Kobe 10×40

Black mamba ha 40 anni. Si può ripercorrere una carriera in 10 canestri?

Non c’è un modo semplice per raccontare i primi 40 anni di Kobe Bryant. Forse perché non c’è solo un modo: le sfaccettature, le angolazioni, le narrazioni sono talmente tante e tali che imporre un’unica chiave di lettura sarebbe incredibilmente superficiale e sottostimante per il tipo di impatto che ha avuto la sua parabola sportiva ed umana. Tuttavia chi, oggi, oscilla tra i 25 e i 30, riconosce in questo, più che nel ritiro, il momento di transizione di un’intera generazione, ben al di là di simpatie e antipatie e indipendentemente dal fatto che si tifasse o meno per i Los Angeles Lakers. E non c’è maniera migliore per descriverlo che attraverso la cosa che sapeva fare meglio: canestro. Sempre, comunque, dovunque, in qualsiasi circostanza, con uno stile unico e riconoscibile, nel bene (con 33.583 punti è il terzo miglior marcatore della storia Nba) e nel male (è il giocatore ad aver sbagliato più tiri dal campo in assoluto: ben 14.453).

Quelli che seguono sono dieci canestri che raccontano quello che Bryant è stato, è e sarà. Non sono necessariamente i più belli (mancano, ad esempio, lo spin move contro i Knicks della sera dei 61 al Madison Square Garden, gli attacchi di “mancinismo” contro Mavs e Thunder, gli auto-assist al tabellone con Jazz e Rockets, la “Jordan” a sigillare le Finals 2009 contro i Magic, qualche perla notevole dello showdown del 13 aprile 2016), ma sono quelli che spiegano come e quanto sia cambiato nel corso del tempo. E, di conseguenza, come siamo cambiati anche noi insieme a lui.

vs Chicago Bulls (17/12/1997)

«Quando sono arrivato in Nba ero stupito dal terrore che la maggior parte dei giocatori aveva nei confronti di Michael. Io non sono mai stato troppo orgoglioso per chiedere. L’ho fatto con tutti, solo che le mie chiacchierate con Jordan hanno avuto più attenzione. Non so se con me si sia aperto più che con altri, non so nemmeno se gli altri abbiano avuto le palle per chiedergli qualcosa. Ma la verità è che mi ha aiutato tantissimo».

Del rapporto tra Kobe Bryant e Michael Jordan si è sempre detto e scritto evidenziando una duplice chiave di lettura: da un lato la venerazione verso l’uomo e il giocatore che lo ha ispirato fin dall’inizio, dall’altra l’ossessione, al limite dell’idea edipica di uccisione del padre, nel volerlo superare o nel morire provandoci. Sul campo accadrà in almeno due occasioni: il 9 febbraio 2003, durante l’ultimo All Star Game di MJ, quando sono proprio di Bryant i liberi del pari 136 che mandano all’overtime una partita che il 23 sembrava aver marchiato a fuoco con un fadeaway in faccia a Shawn Marion a tre secondi dalla fine. Ovviamente al supplementare sarà la squadra della star dei Lakers a vincere, rovinando il classico finale perfetto; e, poi, poco più di un mese dopo, nel loro ultimo confronto diretto, quando Kobe ne mette 55 ai malcapitati Wizards del 39enne Jordan.

In un certo senso accade anche il 17 dicembre del 1997: contro gli “UnbeataBulls” in caccia del repeat del Three-Peat, un giovane Bryant (al suo secondo anno nella lega) ne mette 33 in 29 minuti uscendo dalla panchina, con 12/20 dal campo e 3/5 da tre e numerosi canestri realizzati nonostante la marcatura di Jordan. In particolare, i punti numero tre e quattro arrivano sfruttando ghepardescamente un taglio backdoor che Michael intuisce con una frazione di ritardo: la schiacciata è il giusto punto esclamativo di una giocata che ne annuncia la presenza a Jordan, alla Nba, al mondo intero.

 

vs Indiana Pacers (14/06/2000)

Il 12 maggio 1997, in occasione di un primo turno di playoff contro gli Utah Jazz, in gara-5 Kobe diventa protagonista in negativo di quella che sarà poi ribattezzata “The Air Ball Game”: quattro errori, quattro tiri che non toccano nemmeno il ferro, nei momenti chiave di una gara senza ritorno. Nel mare di critiche che travolge un ragazzino di nemmeno 19 anni la prima e più significativa voce dal coro è quella di Shaquille  O’ Neal: «Kobe è stato l’unico che in quei momenti ha avuto il coraggio di provare tiri del genere».

Tre anni dopo, nell’overtime di una decisiva gara-4 di Finale a Indianapolis contro i Pacers, con Shaq fuori per falli, sul 112-111 Lakers e con poco più di due minuti da giocare, è proprio Bryant (che aveva saltato la terza partita della serie per una distorsione alla caviglia) a prendere palla sulla rimessa. È forse il momento che aspetta da tutta una vita: sceglie di giocarsi l’isolamento con Reggie Miller, rinuncia a sfruttare il vantaggio derivante dal blocco di Horry rimanendo in uno contro uno e piazza infine un palleggio-arresto-tiro (con tanto di hesitation andando in mezzo alla gambe) che ha lo stesso effetto di una coltellata.

L’atteggiamento da “tranquilli ci penso io” che lo accompagna nel rientro in difesa è sintomatico dell’esito di partita e Finals: i Lakers vinceranno 120-118 (e sei degli otto punti del supplementare porteranno la firma di Kobe) andranno avanti 3-1 nella serie e poco meno di una settimana dopo diventeranno campioni Nba, inaugurando la prima dinastia del nuovo millennio.

 

vs San Antonio Spurs (25/5/2001) 

Tra le cose che hanno impedito a Wilt Chamberlain di vincere molto più di quanto avrebbe potuto, c’era la cronica incapacità di infierire contro avversari in difficoltà, espressione di quella pietà tipica di chi sa di essere troppo superiore al resto della concorrenza. Dettaglio che si manifestò in tutta la sua evidenza in gara-7 delle Finali del 1970, quando lasciò all’infortunato Willis Reed tutto il tempo e lo spazio necessari per segnare i due canestri nei primi due possessi che avrebbero galvanizzato in maniera decisiva il pubblico del Madison Square Garden e i compagni di squadra, condannando i Lakers alla sconfitta.

Kobe Bryant, da questo punto di vista, è sempre stato l’opposto di Chamberlain: quando sente l’odore del sangue lui va per la giugulare dell’avversario, chiunque sia e qualunque sia la sua condizione fisica, tecnica e mentale. Nella cicloturistica dei playoff 2001 (11-0 entrando alle Finals contro i Philadelphia 76ers), in gara-3 della Finale di Conference contro gli Spurs, coach Popovich decide di mettere Antonio Daniels (che a Kobe rende qualcosa come una decina di centimetri) in single coverage sul numero 8: seguono 48 minuti al limite (e forse oltre) della derisione, con Bryant che tira letteralmente in testa al suo avversario in ogni singolo possesso. Chiuderà a quota 36 con 9 rimbalzi e 8 assist e diverse dimostrazioni di totale onnipotenza, con Daniels letteralmente “cervo in tangenziale”:

 

vs New Jersey Nets (07/06/2002)

Nella storia del gioco poche Finali sono state più scontate e prevedibili di quelle del 2002. Troppo ampio il divario tra i valori in campo di Lakers e Nets, con lo sweep che inizia a materializzarsi già dopo il tutto sommato accettabile 99-94 di gara-1. Eppure proprio questa partita ci consegna una delle giocate più iconiche di Kobe: una schiacciata da tregenda che mette  Todd MacCulloch dalla parte sbagliata del poster, nella migliore dimostrazione possibile dello spaventoso atletismo che Bryant era capace di sprigionare nel suo prime (per informazioni chiedere anche a Yao Ming, Vlade Divac e Dwight Howard).

 

vs Detroit Pistons (08/06/2004)

Questo è uno dei canestri meno celebrati e più “sottovalutati” della carriera di Bryant, perché finisce all’interno della serie che segna il disfacimento di una delle più grandi squadre di sempre per problemi interni ed esterni. Eppure si tratta di una giocata che dice molto, se non tutto, dell’essere “clutch” di Kobe, del suo saper fare la differenza sotto pressione, della sua capacità di prendersi la responsabilità nei momenti decisivi della partita indipendentemente dal suo andamento, dei suoi “tempi scenici” semplicemente perfetti. A 11 secondi dal termine di gara-2 di quelle Finals, con i Pistons avanti 89-86 (e che avevano già strappato il vantaggio del fattore campo), sulla rimessa a metà campo Bryant riceve il consegnato di Walton dopo aver sfruttato una serie di blocchi ciechi, lavora dal palleggio in punta e punisce Rip Hamilton con una tripla dagli otto metri sfruttando l’unica frazione di secondo in cui il #32 dei Pistons sembra avere un’esitazione.

Lo Staples Center è in uno stato di voltaggio che non si vedeva dalla tripla allo scadere di Horry di due anni prima contro i Kings. Fino a quel momento Kobe era 0/4 dall’arco: l’1/5 manda la partita al supplementare, spalancando le porte dell’unica vittoria di quella serie disgraziata. L’iconografia della trasformazione da “Showboat” a “Black Mamba” parte da questo canestro tersicoreo, tipico di un grande rettile a sangue freddo. Anzi, gelido.

 

vs Dallas Mavericks (20/12/2005)

Il 2005/06 è la stagione di Kobe Bryant. O, meglio, la stagione che racconta tutto il bello (e il brutto) insito nel modo di essere, pensare e giocare del 24-fu-8. È la stagione del ritorno di Phil Jackson, dei 35,4 punti di media (43,4 nel solo mese di gennaio), degli 81 ai Toronto Raptors, delle 27 partite da 40 o più punti, del quarto posto finale nelle votazioni per il titolo Mvp (poi consegnato a Steve Nash, a sua volta brutalizzato così alla prima occasione utile), della sanguinosa eliminazione al primo turno dei playoff contro i Phoenix Suns di D’Antoni dopo essere stati avanti 3-1 nella serie.

La sintesi di tutto questo (e del suo contrario) è nella gara del 20 dicembre contro i Dallas Mavericks, quella dei 62 punti in tre quarti conclusa dal surreale «la prossima volta» rivolto a Bryan Shaw che gli aveva chiesto se fosse interessato a entrare nel finale di partita per provare ad arrivare a quota 70. Dopo i 32 punti nel solo primo tempo (15 nei primi 21’), al rientro in campo dopo l’intervallo lungo, Kobe approccia in una maniera che definire feroce è del tutto eufemistico: segnerà 30 dei 42 punti di squadra nel periodo, “costringendo” il suo allenatore a richiamarlo in panchina sul 95-61 Lakers, quando cioè la quota punti combinata di tutti gli avversari non avrebbe eguagliato la sua.

Il canestro dell’85-58 è il paradigma di come l’evidente superiorità di Bryant spesso si concretizzi in attimi dove il confine tra forza effettiva e crudeltà gratuita è piuttosto labile: è già lanciato in corsa poco oltre la metà campo quando raccoglie il consegnato dopo il rimbalzo, punta alla massima velocità possibile Marquis Daniels, lo aggira con lo spin move e conclude appoggiando morbidamente da centro area nonostante le mani protese di tre avversari.

Dirà, poi, Phil Jackson: «Ho visto tante prestazioni da 60 punti nella mia carriera, ma mai nessuna che si concretizzasse nel terzo quarto. Il suo terzo quarto è stato incredibile».

 

vs Portland Trail Blazers (16/03/2007

Per raccontare questo canestro (che sigilla la prima W dei Lakers dopo sette sconfitte consecutive, complici i 65 del 24) dobbiamo affidarci a due narratori d’eccezione. Il primo è Federico Buffa, nel corso della telecronaca di una successiva partita a Memphis con i Grizzlies (60 punti), che segue a sua volta un ulteriore cinquantello contro i Timberwolves: «Taglio, credibile, va a sinistra dove, marcato da Brandon Roy, arriva LaMarcus Aldridge. A questo punto sul suo grande scanner scatta: “Ah-ha rookies! Saranno anche la base della franchigia futura ma al momento, life is now, sono due rookies. Una serie di spin, una serie di finte, di jab step: non li ha mandati al bar, li ha tenuti in gelateria».

Il secondo è David West che, vedendo qualche giorno dopo quella striscia di partite da 50 o più punti allungarsi a quattro grazie ai 50 realizzati ai suoi New Orleans Hornets, dirà: «Ho sempre saputo che era un combattente, ma ho capito fino a che punto quella sera in cui si presentò da noi con una striscia aperta di tre partite con 50 e passa punti. Venne a New Orleans e ne segnò altri 50. Lì ho capito quanto era difficile marcarlo. Ci vuole l’attenzione di tutta la squadra, non puoi lasciare che il suo difensore provi a fermarlo da solo. Quello che lo rende davvero speciale è che pensa sempre che il prossimo tiro gli andrà dentro, e di solito succede».

 

vs Miami Heat (12/04/2009)

«Ricordo di averlo osservato attentamente quando ero al liceo, all’università e nella Nba. Questo tizio era irreale». E se lo dice Dwyane Wade bisogna credergli. Non foss’altro perché lui ha visto la grandezza e l’ha vista da vicino:

 

vs Phoenix Suns (29/05/2010)

Per giocare ad alti livelli sera sì sera no una stagione che va da un minimo di 82 a un massimo di 110 partite, servono delle motivazioni spaventose. Kobe Bryant ha sempre interiorizzato tutto ciò che ha vissuto e percepito nel corso di vent’anni di carriera, pronto a (ri)tirar fuori tutto al momento opportuno. Nell’irreale fadeaway che chiude gara-6 delle Finali di Conference contro gli ultimi Phoenix Suns di Steve Nash, c’è tutto quello che Kobe ha dovuto subire in quella tremenda serie del 2006 conclusa con l’eliminazione alla settima partita; nella pacca ad Alvin Gentry c’è la soddisfazione di chi vede un grande avversario ormai battuto grazie ad una giocata pensata, cercata e voluta; nel sorriso, sincero, di Gentry c’è la consapevolezza di chi sa che, per quanto si faccia tutto il possibile, alla fine se Bryant decide di vincere, vince. Sempre.

 

vs Boston Celtics (17/06/2010)

Ricordate il discorso dei tempi scenici perfetti? In gara-7 delle Finals 2010 allo Staples Center contro gli odiati Boston Celtics, Kobe Bryant eleva questo concetto a forma d’arte. La partita, come il resto della serie (che il 24 aveva già provato ad aggredire in gara-5, inutilmente), è agonica: i giocatori sembrano muoversi al rallentatore, come se fossero dentro una piscina, tanta e tale è la tensione percepita. Kobe entra nell’ultimo quarto con un rivedibile 5/20 (chiuderà a quota 23 punti e 15 rimbalzi) al tiro e una serie di forzature totalmente fuori contesto. L’unico canestro dal campo del periodo, però, si rivela quello decisivo: a poco più di cinque minuti dalla fine, sul 64-66 Lakers e su un’azione susseguente ad una tripla sbagliata da Ray Allen, il 24 riceve al gomito destro poco fuori l’arco dei tre punti proprio contro “He got game” che viene bruciato nello spazio di tre secondi da un palleggio-arresto-tiro letale. I gialloviola vanno avanti di quattro e non si volteranno più indietro e per Bryant arriverà il secondo titolo di Mvp delle Finali e, naturalmente, il quinto anello. Il più bello, il più desiderato. Anche perché «one more than Shaq».

 

Bonus track: vs Golden State Warriors (12/04/2013)

Perché bisogna essere Kobe Bryant per tirare i liberi dopo esserti rotto il tendine d’Achille.