L’ultimo highlight di Kevin-Prince Boateng in Serie A era datato 17 gennaio 2016. Sul finale di un Milan-Fiorentina, dopo essere entrato a partita in corso, Prince sfrutta un’uscita imprecisa di Tatarușanu su un lancio in profondità, evita il portiere viola e segna il suo primo e unico gol di quella stagione. Prova a festeggiarlo con la capriola volante, l’esultanza che aveva scandito il miglior momento di forma della sua carriera, ma ne esce un movimento incompleto, come affaticato e schiacciato dal peso del tempo. Con la 72 del Milan sulle spalle, era una versione sbiadita di se stesso: sia dello straripante Boateng protagonista del diciottesimo scudetto che di quello già depotenziato di fine ciclo. Reduce dal licenziamento allo Schalke 04 e da otto mesi di inattività in cui aveva addirittura meditato il ritiro, chiude la stagione con undici presenze, di cui una sola da titolare, e senza la possibilità di rinnovare a fine campionato. Quella che in un primo momento sembrò la fine della sua parabola da calciatore di alto livello, fu in realtà l’inizio di un secondo periodo di splendore, sbocciato in Europa e proseguito in Italia, dove si sta imponendo come centro del Sassuolo di De Zerbi e rivelazione di inizio campionato. All’improvviso, stiamo assistendo al ritorno di Kevin-Prince Boateng.
Il centro dell’attenzione
Spesso Boateng ricorda la sua infanzia, quando sognava di diventare cantante, ballerino o attore: «A scuola mi dicevano che avevo la stoffa, volevo sempre essere il protagonista, la primadonna», aveva raccontato a El País. Anche per il Prince di oggi essere al centro dell’attenzione sembra un’esigenza, e non esclusivamente in campo. All’età di vent’anni, infatti, ha rischiato di veder bruciare sul nascere la propria carriera, quando il Tottenham lo acquistò. Gli Spurs lo avevano notato durante i suoi primi due anni da pro all’Hertha Berlino, e decisero di puntare su di lui senza consultare l’allora tecnico Martin Jol, che in risposta non lo prese mai in considerazione per un posto in squadra. In quel momento, iniziò la fase della carriera di Boateng in cui, a suo dire, cercò di comprarsi la felicità: come nel miglior cliché del ragazzo del ghetto (il suo era Wedding, uno dei quartieri meno sicuri di Berlino) che passa dal non avere nulla all’avere tutto e troppo in fretta, spese compulsivamente in tutto ciò che avrebbe potuto colmare almeno momentaneamente il vuoto della distanza dal campo. Un giorno, dopo l’ennesima festa, si guardò allo specchio e trovò un ragazzo di 95 kg, imbolsito dal junk food, stufo di tornare sempre a casa alle sei del mattino e di essere l’unico a girare per i sobborghi di Londra in Lamborghini. L’ha raccontata così, come se fosse la scena di un film. «Ho ancora una foto: tre macchine, una grande casa e io in piedi lì davanti, come 50 Cent», ha detto durante un’intervista al Guardian. «A volte la guardo e ripenso a quanto sono stato stupido». Ricordando quei giorni, Prince evidenzia sempre il senso di solitudine, dato sia dalla mancanza di veri amici che lo frenassero durante il suo tracollo, sia dall’indifferenza dei dirigenti: «Nessuno è venuto a chiedermi come stavo. Nessuno, neanche uno», ha ammesso, sempre al Guardian
La tripletta contro il Lecce
Non è un caso che la sua definitiva rigenerazione sia partita da un prestito al Borussia Dortmund, dove ritrovò un certo minutaggio, e soprattutto incontrò Jürgen Klopp: «Sa perfettamente di cosa hanno bisogno i suoi giocatori, è il miglior tecnico che io abbia mai avuto», ha detto. «In quella squadra c’era chi aveva giocato cinque minuti in sei mesi, ma era felice». L’incontro con un allenatore abile nel gestire i rapporti con il gruppo gli diede nuove certezze e da quel momento in avanti la sua carriera conobbe un periodo di continua crescita: fece bene al Portsmouth, giocò un gran Mondiale in Sudafrica e si ritrovò improvvisamente al Milan. Quando pensiamo alla miglior versione possibile di Kevin-Prince Boateng, pensiamo a quel concentrato di intensità, potenza, tecnica e coordinazione che è stato nei suoi primi anni rossoneri: in un centrocampo di campioni, si ritagliò un posto quasi fisso sia in campionato che in Champions League, stupendo per l’attitudine al sacrificio e la consapevolezza dei propri mezzi con cui aveva saputo adattarsi a un contesto così superiore. Lecce-Milan 3-4, la partita più famosa legata direttamente a KPB, è la dimostrazione di quanto in alto potessero arrivare i picchi del ghanese: sotto di 3-0, si caricò caratterialmente la squadra sulle spalle, si prese la responsabilità di tentare tutti i tiri possibili e ribaltò il match con tre gol, di cui due meravigliosi. Insieme al livello tecnico del Milan, con il tempo calò anche Boateng, e lasciò l’Italia.
Camaleonte
Il fratellastro Jérôme lo definisce “un camaleonte” per la facilità con cui si adatta a ogni tipo di ambiente e situazione: a vent’anni ha lasciato la Germania, a ventitré ha conosciuto il Ghana e a ventisei ha tenuto un discorso sul razzismo al Palazzo di Vetro dell’Onu davanti a Nelson Mandela. Parla sei lingue, ha giocato in quattro Stati e due Nazionali, si sente figlio della società multietnica e in parte rubato al mondo dello spettacolo. La sua estetica swag, le storie da bad boy dei suoi primi anni di carriera e la facilità con cui si surriscalda in campo rischiano di fagocitare alcuni aspetti interessanti del suo personaggio, come lo stile diretto e magnetico nel comunicare e, soprattutto, l’aver sempre qualcosa di interessare da dire. La sua natura poliedrica domina anche in campo: da quando ha iniziato a giocare a calcio, Boateng ha ricoperto tutti i ruoli dalla linea di centrocampo in su. Lasciato il Milan per la prima volta, dove ha giocato prevalentemente da mezz’ala o trequartista, viene impiegato addirittura da prima punta allo Schalke 04 in situazione di emergenza, poi si inserisce nel sistema posizionale di Quique Setién al Las Palmas da ala sinistra; lo scorso anno, invece, in una squadra molto diversa come l’Eintracht Francoforte di Niko Kovac, ricopre il ruolo di interno o trequartista. Tutto questo, nascendo mediano.
Tacco di Babacar e inserimento di KPB contro il Genoa
L’incontro con De Zerbi è forse il culmine del climax di condizioni favorevoli che negli ultimi anni gli allenatori stanno riservando a Prince: l’esigenza di avvicinarsi geograficamente a Milano, dove vive la sua famiglia, ha potuto coincidere con la chiamata di un allenatore che lo facesse sentire indispensabile fin da subito. «Roberto non mi ha chiesto di venire, me lo ha ordinato», ha detto a SportWeek. L’intesa è stata subito reciproca e Boateng si è calato alla perfezione nel ruolo di falso nueve, basando il proprio gioco sui movimenti tra le linee, per facilitare il possesso costante voluto dal tecnico bresciano. Il ghanese segue l’epicentro del gioco, offre sempre l’appoggio agli esterni del 4-3-3 e si muove su tutto il fronte offensivo, per non dare riferimenti ed essere sempre pericoloso negli inserimenti in area. «De Zerbi è un genio, ho conosciuto pochi allenatori in grado di darmi sempre cinque o sei opzioni quando ho la palla tra i piedi», ha detto a Sky Sport.
A trentuno anni, la definizione di “giocatore totale”, data quest’estate dall’ex allenatore del Benevento, sembra la migliore per definire KPB, un calciatore intelligente in grado di sviluppare il proprio gioco ben oltre gli strappi e i capolavori balistici che lo hanno esaltato all’inizio della sua carriera ad alti livelli. Con il ritorno di Boateng in Italia, la Serie A ritrova un interprete più maturo, ma anche la sua personalissima estetica, rimasta identica: quel modo di cercare di stare in campo con eleganza, ma finire sempre per risultare potente. Ogni gesto tecnico, dal tacco al sombrero, oltre al suo colpo preferito, la sforbiciata (già mostrata contro il Genoa), è ancora permeato da una certa brutalità, ma la sua capacità di coordinarsi fa sì che appaia sempre, in un certo modo peculiare, aggraziato.