai quarti di finale del Roland Garros. A Parigi, in conferenza stampa, ha lasciato sgomenti i giornalisti: «Non so se giocherò sull’erba». Poi è arrivato in finale al Queen’s, ha vinto Wimbledon e dopo una sconfitta contro il giovane del momento, Stefanos Tsitsipas, nel Masters 1000 di Toronto, si è preso anche Cincinnati. Ma soprattutto ha fatto rivedere in campo la versione da guerra di Djokovic, quella dominante del 2011 e 2015. Con la vittoria del Masters 1000 americano, Nole ha raggiunto un record che neanche Federer e Nadal detengono, e cioè quello di aver vinto tutti e 9 i tornei Masters 1000. Ma più che i numeri, di Djokovic ha impressionato la ritrovata profondità in risposta, un colpo che ha messo Federer in grandissima difficoltà, e la grinta, da sempre la cartina al tornasole di questo giocatore. Il serbo, esordio contro Fucsovics, è stato sorteggiato nel quarto di finale di Federer, dalla sua parte ci sono anche Alexander Zverev e Marin Cilic: decisamente la zona di tabellone più competitiva del sorteggio.
Difficile che il torneo non sia vinto da uno dei tre di cui sopra anche se almeno altri tre nomi sono da considerare per la vittoria finale. Il primo è quello di Marin Cilic, già vincitore a New York nel 2014 e capace di raggiungere altre due finali Slam, Wimbledon 2017 (praticamente non giocata per via di un problema al piede) e Australian Open 2018 (persa solo al quinto set contro Federer). Questi risultati gli hanno dato fiducia, il cemento è la sua superficie e infatti Marin non ha avuto problemi a dichiarare, dopo aver perso a Cincinnati, di «arrivare agli US Open nelle condizioni migliori, mi sento fiducioso di poter arrivare fino in fondo».
Poi c’è del Potro, vincitore del torneo nel 2009 e capacissimo di battere chiunque ora che è tornato numero 3 del ranking mondiale. L’anno scorso batté Federer e poi arrivò spompato contro Nadal, contro il quale perse in quattro set. Non arriva benissimo a New York, forse ha giocato qualche torneo di troppo (Los Cabos, dove ha perso in finale contro Fognini praticamente senza giocare), ma va tenuto comunque in considerazione. L’argentino esordirà contro un qualificato e potrebbe trovare Berrettini al secondo turno. Da tenere in considerazione anche Kevin Anderson, il finalista del 2017. Il sudafricano è migliorato tantissimo nella parte finale della sua carriera (ha 32 anni) e, contrariamente a quel che in molti pensano, non è un giocatore di “solo servizio”: ha ottimi fondamentali, si muove benissimo per essere alto 2,03 metri ed è un giocatore di attacco. La finale di Wimbledon testimonia che ha superato i timori reverenziali verso quelli più forti di lui: non si batte Federer in rimonta al quinto set sull’erba se non si ha fiducia in se stessi. Al torneo ci arriva bene: ha perso solo per 7-6 al terzo contro Tsitsipas a Toronto e poi è parso naturalmente scarico a Cincinnati, torneo che avrebbe fatto meglio a non giocare.
È invece forse inutile spendere ancora parole per un terzetto che ha avuto già troppi anni a disposizione per provare a fare il colpaccio: nessuno fra Dimitrov, Raonic e Nishikori ha speranze di arrivare in fondo a meno di clamorose sorprese. Dimitrov, che è stato di nuovo sorteggiato contro Stan Wawrinka al primo turno esattamente come a Wimbledon, è in crisi dall’inizio dell’anno: il suo risultato migliore è la finale di Rotterdam, persa vincendo solo 4 game contro Federer. Occupa la posizione numero 8 del ranking e sembra interessato più a godersi la vita che a vincere qualcosa di grosso, specie dopo la vittoria alle ATP Finals 2017. Raonic nella giornata in cui è a posto fisicamente e funziona tutto può rappresentare un grosso problema: ma quante volte càpitano queste giornate in un anno? Nishikori è un giocatore che sembra perennemente in cura da parte di qualche ospedale: ogni giorno il medico dirama la prognosi, c’è sempre qualcosa che non va e pure quando tutto funziona, questo non dura per più di un paio di giorni. Addirittura meglio del giapponese, che non vince un torneo dal 2016 ed è fuori dai primi 20, è messo Stan Wawrinka, apparso in ripresa proprio a Cincinnati ma che ora è atteso alla prova del tre su cinque, un test probante per chi è in ripresa da un serio infortunio.
Capitolo giovani. Il più forte di questi, Sascha Zverev, ha vinto in carriera già 3 tornei Masters 1000 e ha raggiunto i quarti di finale in uno Slam per la prima volta nel 2018. Da pochi giorni ha aggiunto Ivan Lendl nel suo staff, e l’ex tennista ceco-americano non è uno che accetta un lavoro se non crede nel risultato. Improbabile che qualcosa cambi nel breve, ma lo Zverev di oggi è frenato più dai suoi atteggiamenti e dalle sue scelte in campo che da limiti tecnici. Tsitsipas, giovane greco finalista a Toronto, è quello che, proprio fra i giovani, ha capito come gestire le partite. Sorteggiato nel quarto di finale con del Potro, il greco deve migliorare tecnicamente e lo farà (specie sul dritto), ma ha già dimostrato di avere le idee chiare su cosa fare in campo. Più indietro c’è Shapovalov, potenzialmente un gran talento ma che dovrà essere in grado di gestire al meglio la sua esuberanza. E poi c’è Kyrgios, capacissimo di battere chiunque e vincere qualsiasi torneo se solo dimostrerà interesse proprio verso il torneo oltre che verso il tennis. Gli piacciono le grandi sfide, ma per giocarle bisogna vincere match banali contro giocatori mediocri che comunque necessitano di impegno per essere battuti: questo sembra essere il problema maggiore di Kyrgios.
Ci sono anche cinque italiani in gara di diritto: Fognini, che quest’anno ha vinto a Los Cabos il suo primo torneo sul cemento e che esordirà contro il giovane americano Mmoh; Cecchinato, che deve vincere ancora un match sul cemento in carriera nei tornei ATP e che ha, contro Benneteau, un’ottima occasione per superare questo pesante limite; i veterani Lorenzi e Seppi, che verosimilmente perderanno subito rispettivamente contro Edmund e Querrey; e infine Matteo Berrettini, esordio contro l’americano Kudla e ancora non a suo agio su questa superficie seppur in crescita nel ranking. È quindi buona la situazione del tennis italiano maschile? Insomma: a Toronto in tabellone c’erano solo Fognini e Cecchinato, rispettivamente sconfitti al secondo e al primo turno, a Cincinnati solo il palermitano, che ha perso ancora, stavolta contro Mannarino. Nessun altro italiano, a parte Travaglia a Toronto, ha avuto voglia o classifica sufficiente per partecipare alle gare di qualificazione, molto più selettive dei tabelloni di qualificazione negli Slam.