Il Roland Garros è una battaglia epica

A Parigi è cambiato tutto, ma il passato mitico del torneo rimane.

Si racconta che la terra battuta, prima che una superficie di gioco, sia stata utilizzata come protezione del suolo originario del tennis, l’erba. L’incontro tra il manto verde e il mattone tritato, che è tuttora l’ingrediente principale della cosiddetta terra rossa, avvenne nel 1880 sui campi del Beau Site, un hotel di Cannes in cui erano ospiti abituali i gemelli Ernest e William Renshaw, vincitori di ben cinque titoli in doppio a Wimbledon, oltre che di uno in singolare per Ernest e addirittura sette per William, superato solo da Roger Federer nel 2017 quando ha vinto il suo ottavo trofeo londinese.

Durante i loro soggiorni al Beau Site i fratelli Renshaw convinsero il proprietario a ricoprire il prato arso dal sole con decine di vasi sbriciolati che acquistarono a Vallauris, una cittadina che dista neanche dieci chilometri da Cannes, famosa per le sue ceramiche. La polvere rossa avrebbe protetto i fili d’erba, sollevando l’albergo dal dover salvare il decoro dei campi erbosi, missione impossibile sotto la calura estiva del Mediterraneo.

 

Se in tutte le storie del tennis si dà credito ai gemelli britannici per l’invenzione, soltanto nel recente The Circuit: A Tennis Odyssey, libro del poeta e amante di tennis Rowan Ricardo Phillips, conosciamo Georges Henri Gougoltz, il padrone del Beau Site che permise ai Renshaw di trasformare i campi del suo albergo. Gougoltz fu travolto dai debiti e morì suicida nel 1903, qualche anno dopo che i due fratelli si erano portati il loro tennis da socialite poco più in là sulla costa, a Nizza. Lo sport della racchetta avrebbe poco dopo trovato casa a Montecarlo, dove il tennis rivierasco è rimasto sino ai giorni nostri.

Il Principato è la prima tappa della stagione europea sulla terra, dove dal cemento di California e Florida passiamo al Centre Court con vista mare e ristorante affacciato sul campo. A Monte Carlo il tennis torna a evocare il proprio passato aristocratico, ricoprendo con il lusso il duro cammino preparatorio a cui i giocatori si sottopongono per arrivare, meno di due mesi dopo, al Roland Garros di Parigi ovvero il tempio del rosso. Prima di giungere al Bois de Boulogne gli altri due grandi appuntamenti sono il torneo di Madrid, con la sua fredda e impersonale Caja Mágica tutta di metallo, e poi un altro tuffo nel passato con i marmi di Roma. Attorno un rosario di tornei minori per giocatori di classifica medio-bassa: Marrakech, Barcellona, Budapest, Estoril. La stagione sul rosso ha anche propaggini prima e dopo il suo cuore europeo primaverile, con alcuni tornei in Sud America a febbraio e una coda nel Vecchio Continente dopo Wimbledon, a elargire un po’ di montepremi a chi vuole fuggire dal gioco sul duro e a quelli che sull’erba non hanno raccolto, e devono puntellare la classifica prima di scivolare nel finale di stagione.

Pur vivendo in un’epoca in cui tutti parlano di quanto le superfici del tennis siano state uniformate e ormai chiedano tutte lo stesso gioco fatto di potenza, molto fondocampo e pochissime discese a rete, la terra rossa è sempre stata associata a un tennis di resistenza, pazienza, sofferenza. La palla rimbalza un po’ più alta e non schizza, il terreno permette di scivolare e allora gli scambi si allungano, l’intraprendenza viene frustrata dall’avversario che arriva su palle che sull’erba sarebbero volate oltre la sua racchetta. Il corpo e la mente finiscono in un abbraccio mortale, dove fiato e lucidità si prosciugano a vicenda. Meno spirito avventuroso tra le linee, più guerra di posizione.

Sarà per questo che gli americani, tradizionalmente legati a un gioco veloce, non hanno mai amato molto la terra rossa, chiamata affettuosamente dirt, su cui in patria giocano uno o due tornei in tutto l’anno. Dirt esprime perfettamente le sabbie mobili del gioco d’attrito terraiolo, e quando a fine maggio arriverà Parigi lo vedremo in tutta la sua brutalità, magari sotto il sole, magari sotto la pioggia, con dieci oppure trenta gradi di temperatura; in più da quest’anno il Roland Garros sarà l’ultimo tra i tornei del Grande Slam a richiedere ancora il long set per il parziale decisivo, senza tie-break. Persino Wimbledon da quest’anno l’ha introdotto, ma a 12 giochi pari invece che sul 6-6.

Anche se l’anziano Court Philippe Chatrier è stato quasi completamente ricostruito dopo 90 anni di vita e da quest’anno ci sarà anche un nuovo stadio avvolto dalle serre del vicino orto botanico d’Auteil, il Roland Garros rimane comunque un torneo con l’aura di un passato mitico, un evento diverso da qualsiasi altro. Persino le righe dei campi sono particolari, fatte con spessa vernice bianca applicata in dei solchi al posto delle più consuete strisce di nastro chiodato. Forse quel senso di epica battaglia che si respira in ogni incontro viene dal contrasto tra la crudele eleganza della cornice francese e lo scontro frontale che richiede il tennis lì giocato: se a Wimbledon si può vincere da spadaccini, a Parigi lo si deve fare da pugili.

Mary Carillo, ex tennista americana ora reporter televisiva, ha descritto il tennis su terra come una scuola di vita, quella che vorrebbe per i suoi figli: «Vorrei che vivessero come se stessero giocando sulla terra», ha scritto, «per riuscire a capire che non tutti pensano nello stesso modo; per scoprire come il terreno può muoversi sotto ai piedi, per capire l’importanza di essere duttili e pazienti. Per imparare che il pensiero laterale può dare grandi frutti, e considerare ogni aspetto dei propri problemi; e capire che le piccole cose sono sì difficili da fare ma che tutto, proprio tutto, alla fine conta». Certo che il tennis è una palestra di vita tanto bella quanto impervia: basta avere il fiato e le gambe per continuare a correre in ogni momento, mentre si cerca freneticamente di costruire un origami tra le dita sudate, per lanciarlo e sperare che cada proprio in quel centimetro di terra laggiù a venti metri da te.

 

Dal numero 27 di Undici
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