Arjen Robben, il singolo sopra il collettivo

Si è ritirato il solista della fascia destra per eccellenza, figlio singolare della patria del calcio totale.

Se volete capire qualcuno, andate nel posto da cui quel qualcuno viene. Arjen Robben, probabilmente il miglior giocatore a essere passato per la Bundesliga negli ultimi dieci anni, che a 35 anni ha lasciato il Bayern Monaco, è nato nell’anonimo e isolato villaggio di Bedum, nel vento dell’Olanda del nord, ad appena 60 chilometri dalle coste tedesche della Frisia Orientale. È raro che giocatori olandesi forti vengano dal nord del Paese, e nessuno è mai arrivato da Bedum. Prima, il villaggio era conosciuto per la sua torre pendente, più pendente di quella di Pisa, come dicono vantandosi i residenti. Il VV Bedum, la squadra locale, non aveva niente da insegnare a Robben. In altre parole: nonostante Arjen Robben sia olandese, non è il tipico giocatore olandese. Questo potrebbe spiegare perché è diventato così speciale.

Il tipico giocatore olandese è un ragazzino di Amsterdam che ha iniziato a giocare per l’Ajax nel periodo delle scuole elementari, che ha ricevuto l’indottrinamento nelle complesse geometrie su cui si basa il calcio totale, e dotato di un’arroganza anche conosciuta come “Amsterdam bluff”. Pensate a Wesley Sneijder, Rafael van der Vaart o Nigel de Jong, membri come Robben della generazione d’oro olandese dei nati nel 1983 e 1984. Se Robben fosse cresciuto nella parte ovest dell’Olanda, i suoi allenatori gli avrebbero fatto dimenticare come si dribbla. Sono cresciuto giocando a calcio in quelle zone, e ricordo bene l’urlo che si alzava ogni volta che un bambino abbozzava una corsa palla al piede: «Niet pingelen!», non dribblare!. Già a otto anni i bambini olandesi sanno che il pallone si muove più veloce del giocatore. Ma, piccolo genio campagnolo senza istruzione, Robben crebbe senza grandi lezioni di calcio. Fu così che diventò un’ala, il Garrincha olandese.

Un giorno, quando aveva sedici anni ed era a scuola, ricevette un messaggio. Per leggerlo uscì dalla classe, e scoprì che era stato selezionato dalla prima squadra del Groningen per la loro prossima partita, nella massima divisione olandese.

Nel 2001 l’Olanda partecipò per alcuni giorni al Mondiale Under 20 in Argentina – l’Egitto si rivelò troppo forte, ai quarti di finale. Il ragazzino più giovane di quella squadra era un diciassettenne con le gambe un po’ storte di qualche villaggio nel nord del Paese. L’allenatore della Nazionale, un ex maestro con la faccia larga e allampanata chiamato Louis van Gaal, non era un tipo incline a lodare il talento individuale: per lui era meglio quello che chiamava, con la sua parola preferita in olandese, il collectief. Nonostante questo, ammise che non aveva «mai visto un talento simile» a quello di Arjen Robben.

Quando il Psv Eindhoven acquistò il ragazzino ossuto per una cifra apparentemente oltraggiosa, Robben si guadagnò il soprannome di “l’uomo da nove milioni di fiorini”. Crescendo, si mantenne un nerd educato con un accento nasale settentrionale, rifiutando di aggiornare il suo guardaroba da liceale o la sua fidanzata con cose più alla moda. L’arbitro Dick Jol si meravigliò la volta in cui Robben gli chiese, nel tunnel in cui i giocatori aspettano prima di entrare in campo, “Come sta?”, utilizzando la forma più formale, praticamente in disuso nell’Olanda di oggi.

Un giovane Robben nel 2003, qui insieme a Mateja Kezman, con la maglia del Psv (Emmanuel Dunand/Afp/Getty Images)

Eppure, per anni, intorno a Robben è rimasto un certo tipo di sospetto tipicamente olandese. In una nazione ossessionata con la tactiek, ecco un uomo che sembrava poterne fare a meno. Per citare il suo ammiratore Johan Cruijff, il padre del calcio olandese: «Una squadra è fatta di dieci giocatori più un esterno mancino». Oppure, per usare le parole dello stesso Robben nel descrivere la sua strategia: «Ogni volta che vado in campo mi dico: dai, divertiamoci un po’». Al suo primo torneo, l’Europeo del 2004, quando gli fu finalmente concesso di giocare, distrusse da solo un’ottima Repubblica Ceca, servendo gli assist per due gol, prima di essere bruscamente sostituito da Dick Advocaat. Il motivo, pare, era che Robben non seguiva abbastanza il centrocampista difensivo Tomas Galasek. Quando uscì, l’Olanda conduceva 2-1. Finì con il perdere per 3-2. L’evento entrò nella storia del calcio olandese come “De Wissel”, la sostituzione. Al Mondiale del 2006 aprire in due le difese avversarie era diventato un’abitudine per Robben, ma Robin van Persie si lamentò con la stampa: «A volte fa scelte che vanno bene per lui, ma non per la squadra». In altre parole: niet pingelen!

Bisogna arrivare intorno ai suoi 25 anni perché Robben possa davvero spiccare come un orgoglioso solista, perché possa smettere di scusarsi se era in grado di battere da solo una squadra. Il Bayern lo capì, e lo aiutò dandogli qualcosa di simile al corpo di un calciatore tedesco. Considerando tutti gli infortuni subiti nell’ultima stagione, nessuno si sarebbe immaginato che “l’uomo di vetro” sarebbe durato così a lungo.

Tutta la sua carriera è stata basata su un singolo movimento. “Le Robben”, come lo chiamano i francesi, è uno dei rituali del calcio del ventunesimo secolo: sfrecciando sulla corsia di destra, finta di prendere l’esterno, ma taglia invece verso l’interno e tira con il mancino sul palo più lontano. I difensori sanno cosa sta per fare, ma lui riesce a farlo così velocemente che gli occhi abboccano alle finte prima ancora che il cervello riesca a cambiare decisione.

All’Allianz Arena di Monaco durante una gara di Champions League nel 2018 (Adam Pretty/Getty Images)

Per una decina di anni prima del suo ritiro nel 2017, la Nazionale olandese è dipesa senza in modo quasi parassitario da Arjen Robben. Il tradizionale “calcio totale”, come lo chiama il mondo (in Olanda si chiama “Hollandse school”), non funzionava più da un pezzo: i migliori momenti dell’Olanda moderna sono frutto di una fase difensiva solida e rapide ripartenze interpretate da Robben. Pensate alle umiliazioni inflitte a Italia e Francia nel 2008, al secondo tempo contro il Brasile nel Mondiale 2010, ai 28 gloriosi minuti contro la Spagna nella vittoria per 5-1 nel 2014. Portò l’Olanda alla finale del Mondiale, nel 2010. Verso la fine della partita, si trovò da solo davanti a Iker Casillas, con il punteggio ancora sullo zero a zero, e piazzò un tiro diretto all’angolino, che il portiere spagnolo riuscì a deviare con gli ultimi centimetri del piede. Successivamente, con il declino della Nazionale, la dipendenza da Robben diventò totale. Dal 2014 al 2017, con lui in campo, l’Olanda ha segnato in media un gol in più ogni gara.

A questo punto gli olandesi sperano che possa, finalmente, tornare a casa. O in Olanda, quantomeno.