Guida essenziale alla Copa América

Il Brasile favorito anche senza Neymar, gli incubi di Argentina e Cile, tutte le outsider.

“Brasil, decime que se siente, tener en casa tu papá”. Più che un coro, cantato in loop dalla macchia argentina che in quei giorni stava invadendo Rio de Janeiro, è un riassunto di cos’è stato il Mondiale 2014 per la Seleção. Un enorme cortocircuito, per cui l’intero paese, sotto shock dopo la più potente umiliazione sportiva subita dai tempi del Maracanazo, si è ritrovato costretto a fare una scelta dolorosa per la finale, a tifare accanitamente quella stessa Germania che soltanto pochi giorni prima l’aveva ridicolizzato nella storica notte dello stadio Mineirão. La grandezza dei “gigantes por natureza” sbriciolata in un fotogramma. Il significato della Copa América che sta per iniziare va cercato dentro quel baratro, passando per la rigenerazione dei cinque anni successivi. Oggi il Brasile torna a ospitare un grande torneo, ma soprattutto torna ad essere il Brasile, la squadra protagonista, da cui dipende la storia di una competizione.

 

Anche senza Neymar, a cui l’infortunio contro il Qatar ha tolto l’ennesima sliding door di una carriera finora un po’ crudele, il valore tecnico della rosa a disposizione di Tite è sovradimensionato rispetto alle rivali. Il Mondiale in Russia, nonostante l’eliminazione ai quarti di finale contro il Belgio, ha messo a fuoco le certezze di un progetto lungo tre anni: la Seleção è il miglior compromesso tra la necessità genetica dei brasiliani di dominare tecnicamente le partite e una ricerca più europea della solidità, pur lontana dalla deriva estremizzata dal ct precedente, Dunga. È una squadra che attacca sempre con quasi tutti gli effettivi, con le coppie di “ali disequilibranti”, come le chiama lo stesso allenatore, e con terzini ipertecnici che alzano il ritmo e aprono gli spazi per il dinamismo, l’estro e la presenza offensiva degli interni. Soprattutto di Coutinho, il vero insostituibile del gruppo, un giocatore che quando torna alle dipendenze di Tite diventa un’arma potentissima, indipendentemente dallo scarso rendimento con il Barcellona.

Le convocazioni ricalcano questo modello di calcio e sono il frutto anche di un adeguato ricambio, a dispetto di chi accusa Tite di pensare solo al proprio presente e non al futuro della Seleçao. Ci sono Arthur Melo ed Éverton, ma anche i tre migliori prodotti della nidiata dei ’97 sbocciati al Sudamericano Sub-20 di due anni fa, diventati giocatori di livello europeo: David Neres, Richarlison e Lucas Paquetá. Ne hanno fatto le spese Douglas Costa e Paulinho, che restano a casa insieme a Fabinho e Marcelo: le esclusioni del centrocampista del Liverpool e del terzino del Real Madrid sono state le decisioni più controverse di Tite. Il Brasile giocherà per chiudere un cerchio aperto con il trauma del Mineirazo, e lo farà in casa, da grande favorita in una competizione che, nelle ultime tre edizioni, ha sempre visto smentire un pronostico apparentemente scritto: la pressione, forse, è l’avversario più micidiale.

Dopo l’eliminazione nel Mondiale 2018, per il Brasile solo risultati utili: 9 vittorie, 1 pareggio

Quella stessa pressione che ha una tradizione drammaticamente buona contro l’Argentina, quest’anno piuttosto defilata per sostenere il dualismo con l’Auriverde. La panchina della Selección, in questo momento storico, è un guaio da cui chiunque – vedi Simeone, Pochettino e Gallardo – preferisce stare alla larga. Al punto da spingere l’AFA, la Federcalcio di Buenos Aires, ad affidare la preparazione della Copa a Lionel Scaloni, inizialmente commissario tecnico ad interim. «Voglio una squadra solida, che sappia alzare il ritmo e attaccare in modo diretto, senza troppe ricercatezze tattiche» ha detto di recente il tecnico rosarino a La Tercera, dimostrando di avere in testa un’idea tattica precisa. Per diversi motivi, però, l’ex difensore di Deportivo, Lazio e Atalanta non è riuscito a sviluppare in modo stabile un’Argentina vicina ai suoi desideri: in un anno da ct per un totale di 9 partite, Scaloni ha chiamato ben 53 giocatori, facendone debuttare 24. Scaloni ha provato diversi moduli, decidendo di cancellare la difesa a tre soltanto dopo la settima gara, la pesante sconfitta con il Venezuela per 3-1, la notte del ritorno in Nazionale di Messi.

Ogni minuto in campo è cruciale, nella ricerca dell’equilibrio: se durante la sfida alla Vinotinto l’Argentina ha giocato con il solito schema Messi-più-altri-dieci, contro il Nicaragua si è finalmente visto lo spiraglio concreto di qualcosa di diverso. Ad esempio la tecnica in movimento di Giovani Lo Celso, libero di sganciarsi in avanti, di improvvisare, di interpretare il gioco con creatività e intelligenza, di associarsi con Leo e, soprattutto, di rompere la sua solitudine. Oltre a quello sul campo, Scaloni sta compiendo un primo lavoro di ricambio preziosissimo, sta puntando con decisione su quei giocatori nati intorno alla metà degli anni Novanta e rimasti finora nell’ombra tecnica ed emotiva dell’ultima “generación dorada” del calcio argentino. Il simbolo di questa tendenza è Leandro Paredes, un anno fa lasciato a casa da Sampaoli a beneficio di Enzo Pérez. Oggi è il più utilizzato da Scaloni. Insieme a lui Dybala, lo stesso Lo Celso, Lautaro Martínez ed Exequiel Palacios, che non andrà in Brasile a causa di un infortunio. Scaloni ha accettato l’eterna sfida dell’Argentina con l’intento di lasciare il segno, ha deciso di chiamare giocatori da responsabilizzare, che non si potevano più aspettare. In conferenza stampa, ha dichiarato: «Potevo scegliere tra Gabriel Mercado e Juan Foyth, e ho optato per Foyth. Se non ora, quando?». È un modo per rispondere alle solite difficoltà strutturali, alle circostanze surreali, alla pressione incalcolabile, alla dipendenza emotiva da Messi. Che, insieme ad Agüero e Di María – alla loro ultima occasione, l’ennesima –, è l’unico vero reduce di questi ultimi, durissimi anni.

Per Lionel Messi, in Copa América, 21 partite e 8 reti: il rendimento “peggiore” tra tutte le competizioni che ha affrontato con l’Argentina

Se l’Argentina resta un’entità schizofrenica e imprevedibile, l’Uruguay, al contrario, basa la propria competitività sulla stabilità. Óscar Washington Tabárez, riguardo le convocazioni, ha sempre preferito privilegiare un gruppo coeso, umanamente armonioso, così ristretto da sembrare esclusivo, piuttosto che inseguire i periodi di forma dei singoli. In tredici anni, infatti, il Maestro ha permesso a leader e volti nuovi di avvicendarsi in maniera graduale, senza mai mutare lo spirito dell’inalterabile “familia celeste”. Negli ultimi tempi questo ricambio silenzioso sta lentamente trasformando la squadra, pur lasciandone intatta l’anima: quella che fino a poco più di due anni fa era la Nazionale dei guerrieri, degli Arévalo Ríos e dei “Tata” González, ora è una squadra giovane, che affianca alla garra un’enorme qualità tecnica e un maggior numero di soluzioni offensive. In Russia si erano aggiunti al blocco storico tre potenziali pilastri per il futuro: Rodrigo Bentancur, Lucas Torreira e Nahitan Nández. Oggi tocca a Federico Valverde, Gastón Pereiro e Marcelo Saracchi. Tabárez continua a mescolare gradualmente il futuro con il presente, costruendo senza fretta un ponte tra la generazione di Godín e Suárez e quella che sta per sbocciare. È una Celeste estremamente competitiva, che torna in Brasile con argomenti ben più validi della semplice mistica del Maracanazo.

La stabilità è l’arma più importante anche per altre due candidate al ruolo di sorpresa del torneo, Perù e Venezuela – inserite nello stesso girone con Brasile e Bolivia. Per la Blanquirroja, reduce da un Mondiale breve ma fondamentale, potrebbe essere l’ultimo atto del brillante ciclo di Ricardo Gareca: la squadra del “Tigre” ha talento, organizzazione ed è trascinata dal giocatore più forte e rappresentativo –  Cubillas permettendo – della storia del Perù, quel Paolo Guerrero, a cui mancano 7 reti per diventare il miglior marcatore di sempre in Copa. La Vinotinto che andrà in Brasile è figlia di un percorso di sviluppo calcistico che la terra del béisbol sta affrontando dai tempi della Copa América 2007 giocata in casa: il vero cambio di passo è arrivato negli ultimi tre anni sotto la guida di Rafael Dudamel, che ha costruito un’identità tattica solida e verticale, ha plasmato il proprio ciclo a partire dalle sorprendenti selezioni giovanili e, soprattutto, ha abbattuto ogni complesso di inferiorità con il lavoro e la programmazione. «Non eravamo la Cenerentola del calcio, semplicemente eravamo impreparati per il livello internazionale», ha spiegato di recente Dudamel.

Suarez è arrivato a 107 presenze con la maglia dell’Uruguay, ma soltanto 6 in Copa América

Eppure sarà la Copa América dell’imprevedibilità: 6 allenatori su 10 – tralasciando le “invitate” Giappone e Qatar – guideranno per la prima volta in Brasile le rispettive selezioni in una partita ufficiale; tra questi, 4 hanno ottenuto l’incarico nel 2019. Come Carlos Queiroz, tecnico della Colombia soltanto da febbraio, che ha composto una lista dei convocati non troppo dissimile dall’ultima dell’era Pekerman. Il guru portoghese ha sfruttato i primi mesi per dare una scossa, introducendo il proprio metodo di lavoro e instaurando un buon rapporto con l’ambiente. «Spero di poter vincere la Copa, il secondo posto non fa per me», ha detto per sonare la carica, in attesa di poter iniziare a pianificare sul campo la propria Colombia in vista del Mondiale in Qatar.

Ha già le idee chiare, invece, Hernán Darío Gómez, tornato sulla panchina dell’Ecuador dopo il periodo tra 1999 e il 2004. El Bolillo sogna una squadra aggressiva, dichiaratamente ispirata al Liverpool di Klopp, assemblata con elementi esperti e funzionali e lasciando a casa – tra mille polemiche – alcuni dei giocatori più in forma del campionato locale. Il ciclo nascente più interessante è però quello intrapreso dal Paraguay, che nonostante le difficoltà degli ultimi anni sta cercando di alzare l’asticella delle proprie ambizioni puntando tutto su Eduardo Berizzo. Un tecnico di buona reputazione europea, argentino, formatosi in Cile, ma soprattutto un bielsista. El Toto ha iniziato fin da subito a imprimere la propria idea di calcio su gruppo di calciatori dinamici e tecnici: costruzione bassa, gioco di possesso, intensità nel recupero palla, tutti concetti innovativi rispetto alle ultime deludenti versioni dell’Albirroja. I giocatori, catturati dalla personalità dell’argentino, parlano già in maniera entusiasta di questo nuovo corso, segno che il terreno per la contaminazione è fertile. L’esperienza del Cile, che sulla base della stessa filosofia calcistica ha trovato un’identità e un rendimento irripetibile, è percorso cui aspirare.

Con 34 gol segnati Radamel Falcao è il miglior marcatore nella storia della Colombia. Chi potrebbe fargli concorrenza è James, 22 reti e 5 anni in meno

In tre anni, nonostante ciò, di quella meravigliosa Roja non sono rimaste che le ceneri. Dopo lo shock della mancata qualificazione a Russia 2018, i vertici del calcio cileno hanno affidato il difficile compito di aprire un nuovo ciclo a Reinaldo Rueda, ma il suo incarico si è immediatamente trasformato in un incubo. Abbandonato dalla Federazione ai primi risultati negativi, Rueda – secondo la stampa locale – si sarebbe ritrovato da solo a gestire uno spogliatoio spaccato a metà: lo storico capitano Claudio Bravo e il regista Marcelo Díaz, tasselli imprescindibili del Cile di Sampaoli, non sono mai stati presi in considerazione dal nuovo ct, si dice perché in conflitto con l’imprescindibile Arturo Vidal. Questa scomoda decisione lo ha gettato in pasto ai tifosi inferociti, che soltanto pochi giorni fa hanno imbrattato i muri del centro sportivo di Juan Pinto Durán con un secco “Colombiano mata-ídolos”. Inoltre, il necessario ricambio generazionale non è praticamente mai partito e i veterani rimasti – Alexis Sánchez su tutti – non stanno vivendo il loro miglior momento. Rueda si giocherà la Copa América sotto una pressione schiacciante, sperando che Vidal e gli altri membri del gruppo storico riportino indietro le lancette di quell’orologio perfetto a quello che era la Roja. Sarebbe l’unico modo per difendere un titolo di campioni apparentemente perso in partenza., sempre che il Cile non voglia infrangere i pronostici per la terza volta di seguito.

 

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