I giorni felici dell’Alavés

Dopo la finale Uefa del 2001, i baschi sono tornati competitivi.

A Milano, il 22 febbraio di diciassette anni fa, la sera è fredda ma l’atmosfera è incandescente. L’Inter a San Siro sta abbandonando la Coppa Uefa per mano di una semisconosciuta squadra basca e i tifosi nerazzurri si lasciano andare a una contestazione durante la quale vola di tutto in campo, seggiolini compresi: quella che si sta consumando è un’umiliazione storica, inaccettabile e del tutto imputabile a Recoba e compagni. Non è esattamente così, e di lì a maggio, regolando Rayo Vallecano ai quarti e Kaiserslautern in semifinale (5-1 all’andata, 4-1 al ritorno) i carneadi baschi che rispondono al nome di Deportivo Alavés scrivono uno dei romanzi più appassionanti del calcio moderno. La finale contro il Liverpool, chiusa 5-4 per i Reds al golden gol, anzi con un golden autogol, è pazzesca: vede gli spagnoli inseguire, accorciare, inseguire di nuovo, pareggiare con due gol di Javi Moreno in tre minuti, disperare nuovamente, e impattare ancora allo scadere con Jordi Cruyff, per capitolare ai supplementari in nove, a quattro minuti dai rigori, per una deviazione balorda. Resta la finale di Uefa più bella di sempre, e restano tutti pazzi per quella squadra che gioca in maglia rosa.

Il romanzo non diventa mai saga. Il sesto posto in Liga della stagione precedente, che era valso l’Europa, il decimo in quel 2000/01, e il settimo nella stagione successiva, rimangono exploit e non regola per gli albiazules: seguono penultimo posto e retrocessione, il passaggio di proprietà da Gonzalo Antón a Dmitry Piterman, l’ascensore tra Primera e Segunda División, il buco finanziario lasciato dall’ucraino (che in seguito colleziona le disavventure più varie, e persino una denuncia dalla Fundación Gala-Salvador Dalí), la discesa in terza divisione e più o meno un decennio di disgrazia. Fino a oggi.

Lo 0-2 a San Siro, con gol di Jordi Cruyff e Tomic

Oggi, dopo il suo ritorno in Primera División e la sua prima finale di Copa del Rey nel 2017 contro il Barça, il Deportivo Alavés si è regalato una notte al primo posto in Liga. Lo ha fatto sabato sera, battendo in casa il Real Madrid. L’indomani, il sorpasso di Siviglia, Atlético, Barça ed Espanyol non cancella il senso della storia: la notte resta dolce, il club di Vitoria-Gasteiz è lì, a due punti dalla vetta, e l’epopea di inizio secolo, il rosa indossato nelle notti europee, non sono mai parsi dal sapore così familiare. Risorgi di nuovo potente, dice l’inno del club scritto dal compositore e poeta vitoriano Alfredo Donnay: «Bravo equipo albiazul, que resurges potente otra vez». La otra vez dell’Alavés è tornata oggi.

Che nel successo contro il Real (a riscattare un paio di passi falsi da braccino, senza i quali il primo posto sarebbe stato faccenda serissima) la rete arrivi al minuto 95, e arrivi da Manu García, capitano nativo di Vitoria e una vita albiazul, è semplicemente il più brillante degli espedienti romanzeschi. Se si parla di identità e appartenenza, il capitano – lì in mediana ad accompagnare da otto stagioni tutte le tappe della ricostruzione – non è il solo deputato all’incarnazione dell’anima vitoriana. Il laterale Martín Aguirregabiria, ad esempio, soltanto ventidue anni ma quintessenza Alavés: in carriera solo la squadra della propria herria, fin dalle giovanili nel 2008. È basco, con l’undici sulla maglia e Bilbao sulla carta d’identità, anche Ibai Gómez. Ma a Vitoria la tassativa ambizione di una squadra interamente euskal come a Bilbao non c’è mai stata, neanche diciassette anni fa: quella basca per il Deportivo Alavés è un’identità integra, più che integralista. E quello dell’identidad è un concetto reso immancabilmente esplicito ogni volta che ve n’è occasione, quando il club parla di sé: «Dal 1921, anno della nascita del Deportivo Alavés, il carattere di questa terra permea i valori del club», scrivono con fierezza. La terra che permea non è quella innaffiata dall’oceano e scolpita in scogliere come in Biscaglia, ed è rispetto alla portuale e fluviale Bilbao meno da immaginario, nell’entroterra, più alta e più distante dal mare. Il valore che trasmette la terra non è nel prestigio e nel successo che hanno periodicamente benedetto i rojiblancos dell’Athletic. Né lo standard nell’Álava è quello del 2000/01, non può esserlo. L’aspirazione non è il trionfo, ma sta dentro termini che spiazzano nel calcio mainstream: sacrificio, dedizione e impegno. Consacrati ad un proposito, più che un mezzo, che non è così abituale scorgere grassettato nella mission di un club: humildad. Ecco, se il nome dell’Alavés è assurto la sera di San Siro alla similitudine di umiliazione, può essere vero al massimo nel senso più nobile del termine.

Il colpo di testa all’ultimo minuto che dà all’Alavés la vittoria e la testa della classifica

Un principio che continua a trovare applicazione in campo: come allora, poche cose ma certe. 4-4-2 quasi monolitico, senza troppe indulgenze alla sperimentazione (unica variazione, un 4-3-3 con avanzamento di Ibai Gómez, come contro il Real). Potenziale affidato alla coralità e al gruppo: dopo otto giornate nessuna traccia albiazul tra i primi dieci marcatori della Liga, e quello dell’Alavés è soltanto il settimo attacco del campionato, bottino quasi equamente diviso tra Gómez, Sobrino e quel Jonathan Calleri che dopo il Boca Juniors sembrava ogni estate dovesse sbarcare in Italia, ma non se ne è mai fatto nulla. Assieme a lui, a rendere il reparto offensivo già di dimensione internazionale, John Guidetti: in attesa di diventare come qualche ottimista vaticinava il nuovo Ibrahimovic, dopo il prestito della scorsa stagione lo svedese ha firmato per quattro anni con il club di Vitoria. Funziona bene in spinta la catena di destra, affidata a Gómez (quando è schierato esterno) e Navarro o Aguirregabiria, tanto che quando si inceppa lo si avverte, come in occasione del pari con il Getafe e della sconfitta di Levante, che hanno rischiato di frenare lo slancio dei baschi. Sull’altra fascia, a Jony la fiducia ben riposta dell’ultimo passaggio: oltre un terzo delle reti dell’Alavés parte dal suo piede.

Fuori dal campo, il modello di calcio sostenibile del club batte (e continuerà a battere) i tasti della fidelizzazione e dell’appartenenza: Soy del Glorioso, è la scritta che campeggia sulle tessere dei sostenitori albiazules. El Glorioso è il nome con cui chiamano anche l’Estadio Mendizorrotza, una piccola bomboniera nel verde da quasi ventimila posti, che il club per il centenario vuole portare a oltre trentamila con un progetto che lo faccia somigliare a un diamante, nell’estetica e nella sostanza. Un regalo ambizioso ma non faraonico: inizia ciò che è ragionevole finire, consiglia la tradizione popolare basca.

Risulterà forse ragionevole e possibile riallacciare i fili rimasti spezzati al Westfalenstadion di Dortmund, con quella deviazione di Delfí Geli che fece gioire il Liverpool dopo 116 minuti. Oppure l’Alavés non tornerà per lungo tempo a indossare il rosa del vino e delle notti d’Europa, e il buon momento della squadra del Pitu (il Puffo) Abelardo resterà solo l’espressione di un inizio stagione segnato dal livellamento nel grande calcio europeo (Real Madrid e Bayern Monaco in sofferenza, mucchio in tessta alla Liga, il solito triumvirato in Premier) che, messe in stand-by le abituali tirannidi, sembra trasformare in anomalia e paradosso l’egemonia bianconera in Serie A.

Quale che sia il senso della storia, all’orizzonte per gli albiazules c’è il Celta Vigo, alla ripresa del campionato. Fu battendo i galiziani che l’Alavés staccò il biglietto per la final gloriosa di Copa del Rey due stagioni fa, e forse annusò la prima aria di una resurrezione a venire. Una resurrezione non si fa in tre giorni, se non appartieni alla categoria. E magari nemmeno in tre stagioni. Ma quello che è certo è che i baschi stanno provando a regalarsela sul serio, una otra vez.