Joaquín Correa è cambiato

L'argentino ha trasformato il suo gioco e quello della Lazio.

Dopo quella realizzata in semifinale contro il Milan, la rete con cui Joaquín Correa ha consegnato alla Lazio la settima Coppa Italia della sua storia è stata anche la chiusura di un cerchio. La stagione 2018/19 dell’ex Siviglia era idealmente iniziata il 25 novembre 2018, con il gol nel recupero della sfida di campionato contro i rossoneri. Da lì è proseguita in crescendo e ci ha detto chi è e cosa potrà diventare il giocatore tucumano, finalmente libero dalla pressione di dover dimostrare quali e quanto ampi siano i suoi margini di miglioramento. La progressione nel finale di Lazio-Atalanta e la rete contro il Bologna, pochi giorni dopo, hanno mostrato una dimensione fisica fuori dal comune, al servizio di una grande tecnica in velocità. Qualità da giocatore finalmente compiuto.

E non si tratta, banalmente, dal massimo in carriera di gol (9) e assist (10) realizzato nonostante un minutaggio relativo – poco sopra i 2500’ per 44 presenze complessive, molte delle quali da subentrato, soprattutto a inizio anno –, ma della percezione che ormai si ha di Correa ogni volta che è in campo: svincolatosi dall’idea di dover bruciare le tappe a tutti i costi (anche se è appena alla quarta stagione in assoluto nel calcio europeo dopo aver esordito diciassettenne nell’Estudiantes), l’argentino ha trovato la sua dimensione ideale, riesce a esprimersi in un contesto di squadra, sembra essersi ripulito da quegli eccessi tipici del talento indolente che stavano per costargli la solita etichetta di incompiuto. E il fatto che Simone Inzaghi, nonostante qualche incomprensione, si sia affidato a lui nella serata più importante spiega come anche il tecnico della Lazio si sia reso conto di quanto Correa stesse migliorando l’interazione con la squadra, secondo l’adagio per cui la continuità di un impiego costante può soltanto giovare a un calciatore con queste caratteristiche tecniche, fisiche, psicologiche.

«Lo abbiamo voluto molto. Ha tanta qualità e ottime doti fisiche. Salta l’uomo ed è dotato di forza, ci sarà sicuramente una mano». Così Simone Inzaghi aveva commentato a settembre l’acquisto di Correa, di fatto anticipando ciò che sta alla base del gol del 2-0 all’Atalanta

Correa è arrivato alla Lazio come personaggio in cerca d’autore, un giocatore dal grande potenziale parzialmente disperso nel cantiere di Siviglia – 7 gol e 4 assist in 47 presenze, con quattro cambi di allenatore in due anni e una trequarti offensiva da dividere con Vázquez, Kiyotake, Sarabia, Nasri e Ganso. Ha dovuto destrutturare il suo gioco per adattarsi alla Lazio, una squadra totalmente diversa da quella andalusa, rimodulando la contro-intuitività delle sue iniziative personali per metterle al servizio di un collettivo costruito sulle ripetitività di situazioni codificate invece che sull’istintività più pura.

Per questo, fino a dicembre inoltrato, pur essendo andato a segno in entrambe le occasioni in cui era partito titolare (contro Udinese in campionato e Marsiglia in Europa League), il suo ruolo all’interno della rosa biancoceleste era quello di “supersub” che portasse le necessarie variazioni sul tema tattico a gara in corso.Una condizione dovuta anche alla multidimensionalità del gioco di Correa, figlia dei trascorsi da esterno offensivo e della capacità di muoversi tra le linee alla ricerca dello spazio. L’ex Siviglia ha garantito al suo allenatore un set di movimenti ampio, quindi una certa flessibilità d’utilizzo, e allora Inzaghi l’ha impiegato indifferentemente come primo cambio di Luis Alberto o come seconda punta al fianco di Immobile o, ancora, come trequartista nelle situazioni di emergenza che hanno richiesto l’utilizzo del 4-3-1-2.

Tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, però, la necessità di migliorare l’efficacia di squadra negli ultimi trenta metri – a metà marzo 2019, dopo 27 partite, la Lazio aveva segnato ben 23 gol in meno rispetto allo stesso periodo del 2017/2018 –, hanno spinto l’allenatore a impiegare stabilmente El Tucu per migliorare il raccordo tra centrocampo e attacco. Il nuovo assetto prevedeva che Lucas Leiva non soffrisse eccessivamente in fase passiva, e che aiutasse Milinkovic-Savic e Luis Alberto a uscire parzialmente dal calo di rendimento che ne aveva condizionato la prima parte di stagione. Una scelta che ha subito pagato ampi dividendi, visto che la manovra è diventata immediatamente più organica, fluida e imprevedibile.

Con il nuovo sistema, la Lazio ha potuto sfruttare al massimo tutto la qualità offensiva a disposizione grazie al perfetto incastro delle caratteristiche di questo inusuale terzetto: Luis Alberto è il giocatore di trama e ordito, che anticipa i tempi di gioco grazie alla sua capacità di lettura delle singole situazioni in fase di costruzione e rifinitura; Milinkovic-Savic è il centrocampista box to box deputato a inserirsi senza palla sfruttando la sua debordante fisicità, e a fungere da riferimento quando si rende necessario ovviare alle fasi di pressing avversario con i lanci a scavalcare il centrocampo; Correa è la mente creativa, in grado di creare connessioni e combinazioni complesse, di generare situazioni di superiorità numerica grazie alla sua abilità nell’uno contro uno: con 3,6 dribbling tentati e 2,1 riusciti di media, è uno dei migliori giocatori del campionato nella specialità in relazione ai minuti giocati. Senza contare che i miglioramenti sono parsi evidenti anche in fase di risalita rapida del campo: aver aggiunto un giocatore in grado di “strappare” palla al piede a due individualità in grado di giocare (anche) spalle alla porta, ha permesso alla Lazio di diventare una squadra ancor più diretta e verticale di quanto già non fosse nel recente passato.

Il 4-1 rifilato al Parma lo scorso 17 marzo ha mostrato come l’inserimento in pianta stabile di Correa nell’undici titolare abbia giovato alla Lazio nella seconda parte di stagione: in occasione dell’1-0 di Marusic è un suo tocco di prima a permettere a Milinkovic-Savic di percorrere la traccia in verticale prodromica all’ultimo tocco decisivo in profondità; il 3-0 di Luis Alberto, invece, arriva al termine di una combinazione rapida al limite dell’area in cui tutti e tre i trequartisti biancocelesti riescono a toccare il pallone

A proposito del dribbling: proprio la mutazione del suo trademark più riconosciuto e riconoscibile mostra come Correa sia maturato insieme alla squadra. Durante la sua breve esperienza a Siviglia, Vincenzo Montella era solito utilizzarlo come esterno sinistro nel 4-2-3-1, sovraccaricando il lato opposto in modo da favorire continuativamente delle situazioni di isolamento nella sua zona; da quando è a Roma, invece, l’argentino ha dovuto imparare ad usare la sua abilità nel saltare il diretto marcatore come arma associativa che desse maggiore velocità agli scambi con i compagni di reparto, come espediente per eludere la linea di pressione avversaria. Da gesto tecnico elegante ma molto spesso fine a se stesso, il dribbling di Correa è diventato il primo strumento di interazione con i compagni, creando quegli spazi decisivi allo sviluppo della manovra che ad inizio stagione non potevano essere individuati, esplorati, sfruttati. «All’inizio del campionato, quando le cose non andavano molto bene sia per me che per la squadra, Inzaghi mi ha fatto capire quanto fossi importante e mi ha dato una fiducia che non sempre ho trovato in carriera», ha dichiarato Joaquín a margine della notte più importante della sua carriera. La stessa notte che ha sancito come sia riuscito a cambiare la stagione della Lazio dopo aver cambiato se stesso.

Immagini Getty Images