Il ruolo di trequartista nacque da un’idea tanto semplice quanto logica. Il giocatore della rosa che spiccava per la capacità di trattare il pallone e per la visione del gioco superiori alla media veniva posizionato sulla trequarti, perché quest’ultima era (ed è) uno spazio interdetto tra i centrocampisti e i difensori avversari, quindi né degli uni né degli altri. Lì non esistevano marcatori diretti e nel calcio che aveva come riferimento l’uomo, il trequartista diventava così il jolly che poteva far saltare il banco. Lì, dunque, giocava il più abile con la sfera nei piedi. Con il tempo però è cambiata la richiesta associata a quella posizione, dunque è svanita l’idea del trequartista classico. Si sono via via estinti gli interpreti tradizionali. Varia la domanda, dunque l’offerta. In fondo c’era da aspettarselo: la definizione stessa di “trequartista” si riferisce alla posizione geografica occupata sul campo, non ai compiti ad esso assegnati, come ad esempio suggerisce il “regista”. Era in qualche modo sottinteso quindi che il prototipo potesse mutare.
Per favorire l’espressione del suo talento, al trequartista vecchio stampo era consentito di muoversi libero da vincoli tattici. Al contempo il resto della squadra aveva il compito di garantire equilibrio, di sacrificarsi sull’altare del migliore, con la consapevolezza che quest’ultimo avrebbe potuto fare la differenza. Negli anni è però cambiato il gioco e con esso il concetto di “sacrificio”: non esiste più una squadra che si muove in funzione di un giocatore, semmai ora è il contrario. Il calcio che un tempo era uno sport d’insieme propedeutico all’esaltazione del singolo sta diventando uno sport di individui che lavorano per il collettivo. E il trequartista tradizionale, il solista per eccellenza, in questo nuovo contesto diventa inevitabilmente il grande sacrificato.
Negli anni ’90, l’onda sacchiana e la tendenza generale al 4-4-2 avevano annullato la necessità di occupare la trequarti. Nel secondo lustro del nuovo millennio si è tornati all’antico con la ribalta dei dieci più o meno classici come Rui Costa o Kakà o Sneijder, per citare tre esempi di epoche in sequenza, finché, probabilmente per via degli orizzonti istituiti dal primo Guardiola, non si è concepita una maniera diversa per riempire quello spazio. Così il nuovo dieci non è più un dieci, ma un’ex mezzala o addirittura un’ex incontrista, spinto di qualche metro in avanti. Perché anche se la considerazione dello spazio sulla trequarti non è cambiata – rimane quello “di mezzo”, tra le linee, dunque potenzialmente decisivo per le azioni offensive – è diversa l’idea con cui si occupa quello spazio: non più in maniera statica ma in transizione, con un giocatore in grado di percorrere la zona ad intermittenza, di apparire per poi sparire.
Dunque se prima il trequartista era un riferimento fisico in campo, ora deve fare di tutto per non esserlo, pena la prevedibilità. Infatti i moduli che esaltavano le doti del dieci puro sono in disuso: il 4-3-1-2 in particolare, con cui è più difficile coprire con omogeneità il campo, in serie A viene utilizzato solo da Cagliari e Sampdoria, ma è indicativo che nessuna delle due abbia come titolare un trequartista classico. Maran ha deciso di avanzare Joao Pedro al fianco di Pavoletti per schierare alle loro spalle una mezzala come Castro (o Ionita), mentre Giampaolo ha desiderato, atteso e infine promosso Saponara, uno dei manifesti della metamorfosi del ruolo. Basti pensare che l’ex Fiorentina, in una Sampdoria basata sul possesso e la moltiplicazione dei tocchi, effettua soltanto 18,6 passaggi in media a partita. In sostanza, pur trovandosi al centro del gioco ne è estraneo, perché il suo compito è correre senza palla alla ricerca del varco in cui potersi ritagliare il tiro. I compagni fanno gioco, lui lo conclude.
Insomma, anche chi prevede un sistema di gioco con il trequartista, non utilizza più la versione tradizionale. Spalletti ad esempio ha elevato ad arte la ricerca di un interprete atipico in quella posizione. In principio fu Perrotta, ora è Nainggolan, e il fatto che siano stati entrambi efficaci ad una decina d’anni di distanza testimonia la logica dell’idea, che per certi versi è stata rivoluzionaria. D’un tratto si sono ribaltati i movimenti dell’interprete classico: quando la squadra ha il possesso, il nuovo trequartista corre senza palla seguendo tracce verticali anziché orizzontali; quando gli avversari sono invece padroni della sfera, si muove incontro ad essa per riconquistarla. Il dieci classico, pur nella stessa zona di campo, interpretava il ruolo al contrario: ondeggiava in orizzontale per ricevere il pallone nei piedi mentre i compagni avviavano i movimenti in profondità, ed in fase di non possesso, come anticipato, era esentato dalla fase di transizione negativa.
È un ribaltamento degli scopi paradossale se rapportato alla posizione geografica del trequartista, per l’appunto determinante per la fase offensiva. Ora in quella porzione di campo vengono utilizzati calciatori più “difensivi” rispetto ad altri che occupano aree del campo meno vicine alla porta avversaria come alcuni terzini o centrocampisti “box to box”, perché questi ultimi avanzeranno in corsa, dunque avranno bisogno di un alter ego che controbilanci i movimenti. Il trequartista, appunto. L’ago della bilancia. La mutazione genetica risponde quindi ad un’esigenza tattica, ma non si è fermata al primo stadio: negli anni alcuni giocatori sono riusciti ad esplorare nuovi confini. Oggi il modello del ruolo non è solo un gregario che gioca in funzione degli altri, ma è tornato ad essere anche un solista. Solo che spicca per altri aspetti rispetto al passato. Tra questi il più evidente è il pressing. Siccome la maggior parte delle squadre possiede complessi sistemi di costruzione della manovra dal basso, tutti devono essere coordinati dalla trequarti in avanti. Il vecchio dieci, spesso limitato dal punto di vista atletico e attento a conservare energie, non sarebbe stato in grado di eseguire con efficacia la transizione nel calcio odierno. Il finto-dieci, invece, sì. Basti pensare a come il primo Mancini adattò Stankovic sulla trequarti oppure come Allegri utilizzò Boateng al Milan e Vidal nella sua prima Juventus: serviva loro ritmo nelle transizioni, così pensarono di avanzare le mezzali che spiccavano in quanto ad atletismo e intensità.
L’aggressione è un’esigenza comune a tutti, che diventa evidente per contrasto nelle squadre che non prevedono un uomo sulla trequarti e non riescono a trovare sistemi per accorciare in avanti. L’esempio più recente è la Roma che Di Francesco ha dovuto rimodellare dall’amato 4-3-3 al 4-2-3-1 per ovviare alle difficoltà di inizio stagione nell’aggredire il palleggio avversario. Al tecnico, seppur con risultati alterni, è bastato invertire il triangolo di centrocampo e trovare un interprete moderno sulla trequarti come Pellegrini per trovare equilibrio, se non ancora di risultati, almeno nella distribuzione sul campo.
Il percorso tattico di Pellegrini ricalca quello del già citato Nainggolan, che forse più dei vari Stankovic, Boateng e Vidal rimane il manifesto di questa mutazione perché è colui che più di tutti è riuscito ad unire l’utile al dilettevole. L’utile è la sua arte difensiva che, spostata qualche metro più avanti, diventa utile a spegnere sul nascere l’avvio di azione altrui. Come spiega Spalletti, “Radja non è il trequartista che ti salta tre avversari, la qualità la esibisce con le sue vampate e con quella voglia e forza di saltarti addosso. Ti crea la difficoltà di costruire comodamente”. In sostanza, se prima Nainggolan curava le emorragie della squadra, ora le previene. Il dilettevole invece è il contributo in termini di gol: il belga si è avvicinato alla zona di tiro ed ha così reso più frequenti le conclusioni in porta, fondamentale in cui eccelle per precisione, potenza e coordinazione. Non ha cambiato compiti ma la posizione, finendo per diventarne un esempio. Per Spalletti addirittura “l’evoluzione della specie di calciatore”.
Quella del tecnico dell’Inter fu un’esagerazione, ma è coerente con l’idea che l’ha portato a scegliere il belga in posizione e altri allenatori a fare altrettanto, prima e dopo di lui: la ricerca della novità. Dell’evoluzione, appunto. L’estinzione del trequartista classico, seppur dolorosa per i nostalgici, è un sacrificio indotto dalla volontà di esplorare lo sconfinato orizzonte del calcio. Non è una scelta difensiva né conservativa, semmai è coraggiosa. Perché cambiare è sempre più pericoloso che ripetere.