Il sombrero con cui Sergio Busquets, nel secondo tempo della semifinale d’andata di Champions League tra Barcellona e Liverpool, ha evitato un pericoloso anticipo di James Milner al limite dell’area blaugrana rappresenta un’istantanea non solo della sua partita, ma della sua intera carriera. Per uno che ha costruito la sua imprescindibilità su un calcio essenziale, che concede poco o nulla al superfluo, all’eccessivo o al troppo vistoso, quel gesto significa tanto: più che un punto di rottura con il (suo) recente passato, è la dimostrazione del perché sia proprio lui il vero trait d’union tra due ere del Barca così diverse eppure così uguali tra loro, in una rappresentazione plastica del principio per cui “tutto cambia perché niente cambi”.
E c’entra poco che il secondo e ultimo dribbling di una serata cattedratica – 80 tocchi, 69 passaggi (91,3% di precisione), 3 palloni intercettati, altrettanti contrasti vinti – sia arrivato poco dopo, eludendo nella medesima zona di campo un nuovo tentativo d’anticipo del malcapitato Milner senza toccare il pallone, con una finta di corpo quasi banale nella sua semplicità, eppure fenomenale nella sua efficacia. Se è dai tempi di Cruyff che alla Masia si insegna che lo spazio può essere occupato, dominato e non per forza aggredito attraverso la lettura anticipata delle singole situazioni di gioco, allora appare evidente perché Luis Miguel Echegaray abbia scritto su Sports Illustrated che «Busquets ha giocato per cinque allenatori diversi, ma non è mai stato importante chi arrivasse perché, grazie a lui, ciascuno ha imparato a comprendere le caratteristiche di ogni singolo giocatore e la filosofia del Barça».
Una condizione che si è notevolmente accentuata nelle due stagioni in cui la proposta di Ernesto Valverde per un calcio più diretto e verticale ha portato ad un paradosso filosofico solo apparente: la minor ricerca del possesso palla (il 61% di questa stagione rappresenta il dato più basso dal 2011/2012) ha finito con il rendere ancora più centrale il ruolo di Busquets all’interno di un sistema in progressivo e costante mutamento, che però gira intorno e grazie a lui – in attesa che il “messicentrismo” sempre più esasperato degli ultimi anni faccia il suo corso naturale.
Non si tratta più, o non si tratta solo, dell’aderenza alla narrazione del deus ex machina essenziale e invisibile agli occhi – «Gioco in una posizione in cui è difficile fare notizia: non segno molto e non dribblo tantissimo, ma mi sento ancora molto importante per la squadra», ha detto Sergio –, ma di una superiore capacità di adattamento al mondo che cambia, al gioco che cambia. Anche se si tratta del gioco del Barcellona. In una recente intervista, lo stesso Busquets ha spiegato che il calcio «è molto mutato rispetto a dieci anni fa, e allora noi abbiamo dovuto adattarci: oggi i nostri avversari sono molto più preparati, sia tatticamente che fisicamente, pratichiamo uno sport molto più dispendioso rispetto a un decennio fa».
Ed è proprio questa forma di darwinismo applicata al pallone che rende Busquets un giocatore unico, irripetibile e, per questo, probabilmente non sostituibile nel futuro a medio-lungo termine, forse anche più dei “gemelli” Xavi e Iniesta. Mentre questi ultimi sono figli di un’identità riconosciuta e riconoscibile, quindi forse anche più facile da tramandare, “Busi” è la personificazione del concetto stesso di transizione, del cambiamento che avviene mentre si fa, dell’applicazione al contesto generale di quell’intuizione preventiva che, sul terreno di gioco, gli consente di essere costantemente due passaggi avanti agli altri, anche nel calcio fisicamente sovradimensionato del XXI secolo. Anzi, soprattutto per quel tipo di gioco, che Busquets ha contribuito a rimodulare più volte, per quegli adeguamenti che col tempo sono risultati non più rimandabili. Lo ha spiegato lui stesso: «Dai tempi di Johan Cruyff, e successivamente di Pep Guardiola, penso che il Barcellona sia cambiato molto, restando comunque, se non il migliore, almeno tra i primi tre club al mondo. Basta guardare al percorso fatto, a tutto ciò che è stato vinto, ma soprattutto al fatto che tutti i giocatori passati e presenti abbiano mantenuto un certo livello di coerenza nell’interpretazione del gioco».
C’è poi un aspetto paradossale, secondario ma non marginale, legato alla personalissima interpretazione che Busquets dà del gioco in senso assoluto. È stato ed è il centro tecnico ed emotivo della squadra che più ha rubato gli occhi nell’ultimo ventennio, e l’ha fatto senza rubare gli occhi a sua volta. È una questione di caratteristiche, di indole calcistica, di intelligenza, persino di altruismo. «Se si guarda una partita, Busquets quasi non si vede. Ma se si guarda Busquets si vede il calcio nella sua totalità», dichiarò un giorno Vicente del Bosque. Allo stesso modo, Guardiola lo definì come un giocatore che «è in grado di fare tutto per quelli che gli gravitano intorno. Se c’è un problema, lui è lì per risolverlo». Queste parole furono pronunciate da Pep dopo appena tre giorni di allenamento di Sergio con la prima squadra del Barcellona.
A 31 anni da compiere il prossimo luglio, Busquets è un giocatore all’apice del suo sviluppo psico-fisico. È totalmente padrone dei suoi mezzi tecnici, è in grado di dominare una partita attraverso il suo minimalismo, eppure la sua presenza è decisiva. Il suo è un calcio netto, spigoloso nella teoria e nella pratica: lo spazio va occupato e non subito; l’avversario va aggirato attraverso lo scambio effettuato sulla linea di passaggio più semplice ed immediata, non per forza dribblato; non è importante correre tanto, ma correre bene, e sulla distanza giusta; lento (ma solo in apparenza) vuol dire preciso, preciso vuol dire veloce, veloce vuol dire essere sempre al posto giusto nel momento giusto, nel suo caso dove è più facile creare le prime connessioni tra centrocampo e attacco in fase di risalita del campo; il tackle si porta solo in casi di estrema necessità ed è comunque la conseguenza di un errato posizionamento iniziale, che va corretto implementando una migliore capacità di read and react. Tutto questo è calato in una sorta di flusso di coscienza collettiva di cui lui stesso è “portavoce” in campo e fuori, anche in quella delicatissima fase di rilettura meno dogmatica e maggiormente prospettica, per non dire utilitaristica, di quei principi che hanno fatto la fortuna del Barcellona e della Nazionale spagnola.
Busquets ha riscritto e riscrive continuamente il concetto di imprescindibilità, in ogni modo possibile. Lo ha fatto quando c’era da essere la trave portante del calcio di Guardiola e di Del Bosque in Nazionale, ora sta accompagnando il Barça e la Roja in un’era leggermente diversa. Eppure lui è sempre al centro di tutto: non a caso ha saltato appena 20 gare tra campionato e Champions League nelle ultime 4 stagioni – considerando infortuni, squalifiche e scelte tecniche dei suoi allenatori. Del resto, non si può affrontare e veicolare il cambiamento senza Busquets, ovvero il calciatore che ha l’ha intuito, compreso e accettato prima degli altri. Che è sempre davanti agli altri, con la testa e quindi con il gioco.