Si può vincere con i giovani?

L'Ajax e altri club europei spiegano che è una strada possibile.

Appena sotto la clamorosa rimonta del Liverpool contro il Barcellona, le vittorie dell’Ajax sul Real Madrid e sulla Juventus sono state i risultati più sorprendenti della Champions League 2018/19. Il successo del club olandese era difficilmente pronosticabile prima della fase a eliminazione diretta, e si è esteso alla semifinale d’andata in casa del Tottenham. Si tratta di un (doppio) avvenimento con un grande valore simbolico, perché ci dice che una squadra composta di giocatori giovanissimi (età media di 24,1 anni, la più bassa tra quelle che hanno superato i gironi) può battere una squadra di veterani, anche quando la posta in gioco è molto alta. Inoltre, il percorso di ten Hag e dei suoi ragazzi ci dice che, nonostante la mancanza di esperienza, la predetta squadra di giovani di talento può essere competitiva ad alti livelli. Ai massimi livelli.

L’intera campagna europea dell’Ajax – che dall’inizio della stagione ha affrontato Bayern Monaco, Real Madrid, Juventus e Tottenham perdendo soltanto una volta in 7 scontri contro avversari teoricamente superiori – è in qualche modo sintomatica di come si possa arrivare a costruire una formazione competitiva pur non potendo disporre di tutto il know-how (inteso come esperienza, vissuto, abitudine a certi palcoscenici) di formazioni che alle fasi finali della Champions ci arrivano tutti gli anni. La stagione degli olandesi (che non nascono certo oggi: due anni fa, praticamente con la stessa rosa, erano in finale di Europa League) lascia intuire una regola generale: il talento e la qualità tecnica prescindono dall’esperienza, e se incanalati sulla strada giusta possono essere il motore di una squadra in grado di tenere testa alle migliori formazioni del panorama mondiale.

L’Ajax allenato da Erik ten Hag ha raggiunto picchi di rendimento come quello dello Juventus Stadium e del Bernabéu perché ha alle spalle un club con una cultura e una filiera di produzione del talento solida e stratificata: un percorso di formazione che parte dal modello delle Academy e si concretizza nell’identità tattica portata in campo settimana dopo settimana, dalle formazioni giovanili fino alla prima squadra. Ma l’Ajax non è un caso unico in Europa. Quello del club olandese è un discorso che, in misura e modalità differenti, vale anche per Borussia Dortmund, Tottenham, Porto, Benfica, per fare degli esempi virtuosi: società che hanno costruito formazioni competitive ad altissimi livelli, riuscendo a riprodurre per lunghi periodi di tempo i buoni risultati ottenuti, pur non avendo i fondi pressoché illimitati dei top club europei. E per riuscirci hanno scelto di puntare forte sul talento ancora plasmabile di giocatori giovani e inesperti.

Una scelta che guarda al futuro, coraggiosa, ma in un certo senso anche una scelta residuale, quasi obbligata: la maturità e l’esperienza di chi ha collezionato decine di presenze nei tornei più importanti sono caratteristiche che non si trovano facilmente sul mercato. O meglio, non si trovano ai prezzi che possono permettersi società fuori dalla cerchia composta da Paris Saint-Germain, Barcellona, Juventus, Manchester City, tra le altre. Tutte le altre devono adattarsi, cercare nel sommerso del mercato il talento da costruire e sviluppare, quello che renderà competitiva la squadra per le stagioni a venire.

Modelli virtuosi come quello dell’Ajax, o di Borussia, Tottenham e Benfica, sono difficili da costruire. E ancora più difficili da importare dove non ci sono. Nella conferenza stampa alla vigilia della sfida di ritorno contro l’Arsenal i giornalisti hanno chiesto a Carlo Ancelotti se ci fosse la possibilità di ricreare il “sistema Ajax” a Napoli. «Siamo tutti piacevolmente colpiti da questo Ajax oggi», ha detto Ancelotti, «una squadra che ha sempre sfornato grandi giocatori. Ma in Italia pensare a una programmazione lunga non è permesso perché l’opinione pubblica ti chiede sempre il risultato».

Una risposta che apre ad una doppia considerazione. La prima, più breve: l’Ajax non vinceva nulla da cinque anni, ma ha saputo aspettare e costruire, non ha raso al suolo il suo progetto  dopo le prime sconfitte e da ormai tre anni ha una rosa assolutamente competitiva ad alto livello. Ed ecco la seconda, più articolata: l’Italia non accetta l’attesa, spiega Ancelotti. Ma la risposta del tecnico del Napoli sembrerebbe vera solo a metà per l’Italia (calcistica) di oggi. È vero che tra le squadre di vertice solo l’Atalanta segue una politica dichiaratamente orientata sui giovani, producendo in casa molti dei suoi talenti, o acquistandoli prima della concorrenza per poi valorizzarli. Le rose delle quattro squadre che precedono i bergamaschi hanno tutte un’età media che supera i 27 anni, e non riescono/non possono a programmare a lunga scadenza.

Bisogna scorrere la classifica fino a metà per trovare altri progetti che scelgono di puntare sui giovani. Ci prova la Fiorentina, ad esempio: i dirigenti della Viola hanno costruito il roster più giovane dei cinque maggiori campionati europei (poco al di sopra dei 23 anni l’età media). E anche se i risultati non li stanno premiando , la stagione ha lanciato alcuni impulsi positivi che disegnano traiettorie interessanti per l’immediato futuro. La formazione titolare ha in Milenkovic e Chiesa i suoi leader tecnici, e nei pali un portiere giovanissimo come Lafont (20 anni compiuti a gennaio). Tutti asset per la Fiorentina di domani: se non dovessero diventare lo zoccolo duro della squadra che nei prossimi anni vorrebbe coltivare l’ambizione di un posto in Europa, allora saranno fondamentali pedine sul mercato, dove il loro prezzo sarà un multiplo della cifra spesa dalla dirigenza per portarli a Firenze.

I tre giocatori più promettenti della Fiorentina  sono anche il simbolo di una piccola rivoluzione che sta già avvenendo nell’intero movimento calcistico italiano, quella che aiuterebbe nell’opera di debunking dell’affermazione di Ancelotti. Per necessità o per convinzione, questa stagione potrebbe rappresentare il primo mattoncino di un’inversione di tendenza per il campionato italiano, che sembrerebbe più orientato a fare affidamento sui giovani. La Serie A, infatti, è seconda tra le cinque maggiori leghe europee per numero di giocatori under 21 che hanno superato i 1000 minuti di gioco (sono 28 in tutto). Solo la Ligue 1 francese fa meglio (con 29), seguono Bundesliga (26), Liga (14) e Premier League (12).

Tuttavia, il mero dato statistico è ancora lontano dal diventare un trend virtuoso. Semmai può essere letto come una dichiarazione d’intenti da parte di chi prova a colmare il gap, in termini di competitività, rispetto a società più strutturate e ricche. Competitività, però, non va intesa necessariamente come sinonimo di trofei, di vittorie. Anzi, soprattutto ai massimi livelli del calcio europeo, specie nelle competizioni internazionali, la vittoria è inevitabilmente episodica, sempre e comunque condizionata da eventi non programmabili. E quando si arriva ad un passo dal sollevare la coppa di solito il peso dell’esperienza inizia a farsi sentire. La competitività, invece, si costruisce passo dopo passo, con lavoro e programmazione. È quella per cui hanno lavorato Tottenham, Ajax, Borussia e tutte quelle società che da anni sfidano i colossi del calcio europeo pur non avendo gli stessi mezzi. E che a volte finiscono per vincere, oppure per andarci davvero vicino.

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