L’Atalanta ha un’identità fortissima

Come Gasperini ha costruito una squadra unica in Italia.

Il fatto che l’Atalanta sia coinvolta nella lotta per il quarto posto, e che abbia, ad oggi, ottime chances di conquistarlo, dovrebbe sorprendere soltanto fino a un certo punto. Da quando Gasperini è arrivato a Bergamo, le stagioni della Dea si sono susseguite in un continuum crescente, frutto di una programmazione mirata e di una gestione tecnica che di anno in anno ha sbagliato sempre meno. L’asticella che si alza, insomma, non è una novità. Uno dei concetti-chiave per spiegarlo ha a che fare con la stabilità. Generata da un ambiente privo della pressione delle grandi piazze, ma legata soprattutto allo stesso Gasperini, che tra gli allenatori in corsa per un posto in Champions (Gattuso, Ranieri, Mazzarri, Simone Inzaghi) è quello che siede sulla stessa panchina da più tempo. Poi ci sono i 72 punti della stagione 2016/17, e la campagna europea di quella successiva: le tappe del passato prossimo, gli assi portanti che spiegano e giustificano le ambizioni di oggi.

Non era partita bene, come spesso è accaduto nel corso degli anni alle sue squadre, la terza Atalanta di Gasperini. Poche le reti segnate e di conseguenza poche le vittorie, appena una nelle prime otto giornate. Poi, in modo semi-automatico, tutti i pezzi del puzzle sono andati lentamente al loro posto. È rientrato a pieno regime Ilicic, si è sbloccato Zapata. Allora il giocattolo di Gasperini ha iniziato a girare e non si è più fermato, tanto che oggi vanta il secondo miglior attacco della Serie A (66 gol fatti, uno in meno della Juventus primatista) ed è per distacco la squadra italiana che – considerando anche le coppe – ha segnato di più: 92 reti in 43 partite, una ogni quarantadue minuti in media. Nelle ultime due stagioni, sempre considerando tutte le competizioni, erano stati rispettivamente 78 e 64.

I numeri significativi sono svariati. Nel momento in cui scriviamo, ad esempio, ben 16 dei membri della rosa hanno disputato oltre 1400 minuti in campionato, ossia circa la metà delle gare sin qui disponibili – la media di giocatori che sono stati in campo con questo minutaggio tra le altre squadre è di 12. Un segnale che lascia intuire come questa Atalanta abbia, tra le tante cose, un organico rodato, affidabile nelle sue individualità, in cui tutti sono abituati a pensare in chiave collettiva. È anche per questo motivo che l’identità della Dea è così definita e riconoscibile. Una serie di principi semplici, che si ripetono costantemente, e che al contempo risultano inafferrabili per chi deve farvi fronte. Il baricentro alto per schiacciare gli avversari nella loro metà campo, lo svuotamento del centrocampo per dirottare il pallone sulle catene laterali, il coinvolgimento di tutti i giocatori nel palleggio (tutti e cinque i centrali di difesa figurano tra i 2o giocatori di Serie A con il maggior tasso di partecipazione alla costruzione dal basso), la libertà posizionale concessa ai giocatori più creativi.

Nessuna squadra in Serie A possiede una idea di calcio tanto solida e strutturata quanto l’Atalanta. La spregiudicata attitudine al rischio, che poi è la ragione per cui ha una fase difensiva da metà classifica (42 gol subiti, uno in più della Fiorentina), la costante mentalità proattiva, lo sguardo sempre rivolto verso la metà campo avversaria, tanto con la palla quanto senza: tutte caratteristiche che in Italia troviamo con costanza e riproducibilità soltanto qui, tra Bergamo e Zingonia. Sono i presupposti filosofici necessari per il gioco offensivo di Gasperini, che porta alle 17 conclusioni tentate per partita, una quota che fa della Dea la seconda squadra che tira di più in Serie A; al 56% di possesso medio (terzo dato tra le venti squadre del campionato); a una media di oltre 22 palloni giocati nell’area avversaria in ogni gara (è un primato). E a proposito di rischio: in un’intervista dello scorso novembre, facendo risalire la genesi della sua difesa a tre a un vecchio Genoa-Juve, Gasperini lasciava intuire in maniera inequivocabile quale fosse la sua priorità sul campo: «Lasciai Burdisso e De Maio contro Tevez e Llorente: fecero un partitone. Guadagnavo un uomo per la manovra. Valeva la pena rischiare».

Un altro grande merito del tecnico piemontese, nel percorso che ha trasformato la sua Atalanta da sorpresa a solida realtà del nostro campionato, riguarda la sua capacità di offrire ai giocatori il miglior contesto per crescere. Da Zapata a Mancini, da Gómez a de Roon e Freuler, fino a Ilicic: tutti i giocatori più emblematici del nuovo corso – per non parlare di chi è andato via: Conti, Kessié, Caldara, Petagna – sono sbocciati, maturati o rinati sotto la guida di Gasperini. Che ha valorizzato le individualità attraverso il collettivo e, al contempo, ha dato lustro al collettivo attraverso le individualità. Un meccanismo non scontato, se si pensa a quanti sono i casi di club che competono per obiettivi prestigiosi ed hanno al loro interno giocatori dalle ottime potenzialità che non riescono ad esprimersi. Nell’Atalanta non succede, anzi, accade più spesso il contrario: che i singoli rendano più del loro effettivo valore.

Guardando da vicino i casi macroscopici, la crescita della rosa atalantina risulta evidente. In estate, Gasperini ha scelto Zapata (pagandolo profumatamente) e ne ha tirato fuori un attaccante da 26 reti in stagione. «In questa stagione ho fatto più gol grazie ai suoi metodi di lavoro, riesce a potenziare le mie qualità. […] Lui è fondamentale per noi», ha detto tre mesi fa il colombiano. Un anno fa ha scommesso su Ilicic, senza pretendere da lui ciò che non poteva garantirgli, lasciandolo libero di creare, di sbagliare,  persino di lamentarsi, e traendone i frutti. Ha trasformato Gómez in un attaccante da doppia cifra (raggiunta, sfiorata e raggiunta di nuovo nelle ultime tre stagioni), e al contempo in un regista offensivo: giovedì scorso contro la Fiorentina solo de Roon ha giocato più palloni di lui, 79 a 77. Una piccola, grande rivoluzione. Nella sua Atalanta, insomma, tutti i giocatori hanno trovato terreno fertile per sviluppare le loro qualità: Hateboer è riuscito a far dimenticare Conti dopo una stagione in chiaroscuro; Mancini ha dimostrato che in Serie A può starci eccome – e anche ad alti livelli. Eppure lo studio dei singoli restituisce solo in parte la dimensione di questa Atalanta: per capirla, qui sta la sua originalità, serve uno sguardo d’insieme, collettivo.

Se il modello del club bergamasco, quello di una società con storia e risorse modeste che si affaccia ai grandi palcoscenici facendo leva sulla qualità e sugli investimenti dal basso, sia ripetibile o meno su una scala diversa, è un interrogativo che serve porsi quando lo si paragona alle avversarie in lizza per il quarto posto. Ma limitandosi ad osservare le cose per come stanno, lasciando quindi sullo sfondo la prospettiva storica, quella che si presenta è una squadra motivata, in ottima salute psico-fisica e priva di grandi pressioni sulle spalle. Una squadra che conosce sé stessa, che ha idee precise e sa metterle in pratica senza che la propria prevedibilità finisca per danneggiarla. Una squadra che, nel solco di un biennio di crescita continua, ha già conquistato una finale di Coppa Italia, e che nel 2019 ha perso soltanto due volte. Se fosse anche troppo azzardato etichettare la Dea come favorita per la corsa al quarto posto, sicuramente non sarebbe corretto parlare di una sorpresa. Non lo è, o almeno: non lo è più.

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