Calciatori da etichetta

Il vino è sempre più una passione e un business per molti giocatori, da Pirlo a Barzagli a Bonera.

I ritmi lenti della vitivinicoltura sembrano inconciliabili con la frenesia mediatica del football contemporaneo. Eppure, i calciatori e gli allenatori che hanno dato vita ad aziende vinicole aumentano di anno in anno. Nel 2017, a Firenze, il sommelier Andrea Gori da Burde ha organizzato una degustazione sui calciatori diventati produttori di vino. L’evento costituisce una sorta di censimento del trend: dai veterani Kurt Hamrin e Alberto Malesani fino ai neofiti Alessandro Gamberini e Dario Dainelli, erano presenti quasi tutti gli sportivi-vignaioli italiani.

Non è semplice, cercando le radici, tracciare una storia del fenomeno. Tutto sembra avere inizio nel 1973, quando Nils Liedholm acquista la tenuta Villa Boemia a Cuccaro Monferrato. Negli anni successivi, i vini Liedholm vengono apprezzati per la capacità di esprimere fedelmente il terroir monferrino. Il Barone si appassiona al Grignolino: un vitigno ostico, da cui si ottiene un vino orgogliosamente poco mainstream, che Mario Soldati definisce non adatto «alla brutalità del consumismo».

Siamo, nel frattempo, arrivati negli anni Ottanta. Il vino sta diventando un prodotto, e il bacino di mercato anglo-americano – il più influente – sta imponendo un canone gustativo. A dettar legge è Robert Parker, il Wine Advocate più potente degli ultimi trent’anni. Le regole sono chiare: la morbidezza vince sulla freschezza, iperconcentrazione, barrique sempre e comunque. Il vino dev’essere esplosivo (come un bourbon), e Parker diventa un opinion leader. Così, quando conferisce al Sassicaia 1985 un punteggio di 100/100, finalmente per l’Italia si spalancano le porte dell’America. Anche il calcio italiano, in quel decennio, vive una rinascita internazionale. Nel 1980 si chiude il periodo autarchico conseguente alla disfatta del Mondiale del ’66. Le squadre italiane possono comprare di nuovo giocatori stranieri, e nel corso delle stagioni successive arrivano campioni come Zico, Platini, Cerezo, Falcao e Maradona. Gli Azzurri vincono il Mondiale, Juventus e Milan trionfano in Coppa dei Campioni (i rossoneri due volte) e la Roma ­– proprio sotto la guida di Liedholm – raggiunge una finale.

Il calcio però sta cambiando ancora, sta diventando un’industria di intrattenimento, in cui le società devono tramutarsi in brand per clienti-tifosi ad alta fidelizzazione. All’estero lo capiscono prima che in Italia e così, dopo i fasti degli anni Novanta e dei primi Duemila, il movimento entra in crisi, sia a livello di club che di Nazionale. Nel frattempo, il settore vinicolo decolla. Secondo Il Sole 24 Ore, dal 1986 al 2016 l’export di vino aumenta del 575 per cento. Il consumo pro-capite scende invece dai 68 litri di un tempo ai circa 37 odierni. Il vino non è più un alimento presente tutti i giorni sulle nostre tavole, ma una bevanda di culto, da degustare e su cui investire. E nonostante il clima recessivo e la presenza di nuovi concorrenti come Cile, Argentina e Sudafrica, ancora oggi la vitivinicoltura rappresenta uno dei principali punti di forza dell’economia italiana.

Il carattere famigliare dell’imprenditoria italiana, tuttavia, non sembra più in grado di sostenere le nuove sfide imposte dall’economia mondializzata. Nel 2015, a otto anni dalla morte di Liedholm, Villa Boemia viene acquistata da una società italo-cinese leader nel campo della meccanica per ascensori. Altre aziende storiche ­– come le toscane Podere Salicutti, Biondi Santi e Tenuta Icario – sono state recentemente comprate da società estere. Parliamo di realtà molto ambiziose, che vogliono competere globalmente. Quando gli orizzonti si ampliano, le necessità cambiano, e il know how italiano – vittima anche di un contesto socio-economico sfavorevole – pare inadeguato. È una trasformazione, ancora, che accomuna vino e calcio: basta pensare a Roma, Inter, Bologna, Venezia e Milan, passate recentemente in mani straniere.

Con un target più qualitativo che quantitativo le prospettive di successo rimangono possibili. Ex calciatori come Andrea Pirlo, Daniele Bonera, o i già citati Dainelli e Gamberini sembrano esserne consapevoli, le loro aziende hanno dimensioni medio-piccole e puntano a un mercato di nicchia o quasi. Pratum Coller si trova a Flero Brescia, nel parco del Montanetto. Ha una superficie vitata complessiva di dieci ettari, produce quarantamila bottiglie l’anno e appartiene alla famiglia dell’ex playmaker azzurro. Andrea ha sempre avuto la passione per il vino e per la campagna. «Già da bambino facevo vendemmia nella piccola vigna di famiglia e dal 2007 ho potuto realizzare questo mio sogno nel cassetto, rilevando una proprietà adiacente a casa della nonna», racconta Andrea.

Con un target più qualitativo che quantitativo le prospettive di successo rimangono possibili: calciatori come Andrea Pirlo, Daniele Bonera, Dainelli e Gamberini sembrano esserne consapevoliPratum Coller è un’azienda giovane, che aspira a definire un’identità propria e innovativa. Nonostante la Franciacorta si trovi a una manciata di chilometri di distanza, il primo spumante verrà messo sul mercato solo il prossimo Natale. «Nel nostro progetto la qualità si coniuga con una filosofia aziendale a misura d’uomo. Concetti come biologico, basso impatto ambientale, piacevolezza del territorio e biodiversità sono al centro della nostra attenzione», dice Claudia, responsabile di Pratum Coller e cognata di Andrea. L’etichetta di punta di Pratum Coller è la Riserva Arduo, con cui Andrea ha voluto rendere omaggio a quella cultura del lavoro su cui ha costruito il suo successo. «Arduo è un po’ anche il motto di famiglia e mio: non senza difficoltà si raggiungono le vittorie». Ma quali sono, appunto, le possibili difficoltà che può incontrare un produttore di vino alle prime armi? Federico Terenzi è il presidente di Agivi, il ramo giovane dell’Unione Italiana Vini, un’associazione che offre consulenza e sostegno ai viticoltori “esordienti”. «Il problema principale riguarda l’investimento iniziale per l’acquisto dei vigneti e la realizzazione degli impianti di cantina. Inoltre, la gestione aziendale nel nostro comparto è piuttosto complessa. Spesso l’imprenditore si trova a gestire tre aziende in una: la parte agricola, quella industriale con il processo di trasformazione da uva a vino e la parte commerciale», spiega Federico.

Uno sportivo rappresenta il profilo ideale dell’imprenditore: è giovane, dispone di un capitale e – se famoso – gode di una notorietà utile a promuovere la propria iniziativa. Ma la vitivinicoltura rappresenta pur sempre un mestiere nuovo, e spesso alcuni atleti preferiscono collaborare con produttori di comprovata affidabilità. Tra questi c’è Andrea Barzagli, che insieme a Gianfranco Sabbatino ha fondato l’azienda Le Casematte. «Con Andrea ci siamo conosciuti circa tredici anni fa, quando giocava a Palermo», dice Gianfranco. «Io ho sempre lavorato nel settore. Lui da buon toscano ha nel DNA la passione per il vino».

Anche in Francia sono numerosi gli sportivi che hanno acquistato un domaine o ne hanno fondato uno. Tra questi, i più famosi sono Bixente Lizarazu, Jean Tigana, Johan MicoudI vigneti di Andrea e Gianfranco si trovano all’estremità nord della Val Demone, fra le colline che si affacciano sullo stretto di Messina. Gianfranco si occupa di vino da ventidue anni e mostra una conoscenza appassionata della storia enoica della sua terra: «Faro è una delle denominazioni più antiche della Sicilia, ma tra la fillossera e il terremoto di Messina del 1908 la viticoltura era stata praticamente abbandonata. Noi abbiamo puntato sul territorio: Andrea tiene molto alla qualità del prodotto e viene informato quotidianamente sulle scelte aziendali. Ogni anno nel mese di giugno organizziamo degli incontri con i vari agenti e lui è sempre presente. Voglio sottolineare che non abbiamo mai puntato sulla sua figura in senso meramente pubblicitario. Noi vendiamo il vino di Messina e de Le Casematte, che certo, è anche il vino di Barzagli, ma non solo». Anche in Francia sono numerosi gli sportivi che hanno acquistato un domaine o ne hanno fondato uno. Tra questi, i più famosi sono Bixente Lizarazu, Jean Tigana, Johan Micoud (insieme a Matthieu Chalmé). Gilles Leclerc, invece, è invece pressoché sconosciuto in Italia: ha giocato come difensore centrale nelle due divisioni maggiori del campionato francese e oggi è proprietario del Domaine Carmélisa, nella valle del Rodano. Il suo legame con il vino risale all’infanzia, e ci racconta: «I miei genitori erano viticoltori. Ho smesso con il calcio sedici anni fa e ho sempre saputo che un giorno sarei tornato alle origini». Gilles è un vero vigneron. Si occupa direttamente del lavoro fra i filari, è lui a potare le piante.

«Mi piace avere un approccio da agricoltore, un mestiere che non si può improvvisare. Ho giocato a calcio per diciannove anni: amavo lo sport in sé, meno il lato mediatico di quel mondo. Preferisco la vita di campagna e per questo desidero rispettarla. Da tre anni non diserbo più, voglio limitare al minimo l’uso della chimica», continua Gilles. Il ciclo vitale di una vigna non si può forzare. La vendemmia va assecondata, al massimo la si può interpretare a seconda del vino che si vuole produrre, decidendo, ad esempio, di raccogliere in anticipo o in surmaturazione. Sempre più spesso i calciatori a fine carriera cercano una nuova vita nel silenzio della campagna, in un mondo regolato dal ciclo inalterabile delle stagioni – una reazione ai tempi concitati dello sport, al clamore del tifo, forse. È una piccola rivoluzione privata ma culturalmente rilevante: afferma la possibilità dell’esistenza di un atleta diverso, lontano dallo stereotipo oggi più diffuso.

Illustrazioni di Sarah Mazzetti
Dal numero 27 di Undici