L’era delle multiproprietà

Avere più squadre aiuta a diversificare i ricavi: il calcio si dovrà adeguare?

L’ultimo baluardo è caduto a fine settembre: in Europa League si sono sfidate due squadre che ruotano nell’orbita della stessa proprietà. Lipsia e Salisburgo sono entrambe legatissime alla Red Bull, ma la genitorialità comune non ha impedito alla Uefa di spedirle nello stesso gruppo B del torneo continentale. Prima o poi sarebbe dovuto succedere. Le Multi-Club Ownership (Mco) sono popolari nel calcio perché strumenti utili per diversificare i ricavi e ponderare meglio i rischi. Con più squadre tra le mani, i patron possono esaltarsi davanti a tifosi sempre nuovi e i manager hanno la possibilità di far crescere giovani talenti senza troppe pressioni ambientali. Presto anche i campionati nazionali perderanno la loro verginità: la famiglia di Aurelio De Laurentiis, già proprietaria del Napoli, nell’estate scorsa ha rilevato il titolo sportivo del fallito Bari, promettendo a tutti di cambiare le regole per portare i due club di casa in Serie A. Claudio Lotito, uomo-simbolo sia della Lazio sia della Salernitana, può essere una buona sponda.

Le regole internazionali della Fifa obbligano chi organizza i tornei a fare in modo che tutti i club siano tra loro indipendenti. La norma vale a ogni livello e la Uefa ha dovuto lavorare parecchio prima di poter accogliere sul terreno europeo le due squadre griffate Red Bull. Quando i club sono finiti sotto accusa, la società dell’energy drink è corsa ai ripari, preferendo il maquillage societario al battagliare politico. Red Bull ha ridotto l’esposizione sul Salisburgo e ha sfrattato fidati top manager che nel weekend si divertivano con il pallone: «Così la relazione è stata declassata a un mero rapporto di sponsorizzazione. Senza che potesse essere rilevata alcuna influenza decisiva della Red Bull sul management della squadra austriaca, è venuta meno la tesi di un controllo comune su entrambi i club», spiega Luca Pastore, avvocato italiano nel Regno Unito ed esperto di diritto sportivo internazionale. Del resto l’obiettivo primario del colosso della lattina non è fare la rivoluzione, ma vendere soft drink: «La presenza nel calcio di Red Bull ha una valenza puramente commerciale. Esserci serve a promuovere il nome del brand industriale nel mondo», sottolinea Pastore. E per raccogliere proseliti, negli anni la società si è mossa al di là dell’Europa: a New York nel 2005 sono stati comprati i vecchi MetroStars e a Campinas nel 2007 è stato fondato il Red Bull Brasil, onesto club che naviga ancora nei bassifondi del calcio paulista.

I giocatori del Lipsia festeggiano dopo aver battuto 4-1 la Lazio in Europa League 2017/18 (Krugfoto/Afp/Getty Images)

L’impero sul quale davvero non tramonta mai il sole è quello del City Football Group, una holding che ha partecipazioni in sei club nel mondo: Manchester City in Inghilterra, New York City negli Stati Uniti, Melbourne City in Australia, Yokohama Marinos in Giappone, Club Atlético Torque in Uruguay e Girona in Spagna. Per l’87% la proprietà è dell’Abu Dhabi United Group che fa capo allo sceicco Mansour; il restante 13% è di China Media Capital, una public company di Shangai che ha comprato la sua quota di minoranza per 485 milioni di dollari nel 2015. L’idea di sviluppare calcio con piglio industriale è però di Ferran Soriano, ex top manager del Barcellona a suo tempo allontanato dalla Catalogna perché privo della giusta poesia. Chiamato nel 2012 da Mansour, Soriano ha spinto forte sull’internazionalizzazione del club, senza dover pubblicizzare nulla al di là del pallone. Oggi sorride tronfio in tutte le photo opportunity con i calciatori di casa: «Ha messo in piedi il sistema City finalizzato a creare la prima organizzazione calcistica su scala globale, attraverso un network di club con al centro Manchester. L’obiettivo è aumentare la fanbase, massimizzare i ricavi e aver modo di scovare calciatori e allenatori promettenti in ogni angolo del pianeta. Tutto con una specializzazione che gli altri club non hanno», spiega Pastore.

Una versione più casereccia dell’imponente City Group l’ha realizzata Giampaolo Pozzo, capostipite della famiglia che dalla metà degli anni Ottanta è proprietaria dell’Udinese. I friulani hanno fatto di necessità virtù: una volta capito che il business model da seguire era comprare calciatori sconosciuti per valorizzarli alla grande, i famelici Pozzo si son trovati con troppi giocatori da far scendere in campo. Nel 2009 la svolta con la decisione di diventare soci di riferimento del Granada, club spagnolo di terza serie che nel giro di due stagioni è stato traghettato in Liga. Nel 2016 la società dell’Andalusia è stata venduta ai cinesi di Desports – a loro volta azionisti del Parma in Italia e del Chongqing in Cina – ma ai Pozzo l’esperimento era piaciuto così tanto da volerlo bissare nel 2012 con l’acquisto del Watford. Il club inglese all’epoca in Championship ha collezionato prestiti dalle società sorelle (12 da Udine e 2 da Granada nella sola prima stagione) e dopo qualche anno di playoff decisamente thrilling ha centrato la promozione in Premier League. Da allora non è mai più retrocesso e la cosa bizzarra è che oggi il Watford ha un peso specifico maggiore della casa madre: nel 2017 gli inglesi hanno fatturato circa 140 milioni di euro e l’Udinese 107,5, anche grazie agli undici milioni che dal Regno Unito sono stati accreditati in Friuli Venezia Giulia.

Pirlo e Villa, i due acquisti più di spicco del New York City Fc del 2015 (Munoz Alvarez/Afp/Getty Images)

«Dopo i successi finanziari e sportivi ottenuti dai Pozzo», prosegue Pastore, «tanti altri uomini impegnati nel calcio hanno seguito il loro esempio. Il miliardario belga Roland Duchâtelet ha acquisito il controllo di quattro società in Europa: Charlton in Inghilterra, Carl Zeiss Jena in Germania, Alcorcón in Spagna e Újpest in Ungheria». Anche Vincent Tan, businessman della Malesia, ha messo insieme un bel gruppo di club in anni di shopping: il suo Cardiff City milita in Premier League, ma nel bouquet ci sono anche il Fudbalski klub Sarajevo in Bosnia, il Kortrijk in Belgio e azioni dei Los Angeles Fc negli Usa. Tra i multiproprietari c’è la King Power, società fondata da Vichai Srivaddhanaprabha, il magnate thailandese schiantatosi qualche settimana fa con l’elicottero dopo aver assistito a un match del suo Leicester City. Oltre alle Foxes, King Power è al comando anche del club belga Oud-Heverlee Leuven. L’imprenditore canadese Joey Saputo, invece, dopo aver fondato nel 1992 l’Impact de Montréal, ha virato sull’Italia e oggi possiede anche il Bologna.

Tra le vivaci imprese cinesi, Suning è quella che ha fatto le cose in grande: il colosso asiatico del retail ha prima comprato il club Jiangsu di Nanchino e poco dopo è sbarcato in Europa diventando l’azionista forte dell’Inter. «Il progetto prevedeva la nascita di diversi club satellite, ma le improvvise restrizioni del governo cinese sugli investimenti all’estero hanno cambiato i piani del gruppo», sottolinea Pastore. «Pur senza poter sviluppare l’idea iniziale di business, Suning ha continuato a investire, ha nominato presidente il rampollo Steven Zhang e ha deciso di liquidare il socio minoritario, Erick Thohir, per rafforzare la presa sul club». La ragione è tutta commerciale: «Oggi Suning non fa della circolazione degli asset calcistici lo scopo principale della Mco», ricorda Pastore. «L’obiettivo è intercettare l’interesse crescente del pubblico asiatico verso il calcio e farsi conoscere in Europa». A certe latitudini non esiste veicolo migliore del pallone, soprattutto se le cose vanno bene: l’Inter è tornata a giocare la Champions League e il suo simbolo ha riconquistato il vecchio fascino. Nel 2018, secondo Brand Finance, il marchio del club vale 475 milioni di dollari, il 119% in più rispetto un anno fa.

Un’immagine di Gino Pozzo mostrata dai tifosi del Watford a Vicarage Road nel maggio 2016 (Bryn Lennon/Afp/Getty Images)

Il peso del marketing e la fame di calciatori a costo zero hanno spinto anche alcune squadre europee a rilevare a loro volta club in giro per il mondo. L’Atlético Madrid è azionista dell’Atlético de San Luis in Messico, l’Ajax è socio di maggioranza dell’Ajax Cape Town in Sud Africa e il Monaco è proprietario del Cercle Brugge, squadra belga senza troppe velleità. Avere più occhi a disposizione aiuta a centrare i propri obiettivi, in campo e nei conti. Per questo da quasi trent’anni le Multi-Club Ownership rappresentano una soluzione per il business del calcio. Ironia della sorte, chi ha inaugurato il trend oggi ha smesso. Negli anni Novanta il fondo inglese Enic poteva contare partecipazioni in così tanti club europei da portarne addirittura tre ai quarti di finale di Coppa delle Coppe. All’epoca le regole erano diverse, ma caso volle che non ci fu alcuno scontro fratricida. Del gruppo Enic in quegli anni facevano parte, tra gli altri, Glasgow Rangers, Vicenza, Slavia Praga, Aek Atene e Tottenham, unica squadra ancora nelle mani della società. Un altro pioniere delle Mco fu Calisto Tanzi, padre padrone della Parmalat fino allo storico crac. La sua famiglia con lo sport non c’entra più niente, ma negli anni Novanta dettava le regole del gioco: nel 1992, con il Parma in Serie A, Tanzi divenne patron del Palmeiras in Brasile. La speranza era di convincere i locali a bere il suo latte a lunga conservazione, ammaliandoli con le sgroppate sulle fasce di Roberto Carlos e Cafu.

 

Dal numero 25 di Undici
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