Istruzioni per vincere subito

Da Solari a van Gaal e Di Matteo: chi ha vinto entrando in corsa, e come.

Per vincere, talvolta, è necessario pensare prima a radere al suolo che a costruire. Soprattutto quando si subentra in corsa sulla panchina di un grande club, dove la qualità dei giocatori a disposizione può lasciare ancora uno spiraglio aperto ai sogni di gloria. Tutto si decide nei primi giorni, quando al nuovo allenatore è riconosciuta un’autorità con la data di scadenza. È allora che il subentrante è chiamato a fare delle scelte chiare: assecondare le gerarchie precostituite oppure cercare di mescolare le carte. Ogni discorso puramente tattico è rimandato. Prima c’è da lavorare sulla testa, sull’armonia dello spogliatoio, sulla razionalizzazione di alcune scelte considerate “stravaganti”. In poche parole: ribaltare il lavoro del proprio predecessore.

Una scelta che sembra aver guidato il primo mese di Santiago Solari al Real. E l’argentino, che prima della promozione al posto di Julen Lopetegui aveva allenato solo il Castilla (32 vittorie, 29 pareggi e 25 sconfitte dal 2016/2017), ha chiarito fin da subito quello che sarebbe stato il suo lavoro. Ai giornalisti che, prima dell’esordio in Coppa del Re contro il Melilla, gli hanno chiesto lumi sulla sua filosofia di gioco l’ex esterno ha risposto senza scomporsi: «Hay que ir a Melilla con dos cojones». Otto parole che hanno sancito anche una discontinuità linguistica rispetto al suo predecessore. I giocatori sono diventati «combattenti desiderosi di rivincita», mentre dopo il clamoroso 3-0 incassato sabato contro l’Eibar, l’allenatore ha commentato la sconfitta con un semplice: «Gli avversari ci hanno messo le palle e noi non siamo stati all’altezza». Espressioni triviali che, oltre a confermare come per l’argentino le motivazioni vengano prima della tattica, rischiano di fagocitare anche quanto di buono fatto vedere da Solari nelle prime 4 partite alla guida dei blancos.

La vittoria 2-0 contro il Valladolid

Le 4 vittorie consecutive inanellate contro Melilla, Valladolid, Viktoria Plzen e Celta Vigo, chiuse dalle meringhe con una differenza reti di +13, avevano trasformato l’argentino nell’allenatore con il miglior avvio nei 116 anni del Real. Merito anche di un’opera importante di razionalizzazione e di rigenerazione. Per prima cosa, Solari si è fatto carico di alcune scelte che il suo predecessore non aveva preso. Courtois è diventato il portiere titolare in Liga e Champions, sulle fasce, in assenza di Marcelo e Carvajal, hanno giocato i loro sostituti naturali Reguilon e Odriozola (e non Nacho e Lucas Vazquez come in precedenza) e, soprattutto, Vinicius Jr è passato in pochi giorni da reietto a pedina importante. Il brasiliano, che con Lopetegui aveva giocato appena 12’ in 14 partite, ha avuto un ruolo fondamentale nella vittoria contro il Valladolid e ha fornito freschezza a una manovra prima ingessata. Un bottino che aveva fatto passare in secondo piano la chiusura in naftalina di uno dei principi fondamentali per i blancos come il possesso palla (crollato dal 65,8% di Lopetegui al 53%).

È chiaro, però, che a Solari non è chiesto tanto di traghettare la squadra verso la prossima stagione, quanto di vincere subito. Soprattutto in Europa. D’altra parte, dal 1960/61, anno in cui la Fiorentina ha vinto la Coppa delle Coppe con Nándor Hidegkuti al posto del connazionale Lajos Czeizler, l’impresa di alzare un trofeo continentale con un allenatore subentrante in panchina è stata centrata ben 15 volte.

Il ritorno della finale di Uefa 1992, in cui l’Ajax di van Gaal batte il Torino. In semifinale, gli olandesi avevano eliminato il Genoa, e i granata il Real Madrid

Nel settembre del 1991, ad esempio, Leo Beenhakkern saluta l’Ajax e vola al Real Madrid. A sorpresa, la dirigenza biancorossa affida la panchina al suo vice, Louis van Gaal, uno che a 40 anni è già campione del mondo di autostima. «Complimenti», dice accettando l’incarico, «avete ingaggiato il miglior allenatore del mondo». Tifosi e stampa non apprezzano la scelta del club, ma Louis porta avanti la sua piccola rivoluzione. Per prima cosa, van Gaal rompe con la filosofia del suo predecessore, uno che non ha mai dato peso allo spettacolo, per ricollegarsi alla tradizione del calco di posizione del suo “nemico” Johan Cruijff.  Una religione fondata su pochi dogmi: 4-3-3/3-4-3 fatto di circolazione di palla, movimento continuo, ricerca dello spazio giusto da sfruttare e portiere chiamato a vestire i panni del libero che imposta. Ognuno, all’interno del suo Ajax, ha un compito preciso: formare triangoli per supportare il compagno in possesso di palla. Il suo 4-3-3 crea otto linee essenziali per la circolazione del pallone e per gli inserimenti dei centrocampisti. «Matematicamente», spiega, «più triangoli hai nel tuo sistema più tutto diventa facile, perché i giocatori, senza pensarci, sono già nella loro posizione».

L’organizzazione dell’Ajax diventa quasi militaresca, i dribbling vengono sacrificati sull’altare del gioco collettivo. È la squadra che prevale. Sempre. Il club è più importante del singolo ma, allo stesso tempo, si regge solo se ogni singolo riesce a svolgere il compito che gli è stato assegnato. «Luis ci dava delle istruzioni che dovevamo mettere in pratica per far sì che il sistema funzionasse», racconta Dennis Bergkamp, «e il sistema è sacro. Tutti i giocatori sono uguali per van Gaal, i grandi nomi non esistono per lui e ognuno è subordinato alla squadra e al sistema. Al suo sistema». E proprio Bergkamp è oggetto delle attenzioni speciali del suo nuovo allenatore. van Gaal decide che il ruolo di ala destra, dove aveva giocato negli ultimi 3 anni, non fa per lui. Dennis deve giocare come vertice alto di un centrocampo a rombo inquadrato nel 3-4-3. I risultati gli danno ragione. Contemporaneamente, il nuovo allenatore intraprende l’opera di marginalizzazione di Jan Wouters, centrocampista difensivo che aveva avuto un ruolo fondamentale in quell’Olanda capace di vincere l’Europeo del 1988 (e nominato giocatore olandese dell’anno nel 1990), dando vita a quella tendenza che lo vedrà sempre “soffrire” i grandi nomi (Rivaldo al Barcellona, van Bommel prima e Ribery poi al Bayern). Ma l’era van Gaal ha però bisogno di tempo. A fine anno l’Ajax è secondo in campionato ma ad aprile  conquista la prima Coppa Uefa della sua storia, battendo in finale il Torino di Mondonico.

Una delle finali più assurde degli ultimi tempi in Champions League, quella tra Chelsea e Bayern

A Londra, sponda Chelsea, il primo cambio in panchina della svolta va in scena a febbraio del 1998. Ruud Gullit, impegnato come allenatore-giocatore, chiede un ritocco d’ingaggio fino a 6 miliardi all’anno. Ken Bates lo accompagna alla porta e affida lo stesso ruolo a Vialli, uno che da 12 mesi si lamentava per il poco spazio che trovava nel 5-3-2 dell’olandese. L’attaccante dà fiducia agli scontenti e sterza bruscamente verso un 4-4-2 che prende più di un semplice spunto dalla Juve di Marcello Lippi. L’esperimento riesce, ma solo a metà. A fine stagione è quarto, a -15 dai campioni dell’Arsenal. A riscattare l’annata, però, ci pensa la Coppa delle Coppe vinta per 1-0 contro lo Stoccarda grazie a un gol del subentrante Gianfranco Zola (Vialli, che a era schierato titolare accanto al norvegese, resterà in campo per tutti e 90 i minuti).

Ai Blues, però, i ribaltoni devono portare fortuna. Nel giugno del 2011 il Chelsea stacca un assegno di 15 milioni per portare a casa André Villas Boas, uno che con il Porto aveva appena vinto campionato, Europa League, una Coppa e una Supercoppa di Portogallo. Lo Special Two, però, si ritrova ben presto a gestire un’annata di transizione e decide di lasciare in panchina gente come Lampard, Drogba (a cui avrebbe detto, secondo il Sun, «Sei solo un pezzo del giocatore che eri la scorsa stagione») e Anelka (a cui viene addirittura ritirato il pass per parcheggiare a Stamford Bridge, con conseguente auto multata dopo una partita di Champions) mettendosi di fatto contro lo spogliatoio. A marzo, dopo la sconfitta contro il WBA, il Chelsea è quinto a -20 dal City. Abramovich esonera il portoghese e, in attesa di Guus Hiddink, affida la panchina al suo vice, Roberto di Matteo. L’ex centrocampista ha due idee: abbandonare il 4-2-3-1 del predecessore per un 4-5-1 infarcito di centrocampisti e affidare la squadra alla vecchia guardia. Il Chelsea non brilla ma arriva in finale di Champions contro il Bayern. Qui Drogba pareggia il vantaggio di Müller. Poi, ai rigori, sono i veterani Lampard, Cole e Drogba (insieme a David Luiz) a regalare la Coppa a Di Matteo. Nella stagione successiva, a novembre c’è un altro cambio della guardia. Di Matteo lascia spazio a Benitez, che porta a casa l’Europa League battendo in finale il Benfica per il terzo trofeo europeo dei Blues con un allenatore subentrante.

La prima tappa del mini-ciclo Zidane a Madrid

Una situazione che al Real Madrid è andata in scena nel 2015/16. Ma a parti invertite. In estate Benitez  disegna i blancos con un 4-2-3-1 che vuole sfruttare la velocità di Ronaldo e Bale sugli esterni. La cura maniacale della parte tattica, però, viene interpretata un tentativo di imbrigliare i calciatori, di trasformarli in pedine da muovere su uno scacchiere. Cristiano Ronaldo è il primo ad avere problemi. «Benitez – racconta – mi veniva vicino e pretendeva di spiegarmi come dovevo toccare il pallone». Lesa maestà. A gennaio l’esonero è servito. «Florentino Perez è sempre intorno ai calciatori», si lamenta poco dopo il tecnico, «parla con loro e con la stampa tutti i giorni. Non è facile allenare così. Negli anni della sua presidenza, il Barcellona ha vinto il doppio o più del doppio dei trofei del Madrid». Peccato che il suo successore, Zinedine Zidane, alzerà subito la Champions League. Per tre anni consecutivi.

E il merito di un ciclo perfetto non può essere certo attribuito solo all’ottimo rapporto che il francese ha costruito con i giocatori già da quando era assistente di Ancelotti. Il capolavoro di Zizou è stato ribaltare la prospettiva senza dare troppo nell’occhio. Mentre i critici lo definivano fortunato, l’esplosione di Casemiro (che aveva assunto un ruolo importante proprio con Rafa) gli ha permesso di portare a termine la transizione. Con lui in campo, Kroos e Modric sono diventati più che dominanti in fase di costruzione e di sostengo ai tre davanti. E con l’aggiunta di Isco, che con Rafa era confinato come esterno destro d’attacco nel 4-3-3, il Real Madrid è diventato un avversario soverchiante. Meno esplosività e più dominio in mezzo al campo, dove la qualità degli interpreti avvolge gli avversari disorientandoli, costringendoli a giocare al di sopra del ritmo sostenibile fino all’imbucata vincente. I galacticos sono stati sostituiti da Los Jugones, i fuoriclasse. Una macchina così perfetta che sembrava addirittura non aver bisogno di un allenatore.