Perché la Germania non produce più giovani campioni?

La nuova generazione non è all'altezza di quella precedente, ed è un problema legato al modello integrato tra club e Nazionali.

La massima ambizione del calcio contemporaneo è la sistematizzazione: a livello di club, come di squadre e movimenti nazionali, i dirigenti e i tecnici puntano a rendere sempre meno incidentali i risultati sul campo attraverso la costruzione di modelli strategici, economici e tecnici che possano essere considerati scientifici, che si ripetono ciclicamente nel tempo. Ovviamente non è possibile governare i punteggi di una partita o di un campionato, ma gli ultimi decenni di calcio internazionale hanno dimostrato che una progettualità profonda e integrata può creare i presupposti per influenzare l’andamento del gioco attraverso uno sviluppo controllato, intensivo, del talento.

Esistono diverse possibilità: la Francia e il Belgio hanno creato dei percorsi di scouting e formazione fondati sugli atleti, sull’esaltazione delle loro qualità individuali più che sulla centralità di alcuni principi di gioco; in Spagna, Germania e – successivamente – Inghilterra il sistema di sviluppo è stato improntato a partire da presupposti esattamente opposti, per cui i giovani calciatori vengono allevati da tecnici con una cultura tattica comune, che praticano uno stile di gioco imposto dall’alto, dalle scuole per gli allenatori, in modo da produrre atleti già pronti per essere inseriti in un dato ecosistema calcistico.

Entrambi i tipi di organizzazione sono validi: la Francia ha trionfato agli ultimi Mondiali, il Belgio vive un’età dell’oro probabilmente irripetibile per quantità e varietà di grandi giocatori, mentre il decennio a cavallo tra gli anni Zero e Dieci è stato dominato dalla Spagna e dalla Germania, le due Nazionali che hanno vinto le ultime due edizioni degli Europei Under 21 – successo dei tedeschi in finale sulla Spagna nel 2017, stessa finale e risultato inverso poche settimane fa, nel torneo giocato in Italia. Eppure proprio il calcio tedesco rappresenta un caso di studio rispetto alle criticità riscontrate all’interno del suo stesso modello: la Mannschaft di Löw è stata eliminata all’ultimo Mondiale dopo sole 3 partite e poi è retrocessa nella Lega B di Nations League. È evidente che il ricambio generazionale non sia arrivato a compiersi nonostante un ampio bacino da cui pescare, perché i talenti prodotti negli ultimi anni non sono riusciti a mantenere le aspettative, a reggere il confronto con la generazione di giocatori che ha vinto il titolo Mondiale in Brasile, ormai cinque anni fa. Insomma, la Germania vive una crisi del talento. Una crisi inattesa date le premesse storiche e filosofiche, ma comunque legata a doppio filo ad alcuni aspetti peculiari del movimento tedesco.

Al termine delle fallimentari esperienze di Germania e Spagna ai Mondiali 2018, il Telegraph scriveva: «I convocati di Löw e quelli di Lopetegui – poi gestiti da Hierro – non erano chiaramente all’altezza dei loro predecessori. Per quanto riguarda la Mannschaft, è evidente come la squadra non sia riuscita a riprodurre la stessa intensità del 2014, tanto che gli avversari si sono resi conto della possibilità e hanno trovato la miglior soluzione: rimanere compatti in difesa, per poi attuare rapide ripartenze». Il punto è tutto qui: Löw è stato costretto a puntare sui reduci del trionfo in Brasile, perché i giocatori che nel frattempo avrebbero potuto ritagliarsi il loro spazio non sono riusciti a raccogliere l’eredità di chi li ha preceduti. Una condizione vissuta già dalla Spagna all’indomani della tripla vittoria a Euro 2008, Sudafrica 2010 ed Euro 2012, solo che negli ultimi anni tanti calciatori iberici sono riusciti a imporsi anche ad altissimi livelli – Isco e Asensio su tutti, ma anche Saúl, Rodri, Fabián Ruiz, Ceballos.

André Schürrle e Mario Götze esultano dopo la rete che ha deciso la finale dei Mondiali 2014. Entrambi non giocano in Nazionale dal 2017 (Matthias Hangst/Getty Images)

I giocatori più promettenti della Germania, invece, stanno faticando a raggiungere lo stesso status. I dati e le valutazioni del calciomercato confermano le difficoltà palesate sul campo: secondo Transfermarkt, solo 16 giocatori tedeschi Under 25 valgono più di 25 milioni; gli spagnoli sono 25, i francesi sono 32, gli inglesi sono 23; persino l’Italia, che ha iniziato da poche stagioni ad applicare una cultura di valorizzazione più inclusiva, conta già 14 giocatori Under 25 che sfondano il valore di 25 milioni. Un altro segnale arriva dalla rosa convocata da Löw per i Mondiali del 2014: gli Under 23 selezionati dal ct tedesco non sono riusciti a far decollare davvero la propria carriera; Ginter, Schürrle, Draxler, Durm, Götze, Mustafi e Kramer sono diventati campioni del mondo, eppure hanno deluso le aspettative sul loro sviluppo, al punto che solo due di loro (Ginter e Draxler) sono stati convocati anche per la Coppa del Mondo 2018. Ginter, tra l’altro, non ha giocato nemmeno un minuto in Russia. La tendenza è sconfinata oltre la generazione nata nella prima metà degli anni Novanta: dei 23 calciatori chiamati da Stefan Kuntz per il vittorioso Europeo Under 21 del 2017, solo Gerhardt, Tah, Max Meyer, Gnabry e Kehrer hanno giocato con la Nazionale maggiore. Tra questi, giusto Gnabry e Kehrer hanno avuto un impatto reale sulla Mannschaft – e non a caso sono gli unici a militare in due club di primo piano, rispettivamente il Bayern Monaco e il Psg.

Il problema principale, quindi, non è la produzione del talento in senso assoluto, quanto lo step successivo, quello che sancisce l’affermazione definitiva sui grandi palcoscenici. Del resto, come detto, i risultati dell’Under 21 e delle altre selezioni giovanili sono eccellenti, ed è merito del ciclo di formazione ma anche del modello estremamente inclusivo della Bundesliga: nell’ultima stagione, 67 giocatori sotto i 23 anni hanno accumulato un minutaggio superiore ai 1000′ di gioco nel massimo campionato tedesco; tra le cinque leghe top solo la Ligue 1 ha una quota più alta (83), mentre Serie A (58), Liga (54) e Premier League (43) sono indietro.

Kai Havertz ha segnato 17 gol in 34 partite dell’ultima Bundesliga. Ha esordito in Nazionale a settembre 2018 (Jörg Schüler/Getty Images)

Le società tedesche, però, puntano sui giovani perché non possono investire grandi somme sul mercato. È un effetto della della controversa regola del 50+1, per cui almeno il 50% della proprietà dei club deve appartenere a comitati di azionariato popolare. In questo modo, viene garantita la sostenibilità economica del sistema, ma le società non possono essere rilevate e gestite da nuovi gruppi finanziari, locali e/o stranieri, con un inevitabile impatto sulla competitività economica. Secondo i dati dell’ultima Deloitte Money League, una sola società tedesca (il Bayern Monaco) è tra le prime 10 d’Europa per fatturato, al quarto posto dietro Real Madrid, Barcellona e Manchester United; il Borussia è 12esimo, lo Schalke 04 è 17esimo. Difficile pensare che in Bundesliga possano arrivare grandi campioni, oltre a quelli importati dal Bayern.

In un ambiente tecnico-economico con queste caratteristiche, puntare sui talenti cresciuti nei vivai è una soluzione virtuosa ma anche indotta, e che porta la Bundesliga a vivere il “paradosso di Julio Velasco”. In un’intervista rilasciata poche settimane fa, l’ex ct della Nazionale italiana di pallavolo ha spiegato come l’assistenzialismo per i giovani sportivi possa rivelarsi un’arma a doppio taglio: «La prima cosa che un giocatore promettente deve fare è guadagnarsi il diritto a giocare. Non dobbiamo darglielo e basta, i ragazzi devono lavorare per migliorare il loro livello, per aumentare la loro qualità, e questo lo puoi fare solo confrontandosi con i migliori». In Germania, i migliori sono proprio – e solo – i migliori giovani, secondo un ciclo di ricambio continuo che finisce per compromettere una reale valorizzazione a livello internazionale. Non a caso, la Bundes fa fatica a esportare talenti all’estero: solo Sané, tra gli Under 25 con un valore superiore ai 50 milioni di euro, milita nel Manchester City. Gli altri 7 giocano tutti in Bundesliga, e 4 di questi sono al Bayern Monaco: Süle, Kimmich, Gnabry e Goretzka.

Serge Gnabry contratato da de Ligt durante una partita tra Germania e Olanda. L’esterno tedesco è approdato al Bayern dopo il percorso giovanile tra Stoccarda e Arsenal, l’esordio con i Gunners e due anni in prestito tra Werder Brema e Hoffenheim (Dean Mouhtaropoulos/Getty Images)

L’egemonia dei bavaresi e le loro scelte di mercato per la prossima stagione sono un altro segnale rispetto alla scarsa competitività della nuova generazione dei giocatori tedeschi: l’obiettivo numero uno è proprio acquistare Sané dal Manchester City, ma intanto il nuovo ciclo è stato avviato con l’arrivo di Pavard e Lucás Hernández. Due difensori stranieri. Evidentemente, anche la dirigenza del Bayern non crede più che il salto di qualità a livello europeo possa passare per la politica del calciomercato interno. Pochi mesi fa, proprio il presidente Hoeness ha annunciato un cambio di strategia: «Crediamo sia giunto il momento che il Bayern investa sul mercato una grossa somma per avvicinarsi ai club più importanti d’Europa».

Il percorso tracciato dal Bayern per il proprio futuro è una fotografia del calcio tedesco: le società della Bundesliga stanno vedendo crescere i propri ricavi, ma non hanno ancora aumentato gli investimenti nel calciomercato. In Baviera si sono resi conto che spendere di più in calciatori è uno step necessario per migliorare il sistema integrato tra club e Federazione, che ha portato la Germania ad avere un movimento calcistico vincente, ricco per qualità e varietà del talento, ma che si è anche scoperto autolimitato rispetto ai mutamenti degli ultimi anni. Le distanze economiche tra le società europee si sono dilatate, e allora è sempre più difficile – e dispendioso – essere competitivi. L’aggiornamento del modello è necessario perché i club, i giocatori e la Nazionale possano essere di nuovo protagonisti ai massimi livelli, perché possano battere il tempo che passa e che cambia le cose, fino al punto da rendere anacronistici, o comunque meno efficaci, dei sistemi che sembravano perfetti appena fino a ieri.