Gli aiutanti della panchina

Perché gli assistenti sono sempre più fondamentali.

Il maledetto United ed Herr Pep sono due opere cult per gli appassionati di letteratura sportiva: entrambe ripercorrono la vicenda tecnica e umana di un allenatore alle prese con una nuova squadra e un nuovo ambiente, in epoche diverse – Brian Clough al Leeds United nel 1974 e Pep Guardiola al Bayern Monaco nel 2013. Oltre alla prossimità di stile e contenuto, un altro punto di contatto tra i due romanzi riguarda l’allenatore in seconda, un professionista di solito nell’ombra che diventa centrale, un vero e proprio deuteragonista – il secondo personaggio principale nella struttura classica della drammaturgia greca.

È un impatto assoluto che viene raccontato con due narrazioni contrapposte, l’assenza e la partecipazione: il Clough più o meno immaginario di David Peace impreca un milione di volte perché il suo grande amico Peter Taylor, un talent scout più che un puro assistente di campo, ha deciso di non seguirlo a Leeds; il contributo di Domènec Torrent è fondamentale per Guardiola, e nel libro scritto da Martí Perarnau ci sono diversi virgolettati attribuiti al tecnico catalano in cui il suo vice viene definito «determinante per ogni singola partita vinta del Bayern». Alla base di una riconoscenza così profonda ci sono diverse intuizioni tattiche, prima tra tutte quella in merito alla posizione di Philipp Lahm: Torrent è stato il primo componente dello staff di Guardiola a suggerire lo spostamento dell’ex terzino tedesco nel ruolo di centrocampista.

«Ci confrontiamo su tutti i punti della strategia, in base all’analisi video e alle percezioni sugli allenamenti. Io faccio da raccordo durante questo processo» (Davide Ancelotti)La distanza tra l’approccio manageriale di Taylor e il lavoro specializzato di Torrent è esplicativa rispetto alle differenze tra il modello britannico e quello dell’Europa continentale, ma racconta anche l’evoluzione storica del calcio, uno sport diventato estremamente complesso, condizionato da tantissime variabili strategiche e quindi determinato da professionalità sempre più articolate. In Italia le attribuzioni degli allenatori in seconda e degli assistenti si esprimono da sempre nel lavoro quotidiano sul campo, dove garantiscono un supporto composito, fondamentale per il lavoro del tecnico.

Davide Ancelotti ha iniziato a lavorare nel calcio da giovanissimo, come osservatore e preparatore atletico: oggi ha 29 anni ed è il vice di suo padre Carlo a Napoli. Gli abbiamo chiesto di raccontarci il suo ruolo all’interno dello staff: «Ho la responsabilità diretta per la preparazione dei calciatori, curo gli esercizi che servono a raggiungere un certo obiettivo tattico, a breve e a lungo termine. Ad esempio, se decidiamo di affrontare una partita accentuando i movimenti tra le linee dei nostri attaccanti, costruisco dei percorsi per allenare il gioco di posizione, così da stimolare l’attuazione di certi meccanismi. In questo modo, lavoro anche sulle conoscenze e sull’affiatamento della squadra».

Il metodo di allenamento del Napoli è fluido, interattivo a tutti i livelli: «Mio padre – spiega Davide Ancelotti – si fida molto dei suoi collaboratori, tende a delegare alcuni compiti, allora mi capita spesso di animare parte delle sedute in base alle sue indicazioni. Le decisioni finali sulle soluzioni tattiche da adottare spettano sempre a lui, ma la distribuzione del lavoro non prevede delle figure specializzate nelle varie fasi di gioco. Ci confrontiamo su tutti i punti della strategia, in base all’analisi video e alle percezioni sugli allenamenti. Io faccio da raccordo durante questo processo, parlo direttamente con l’allenatore e lo aiuto a trasmettere le sue direttive ai membri dello staff, in assoluta sinergia».

Ancelotti adopera un modello aperto, gli informatici lo definirebbero open source, leggermente diverso rispetto a quello utilizzato in altre realtà, in cui i preparatori lavorano per macroaree. L’approccio più specializzato genera maggiori suggestioni narrative, per cui il collaboratore che si concentra su un solo aspetto tattico finisce per essere più riconoscibile, più spendibile dal punto di vista mediatico, proprio perché ha dei compiti precisi, percettibili nella praticità del gioco. È così che alcuni assistenti e i loro compiti specifici sono diventati familiari anche al grande pubblico: un esempio appropriato è quello di Giovanni Martusciello, coach della fase difensiva di Sarri e Giampaolo all’Empoli, oggi con Spalletti all’Inter dopo una stagione da allenatore in prima, sempre ad Empoli. Anche il nome di Gianni Vio è molto conosciuto: oggi è alla Spal dopo una carriera spesa in Italia e in Europa come tattico-creativo delle palle inattive.

Lo staff di Giampaolo alla Sampdoria lavora con una divisione dei compiti chiara, definita: Angelo Palombo, ex capitano blucerchiato, cura gli schemi da fermo in attacco e in difesa; Salvatore Foti si occupa invece della fase di possesso, è assistente tecnico da tre stagioni dopo una carriera da centravanti interrotta troppo presto (a 27 anni) per una terribile sequenza di infortuni. Il loro lavoro è multiforme, parte dall’analisi video e poi si concretizza sul campo: «Dopo aver selezionato le migliori riprese della camera tattica – spiega Palombo –, io e il match analyst studiamo le azioni che ci sembrano più interessanti. Dopo, pensiamo a nuove soluzioni e le testiamo in allenamento. Io sono l’ultimo arrivato tra gli assistenti, sono stato allenato da Giampaolo e quindi a volte partecipo alle sedute anche come elemento attivo. È bello giocare insieme ai tuoi ex compagni e vederli mettere in pratica un’idea che prima era nella tua testa».

L’obiettivo più importante di questo processo è il governo del tempo in senso di ottimizzazione, per agevolare l’allenatore nella gestione del tutto: «Il nostro contributo – racconta Foti – nasce dallo studio costante del gioco. Io riguardo più volte le partite alla ricerca di spunti correttivi e/o di potenziamento, per i calciatori e per il sistema di squadra. Un allenatore non può fare analisi così profonde se vuole rispettare tutti i suoi impegni, anche per questo noi assistenti dobbiamo conoscere e condividere la sua filosofia calcistica, in modo che i nostri suggerimenti possano essere coerenti con i principi su cui è costruita la squadra. Un gruppo di collaboratori affiatato ed efficace è determinante per l’allenatore, gli consente di ridistribuire le sue mansioni, gli dà quel margine di libertà che serve per curare i rapporti con i media, con la società, con gli stessi giocatori».

I componenti dello staff tecnico abitano lo spazio di confine tra la squadra e l’allenatore, si tratta di una posizione scomoda, chi la occupa deve agire e reagire in due direzioni: da una parte c’è l’esigenza di costruire e preservare un rapporto professionale, di grande fiducia, a volte anche di amicizia pluriennale, con il tecnico; dall’altra c’è la necessità di creare empatia con i calciatori. In questo senso la vicinanza anagrafica può essere un alleato importante, spesso gli assistenti sono giocatori che hanno smesso da pochi anni, e quindi hanno un ricordo vivo della loro carriera, conoscono le dinamiche professionali ed emotive dei loro ex colleghi.

«I rapporti interpersonali sono una parte fondamentale del nostro lavoro, dobbiamo fare da filtro, creare armonia»
(Davide Possanzini)
Davide Possanzini, vice di Roberto De Zerbi a Sassuolo, racconta i nuovi aspetti umani della professione: «Credo che la figura dell’allenatore in seconda sia stata storicamente fraintesa dai calciatori: quando giocavo io e miei compagni vedevamo questo personaggio come una sorta di infiltrato dentro lo spogliatoio. Per questo cerco di frequentare poco gli spazi in cui i ragazzi parlano in libertà. Però i rapporti interpersonali sono una parte fondamentale del nostro lavoro, dobbiamo fare da filtro, creare armonia in un ambiente estremamente competitivo. Per noi è essenziale avere buon senso, discrezione e sensibilità, in modo da non alterare un equilibrio delicatissimo, sempre nel rispetto delle persone e dei ruoli».

Nel dicembre 2016, dopo un match tra il suo Manchester City e l’Arsenal, Pep Guardiola ha raccontato alla stampa di aver affidato la squadra alle indicazioni del suo assistente, Mikel Arteta – tra l’altro ex capitano proprio dei Gunners. Lo stesso Arteta, pur non avendo avuto alcuna esperienza come allenatore in prima, è stato considerato come possibile successore di Wenger sulla panchina dell’Emirates Stadium, prima della firma di Unai Emery. È una storia significativa, descrive compiutamente un’era calcistica in cui gli assistenti hanno finalmente un impatto mediatico importante, riescono a crearsi un proprio spazio partendo da conoscenze sviluppate nel tempo, al termine di un percorso interno, democratico e meritocratico, evidentemente molto formativo.

Negli ultimi anni tanti tecnici sono riusciti a imporsi ai massimi livelli dopo aver iniziato come semplici collaboratori, e alcuni erano privi di un curriculum importante da giocatore: José Mourinho era il traduttore di Bobby Robson al Porto, André Villas-Boas è stato per anni il vice dello Special One; Ernesto Valverde, Niko Kovac e Thomas Tuchel guidano tre delle squadre più forti del mondo dopo un apprendistato come membri dello staff, in ruoli diversi. Nel 2013, il vice di Carlo Ancelotti al Real Madrid rilasciava un’intervista a L’Équipe: «Per me questa sarà un’esperienza fondamentale, sono in una posizione privilegiata per imparare come si gestisce una grande squadra». Il suo nome è Zinedine Zidane, e da allenatore ha vinto le ultime tre edizioni della Champions League.

 

Tratto dal numero 25 di Undici

 

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