Il manager all’inglese sta scomparendo

È una figura superata dal tempo, oggi i club più importanti hanno bisogno di un allenatore e un direttore sportivo.

Dopo una stagione negativa chiusa senza trofei e senza la qualificazione in Champions League, il Manchester United ha bisogno di un grande rinnovamento. La rosa ha bisogno di volti nuovi e diversi, soprattutto tra difesa e centrocampo, e l’organigramma societario necessita dell’inserimento di un direttore sportivo a guidare le operazioni. Ma fino a questo momento la prospettiva è molto diversa: in un calciomercato estivo di grandi movimenti, fin qui lo United è rimasto sostanzialmente immobile – fatta eccezione per l’acquisto del terzino Wan-Bissaka. Anzi, le voci più insistenti sono quelle che vedono in uscita alcuni dei migliori giocatori della rosa, a partire da Paul Pogba. E del nuovo direttore sportivo ancora non c’è traccia. Insomma, lo United sembra una società nel caos, in cui molte delle sue competenze sfuggono al controllo. Un’azienda che cresce nel fatturato, nel marketing e nel brand-postioning, però è ferma nella dimensione sportiva.

È paradossale: il Manchester United è uno dei club che, più e prima di tutti, aveva iniziato un progetto di sviluppo extra-sportivo, espandendo il suo marchio in tutto il mondo e facendo crescere a ritmi insostenibili per la concorrenza i numeri del suo bilancio, trasformandosi in una enorme multinazionale con aree di interesse che andavano ben oltre il campo. Una strategia che tutti i club di calcio hanno dovuto seguire nel giro di qualche anno, imitando quel che in parte già accade da tempo negli sport americani: le società sono diventate più complesse, stratificate, tentacolari. Perfettamente inserite in un mercato mondiale plasmato dalla globalizzazione.

Per trovare un esempio di società virtuosa, in questo senso, basta cercare sull’altra sponda del fiume Irwell. Qui la proprietà emiratina del City finanzia un progetto guidato dall’amministratore delegato Ferran Soriano e ha diramazioni in diversi campi – oltre che in diversi club, da New York a Melbourne – prima di arrivare all’aspetto sportivo, per cui l’allenatore e il direttore sportivo Txiki Begiristain lavorano in simbiosi, per costruire una squadra che ha la duplice ambizione di vincere nel breve termine e continuare crescere sul lungo periodo. È qui che lo United ha fatto cortocircuito, è qui che non si è aggiornato del tutto. È rimasto ancorato ad alcune tradizioni che ne hanno rallentato lo sviluppo. Una su tutte, la figura del manager tipica del calcio inglese, figlia di un’epoca in cui le società erano piatte come fogli di carta se paragonate a quelle di oggi. Lo ha spiegato in una recente intervista Louis van Gaal, ex allenatore dei Red Devils. «Quando ho fatto il colloquio con lo United nel 2014 non abbiamo mai parlato di sistemi di gioco e di filosofia di gioco. Volevano che facessi molto altro. Il Manchester ha bisogno di essere rinnovato nell’organizzazione perché oggi c’è uno squilibrio tra la dimensione sportiva e quella commerciale».

Quando parla di discutere con la dirigenza dello stile di gioco, van Gaal parla di un’identità che – in maniera più o meno marcata – una grande squadra oggi non può non avere. Un’identità che è calcistica, quindi di campo. Automatismi e letture tattiche che rendono riconoscibile una squadra. Ma non solo. È un discorso di identità societaria, che va ben oltre i singoli giocatori o l’allenatore, e a loro deve sopravvivere: oggi è quasi controculturale affidare ad una singola persona – nelle vesti di manager – tutto l’apparato societario, e mandare tutto a monte una volta che suddetta persona viene sollevata dall’incarico. A maggior ragione in un periodo in cui la durata media del ciclo di un allenatore è di poco più di un anno nei maggiori campionati. Perciò diventano sempre più importanti le figure dei dirigenti di campo, direttori generali, direttori sportivi e/o direttori tecnii. Più degli allenatori, questi professionisti contribuiscono a dare alla società una visione d’insieme, una cultura di squadra. Proprio come avviene da tempo nel resto d’Europa, dove i direttori sportivi hanno sempre lavorato fianco a fianco con gli allenatori: l’Italia, per dire, ha istituzionalizzato la carica di direttore sportivo nel 1976. Una figura dirigenziale (affiancata da uno staff ad hoc) che si occupa dei contratti dei giocatori, del mercato, degli analytics, delle cosiddette “sports science”, di assumere e licenziare l’allenatore. Quest’ultimo è solo un anello della catena, quello che si occupa della prima squadra e ne gestisce i giocatori.

Ole Solskjaer e Pep Guardiola durante l’ultimo derby di Manchester. Il tecnico norvegese ha ottenuto il rinnovo del contratto dopo che era stato assunto da “Caretaker”, traghettatore, al posto di José Mourinho. (Catherine Ivill/Getty Images)

In Spagna e in Germania, i “DS”, o “DG” sono rappresentativi dell’identità di squadra molto più degli allenatori: sono amati dai tifosi, e sono considerati i primi responsabili dei risultati sportivi. I casi limite, i più evidenti, sono quelli di Monchi e Zorc, rispettivamente direttore sportivo del Siviglia e direttore generale del Borussia Dortmund. Loro hanno contribuito, forse più di tutti, a creare squadre riconoscibili in campo e fuori, lasciando la loro impronta indelebile nelle società in cui lavorano. D’altra parte i ruoli di allenatore e direttore sportivo sarebbero antitetici. Il primo è costretto a ragionare su distanze temporali brevi, preoccupandosi di raggiungere l’obiettivo a fine stagione, ma ben consapevole di dover pensare sempre alla prossima partita – o al massimo alle prossime due/tre. Il secondo, invece, lavora sul lungo periodo, si occupa dello sviluppo della squadra nel corso degli anni, deve guardare alla crescita dei giovani e tenere d’occhio la scadenza di contratti pluriennali nell’ottica della costruzione della rosa (con sessioni di mercato che sono distanti sei mesi l’una dall’altra).

Anche in un’Inghilterra riluttante ad abbandonare l’idea del manager tradizionale, figura unica e sola responsabile di successi e fallimenti della squadra, questo sta cambiando. All’inizio della stagione appena conclusa i manager erano soltanto 6. Di contro, c’erano 14 head coach. E anzi, sono sempre più gli allenatori che chiedono di avere al loro fianco, quasi nelle vesti di supervisore, un dirigente che si sobbarchi la dimensione extracampo del lavoro. È quasi inevitabile ai livelli più alti: negli ultimi anni si sono “convertite” anche Chelsea (2010) e Liverpool (2016). Perfino l’Arsenal, che dopo 22 anni di gestione Wenger da plenipotenziario, ha voltato pagina assumendo Unai Emery, e inserendo in società anche lo spagnolo Raúl Sanllehí come “Head od Football” e il tedesco Sven Mislintat, ex capo osservatore del Borussia Dortmund. Non può essere un caso che il calcio inglese sia tornato a trionfare in campo internazionale proprio dopo l’arrivo e il consolidamento degli allenatori di tipo “europeo”. L’approdo di Guardiola e Klopp e poi di Sarri ed Emery, solo per guardare solo alle squadre di vertice, ha aiutato la Premier League ad aggiornarsi, a uscire da una bolla di conservatorismo tattico che stava trascinando verso il basso le sue squadre nonostante una disponibilità economica enorme da parte di tutte le società, anche quelle più piccole.

Mauricio Pochettino guida il Tottenham dal 2014. Prima ha allenato l’Espanyol e il Southampton (Matthias Hangst/Getty Images)

La diversificazione dei ruoli e la stratificazione della società è un’evoluzione inevitabile, un upgrade per i club calcistici del nuovo millennio. Una necessità che però non può essere una regola fissa e immutabile. Allo stesso modo, però, può essere gestita con strategie e attribuzioni differenti. Il Tottenham, ad esempio, nel 2016 ha fatto una scelta in controtendenza, quasi anacronistica: al momento del rinnovo di contratto, il ruolo del tecnico Pochettino è cambiato da head coach a manager. Una modifica, non solo formale, che lascerebbe intendere un aumento dei poteri nelle mani dell’argentino. Ma lui stesso ha spiegato che «il ruolo è lo stesso, forse sono sempre stato un manager, le decisioni per il futuro della squadra sono sempre condivise». In ogni caso anche una figura come quella di Pochettino resta distante dall’ideale costruito attorno ai miti di Arséne Wenger o Sir Alex Ferguson: modelli rappresentativi di un ruolo che oggi sta scomparendo, superato dall’evoluzione del gioco e delle società.