Mané è diventato letale

Come si è adattato al gioco di Klopp diventando uno dei migliori attaccanti al mondo.

Quando, poco prima della mezz’ora della gara col Bayern Monaco, ha calamitato un lungo lancio di Virgil Van Dijk con una naturalezza disarmante, Sadio Mané era già a metà dell’opera. Qualche istante più tardi l’avrebbe completata e saltato Neuer con una visionaria finta di corpo, prima di appoggiare il pallone in rete con uno scavetto, spezzando l’equilibrio a favore del Liverpool nell’incertissimo ottavo di finale di Champions League con i bavaresi. Lo show di Mané, comunque, era solo all’inizio: dopo aver spianato la strada alla banda di Klopp, ripresa dai bavaresi prima della fine del primo tempo e poi nuovamente in vantaggio grazie a Van Dijk, è stato proprio il senegalese a seppellire il discorso qualificazione, segnando di testa il 3-1 nel silenzio dell’Allianz Arena.

Nella stagione in cui si è piazzato secondo alle spalle del compagno di squadra Salah nella classifica del Pallone d’Oro africano, Sadio Mané sembra aver fatto il definitivo salto di qualità, aggiungendo a una dimensione tecnico-atletica già ottima anche un’eccellente costanza realizzativa. Mai come quest’anno, insomma, è un fattore imprescindibile per il calcio heavy metal di Jürgen Klopp: se i Reds sono in lotta su più fronti, con all’orizzonte la possibilità di regalare il titolo nazionale al popolo di Anfield dopo quasi trent’anni di digiuno, lo devono anche ai suoi gol. Attualmente il senegalese ha già segnato 20 reti in stagione, eguagliando il primato con i Reds, ed è a tre gol dal record assoluto di 23 fatto registrare quando ancora vestiva la maglia del Salisburgo.

La parabola di Mané, nato e cresciuto a Bambali, un villaggio del Senegal meridionale a cui si accede solo guadando il fiume Casamance o percorrendo un lungo sentiero nella vegetazione, prende le mosse dalla povertà dell’infanzia e ha una trama hollywoodiana simile a quella di molti altri fuoriclasse africani. La svolta è arrivata nel 2008, quando a sedici anni è entrato a far parte della Génération Foot di Dakar, uno dei bacini di talento più floridi dell’Africa Occidentale, nonostante le iniziali reticenze della famiglia dettate dalla religione: «Tutti mi dicevano che ero il migliore in città, ma la mia famiglia non vedeva di buon grado il calcio. Loro sono molto devoti e probabilmente desideravano qualcosa di diverso per me, ma quando hanno capito che nella mia testa c’era solo il calcio mi hanno dato il via libera per andare a Dakar». L’inizio della propria carriera lui l’ha raccontato recentemente al portale Goal.com,  come se fosse l’incipit di un romanzo d’avventura: «Lasciai la mia città per andare nella capitale a fare un provino con mio zio. Lì c’era un uomo anziano che mi guardava come se fossi nel posto sbagliato. Mi chiese: sei qui per il provino? E io risposi di sì». «“Guarda quelle scarpe: come farai a giocare con quelle?”, mi disse», ha continuato Mané. «In effetti erano davvero consunte e rotte. Poi aggiunse: “Dove pensi di andare con quei calzoncini. Non ne hai un paio da calcio?”. Gli spiegai che non avevo di meglio, ma quando sono andato in campo dovevate vedere la sorpresa nel suo viso. Si è immediatamente avvicinato a me e mi ha detto: “Ti ingaggio subito, giocherai nella mia squadra”», ha concluso il racconto il senegalese.

Un anno più tardi era già in Europa, al Metz, la squadra francese con cui la Génération Foot vanta un partenariato esclusivo di lunga data, ma all’inizio si è tenuto gelosamente il segreto per sé: «Nessuno lo sapeva, tranne mio zio», ha ricordato al portale Senenews. «Sì, nemmeno mia madre lo sapeva. Il giorno dopo il mio arrivo, compro una scheda telefonica, lo chiamo e gli dico: “Sono in Francia”.  Lei non mi ha creduto. Era così stupita che mi richiamava ogni giorno per scoprire se fosse vero». Al Metz ha incrociato per la prima volta anche Kalidou Koulibaly, ma la prima stagione da professionista in Ligue 2 (2011/12) è terminata come peggio non avrebbe potuto. Afflitto dai postumi della pubalgia, Sadio Mané ha giocato comunque ventidue partite e segnato tre reti, ma non è riuscito ad evitare la prima, storica retrocessione dei granata nel National, la terza serie del calcio francese. Una cosa per certi versi inspiegabile, come ha commentato a So Foot Dominique Bijotat, l’allora tecnico dei Grenat: «Se vediamo oggi i giocatori di quella squadra, beh, non riesco a comprendere come sia stato possibile retrocedere». Al termine di quella traumatica stagione il senegalese è passato per quattro milioni di euro al Salisburgo, ma secondo lo stesso Bijotat l’esperienza negativa di Metz, in realtà, è stata in certo senso funzionale, svolgendo un ruolo quasi didattico per la successiva carriera di Mané, sviluppatasi poi tra Salisburgo, Southampton e Liverpool: «Quella situazione complicata gli ha permesso di sviluppare capacità psicologiche che mai avrebbe affinato in altri contesti».

Voluto fortemente dal direttore sportivo Gerard Houllier, che lo aveva adocchiato alle Olimpiadi di Londra, dove il Senegal aveva raggiunto i quarti di finale, a Salisburgo Mané ha trovato Roger Schmidt ed è stato amore a prima vista. L’esplosività e la stabilità non comune di Mané a condurre il pallone anche ad alta velocità, hanno stregato il tecnico tedesco, appena arrivato dal Paderborn, spingendolo a fare di lui una pedina imprescindibile del suo 4-2-2-2 iperaggressivo. Schmidt ha aperto il laboratorio del Gegenpressing e profetizzato un calcio intenso e senza tregua, facendo del Salisburgo un’avanguardia del calcio europeo. Un contesto del genere si è sposato a meraviglia con le caratteristiche di Mané, finendo inevitabilmente per esaltarlo più di chiunque altro: in due anni, per dire, ha segnato 45 reti in 87 partite, imponendosi all’attenzione delle big europee. Non a caso è in questo periodo, costellato da prestazioni abbaglianti come quella con l’Ajax in Europa League, che abbiamo imparato a familiarizzare con la sua anima da contropiedista puro, quella capacità di mulinare le gambe ad altissime frequenze e scaricare il contachilometri in campo aperto, ribaltando il fronte di gioco come se avesse le ali ai piedi e senza nemmeno dare l’impressione di fare fatica.

Nei due anni successivi al Southampton, valorizzato dal 4-3-3 di Ronald Koeman, è salito ulteriormente di livello, strappando a Robbie Fowler il record della tripletta più veloce di sempre nella storia della Premier League (6-1 contro l’Aston Villa) e andando costantemente in doppia cifra. Naturale, quindi, l’approdo per trenta milioni di sterline in una grande del calcio inglese come il Liverpool, dove ha finalmente abbracciato Klopp. Un incontro solo sfiorato qualche anno prima, quando aveva assaporato il trasferimento al Borussia Dortmund, ma era stato proprio il tecnico tedesco a stoppare la trattativa, riconoscendo successivamente la valutazione sbagliata: «Uno dei miei errori più grandi è stato quello di non prendere Sadio al Borussia Dortmund. Un giorno siamo stati insieme nel mio ufficio. Gli ho parlato, ma non ero convinto. Però è stata davvero colpa mia», ha confessato Klopp al Mirror.

Al Liverpool, sostanzialmente, è arrivato un giocatore completo, talentuoso e rapidissimo, ma sopratutto duttile e in grado di ricoprire ogni ruolo dell’attacco: anche se ama partire largo a sinistra o destra per sprigionare la sua velocità, Mané non ha sfigurato né quando Koeman lo ha impiegato qualche volta da trequartista classico, né tantomeno da falso nueve, come lo ha proposto recentemente anche lo stesso Klopp. In Salah e Firmino ha trovato i compagni d’avventura ideali, con cui forma uno dei tridenti più spettacolari e prolifici d’Europa, e dopo due annate comunque terminate in doppia cifra, in questa stagione sembra aver finalmente trovato una sorta di maturità realizzativa. L’ultimo periodo, in questo senso, è emblematico: il senegalese, infatti, ha segnato sette reti nelle ultime cinque partite, permettendo al Liverpool di superare il turno in Champions League e tenendo a galla i Reds nella volata finale per la Premier League con il City di Guardiola.

È come se Mané, in un certo senso, avesse capito di essere entrato in una nuova dimensione, acquistando maggiore fiducia ma anche nuove e inesplorate responsabilità: «Sadio sta arrivando a un’età in cui le cose stanno diventando più naturali per lui», ha detto Klopp. «Non deve convincere la gente ora. Sappiamo tutti che è un giocatore di livello mondiale, e ha iniziato a rendersene conto da solo». Questa maggiore consapevolezza, in qualche modo, ha influenzato il suo modo di stare in campo, cambiandone per certi versi l’attitudine che si è fatta più concreta e meno fumosa rispetto al passato. Non a caso Mané ha frenato l’istinto naturale per il dribbling (3 a partita nelle ultime due stagioni, ma con una minore percentuale di riuscita in quest’ultima, a fronte dei 4,6 tentati nella prima stagione ad Anfield), e trovato una maggiore fiducia nel tentare la conclusione verso la porta (2,7 contro le 2,4 della passata stagione), diventando fisiologicamente più incisivo in zona gol: non deve, quindi, stupire si è insediato stabilmente nella top five europea dei giocatori più “infallibili d’Europa”, alle spalle di gente come Kylian Mbappé, Luca Jovic, Marco Reus e Pierre-Emerick Aubameyang, con un tasso di realizzazione ben oltre il 20%. I numeri, insomma, confermano l’evoluzione di Mané, ma non spiegano tutto. Alla base della riscoperta concretezza del senegalese c’è una grande capacità di adattamento e flessibilità. L’anno scorso lo sbarco di Salah sul pianeta Anfield, non solo aveva tolto spazio vitale a Mané, ma lo aveva anche dirottato sulla sinistra, chiedendogli un notevole sacrificio in fase di transizione negativa. Una scelta vincente, se si considerano i 32 gol in 36 partite con cui l’egiziano ha chiuso la sua prima devastante stagione in Inghilterra, ma indubbiamente penalizzante per il gioco di Sadio. Il raffronto con l’anno precedente, il primo del senegalese, è impietoso: rispetto al 2016/17, in cui solo Olivier Giroud Giroud aveva un miglior rapporto occasioni/gol di lui, nel 2017/18 in Premier League ha segnato solo dieci reti, chiudendo la stagione con un deficitario tasso di conversion rate del 18%

Oggi il senegalese è probabilmente il giocatore subsahariano più forte e gettonato del momento, pur senza un carisma à la Drogba, né tantomeno una corsa da Samuel Eto’o. Zinedine Zidane, chiamato a far risorgere il Real Madrid dalle ceneri di una stagione fallimentare, lo avrebbe messo in cima alla lista dei desideri per la prossima campagna acquisti, ma dopo la fine della stagione con i Reds, e prima di una possibile nuova avventura, in estate Mané ha un appuntamento a cui non può mancare: la Coppa d’Africa. C’è da sistemare, del resto, la questione della personalissima legacy con il Senegal, lasciando sbiadire il ricordo dell’ultima eliminazione ai quarti con il Camerun, causata proprio da un suo errore dal dischetto.

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