Il calcio, strumento e opposizione nel Cile di Pinochet

Il governo golpista fondò diverse squadre, ma non riuscì a tenere dalla sua molti calciatori. Una breve storia sportiva di un ventennio tragico.

«La notte faceva molto freddo. Per assicurarsi un posto più riparato, un compagno mi diede un cazzotto alla bocca dello stomaco. In quel momento mi sono reso conto che stavano raggiungendo il loro obiettivo: degradarci, trasformarci in animali». Sergio Muñoz, un professore di storia, riassume così i suoi giorni di prigionia all’Estadio Nacional di Santiago del Cile, nell’autunno del 1973, in un documentario sull’argomento. Salvador Allende, il presidente eletto dai cileni, si era appena suicidato alla Moneda – il palazzo presidenziale – dopo aver congedato i più stretti collaboratori e le figlie, per non consegnarsi vivo ai golpisti.

Da quel giorno in avanti la giunta militare, retta dal capo dell’esercito Augusto Pinochet, iniziò a rivoltare il Paese, dal deserto di Atacama alla Terra del Fuoco, rastrellando attivisti, intellettuali e semplici simpatizzanti. Nei primi mesi la repressione fu furiosa e l’Estadio Nacional ne diventò un monumento: nella parte di mondo in cui la passione per il calcio è l’edulcorante per le storture sociali, lo stadio in cui la Roja giocava le partite casalinghe era diventato il più grande campo di concentramento della nazione. Da un giorno all’altro, i prigionieri iniziarono ad apparire sugli spalti, ad essere ammassati nei corridoi che conducevano al campo, negli spogliatoi e nei bagni dello stadio: da settembre a novembre, si stima vi siano passate in tutto circa ventimila persone. Gli uomini attendevano nello stadio che gli altoparlanti li chiamassero al Velódromo, per essere interrogati e torturati, mentre le donne venivano violentate nella piscina olimpica. Molti vennero uccisi; secondo i prigionieri un numero infinitamente più alto della quarantina di esecuzioni che le fonti ufficiali riconoscono. Tra questi, sicuramente, ci fu Victor Jara, cantautore di spicco della “nueva canción chilena”, catturato e massacrato soltanto cinque giorni dopo il golpe.

Oltre a intellettuali e artisti politicamente schierati, furono detenuti anche calciatori, come Hugo Lepe, un ex difensore che undici anni prima all’Estadio Nacional era entrato insieme alla Roja semifinalista nel Mondiale di casa. In quegli anni, come il colocolino Mario Moreno, anche lui prigioniero, fu presidente del sindacato dei calciatori; a carriera finita, la sua collaborazione con il governo di Allende come architetto del Ministero alle Opere Pubbliche gli costò una menzione nella lista nera. Fu torturato, ma i militari non andarono oltre grazie all’intercessione di Francisco “Chamaco” Valdés, uno dei più importanti calciatori della storia del Colo-Colo, che sfruttò la propria influenza come leggenda della squadra più tifata del Cile tra le gerarchie militari per far liberare l’amico. Valdés tornerà all’Estadio Nacional poche settimane dopo, per segnare il simbolico gol nella partita fantasma contro l’Urss: i sovietici decisero di disertare lo spareggio per un posto al Mondiale tedesco, rifiutandosi di giocare in un campo macchiato del sangue dei compagni cileni. La Fifa, con un’ispezione-farsa effettuata da delegati anti-comunisti, garantì che nell’impianto di Nunoa non era stato commesso alcun crimine contro l’umanità, ma si racconta che persino durante i controlli qualche prigioniero fosse rinchiuso nello stadio.

Pinochet individuò nel calcio anche un potenziale alleato nella gestione di un territorio geograficamente dispersivo come quello del Cile. Sotto la sua dittatura nacquero, con l’appoggio del governo, diverse squadre, anche per facilitare il controllo della aree più periferiche, e quindi più soggette a influenze esterne. Il procedimento, a livello tecnico, consisteva nel trasformare piccoli club amatoriali in squadre del tutto nuove, con un nome nuovo, un’organizzazione differente e un posto tra i professionisti: il Deportes Iquique e il Deportes Arica per le zone costiere dell’estremo nord, il Deportes Valdivia, il Club Deportivo Provincial Osorno e il Deportes Puerto Montt per i grandi centri del sud e, soprattutto, il Cobreloa per la regione mineraria nel deserto di Atacama. Nell’economia cilena, il rame ha un’importanza vitale: i minatori sono di gran lunga la categoria di operai più influente e lo sciopero del 1972, che aveva indebolito fortemente il governo di Allende, fu una prova di quanto già allora il loro ruolo potesse assumere risvolti politici.

La Moneda sotto attacco, l’11 settembre 1973

Nel 1977 nacque una nuova squadra a Calama, la capitale mineraria del Cile, una città-dormitorio di più di 160.000 abitanti nel deserto di Atacama. Il Cobreloa nacque con l’obiettivo di essere competitivo fin da subito: a un nucleo di otto giocatori della zona scelti con dei provini dalla Codelco, l’impresa mineraria statale, probabilmente per accendere immediatamente la passione degli calameños per la nuova squadra, vennero aggiunti elementi di livello internazionale, tra cui alcuni uruguaiani e il solito “Chamaco” Valdés. Nel giro di cinque anni, il Cobreloa passò dalla seconda divisione alla vittoria di due campionati cileni e a una doppia finale persa di Copa Libertadores, la prima delle quali contro il Flamengo di Zico. Nonostante la sua entusiasmante ascesa sportiva di quegli anni, gli Zorros del Desierto non bastarono a evitare lo sciopero dei minatori del 1983, il primo sotto la dittatura civico-militare. Qualcosa iniziava a muoversi.

Lo stesso sistema valeva per i due grandi club nazionali, Colo-Colo e Universidad de Chile: quando si prospettava una protesta, una manifestazione o semplicemente per l’11 settembre, Pinochet si rivolgeva alla televisione e alle due squadre – tutte indistintamente sotto l’influenza dei militari – e faceva fissare un clásico, o un quadrangolare amichevole, per ridurre al minimo il numero di cileni che quel giorno sarebbero usciti di casa.

Soltanto alcuni anni dopo il golpe, il “milagro” degli anni Settanta, che aveva ristabilito l’economia nazionale al prezzo di ulteriori diseguaglianze sociali, stava presentando il suo conto con un’altra, durissima, crisi economica. Il dissenso di un Paese in difficoltà, che non aveva dimenticato i soprusi, si fece più forte, e Pinochet fu costretto a indire un plebiscito, fissato per il 5 ottobre 1988. Una delle ultime carte che il dittatore si giocò fu ancora una volta il Colo-Colo: pochi giorni prima del voto, promise di investire trecento milioni di dollari nei lavori di completamento dell’Estadio Monumental di Santiago, sperando di far leva sul forte seguito di cui ha sempre goduto il Cacique. Questa storia è uno degli argomenti ricorrenti tra le tifoserie rivali, specie della U, per dimostrare che il Colo-Colo, negli anni della dittatura civico-militare, è stato la squadra del regime; in realtà, era semplicemente la più potente tra le armi che Pinochet aveva a disposizione nell’arsenale di un sistema calcio in cui era penetrato completamente, come in tutti gli altri aspetti della vita cilena. Alla fine, il Monumental venne completato con i soldi dei soci.

Il rapporto Valech, pubblicato nel 2005, accusa il regime di Pinochet di 35mila casi di tortura

Nel mese precedente al Plebiscito, dopo quindici anni di assoluta repressione, in Cile torno quasi all’improvviso il diritto di esprimere dissenso. Ogni giorno, prima del telegiornale della sera e della notte, le due fazioni, quella del “Sì” alla fiducia a Pinochet e quella del “No” al proseguimento dell’esperienza della dittatura, avevano rispettivamente quindici minuti a testa per persuadere i cittadini con le proprie ragioni. Una notte, in televisione, apparve una donna, seduta nel salotto di casa propria. «Sono stata sequestrata e portata in un luogo sconosciuto dove, bendata, mi hanno torturata brutalmente», iniziò a raccontare. «Le sevizie che ho subito sono state così tante che non le ho raccontate nemmeno tutte, per rispetto dei miei figli, di mio marito, ma soprattutto di me stessa. Le torture fisiche sono riuscita a dimenticarle, ma quelle morali non credo ci riuscirò mai». E infine: «Voterò “No”, affinché domani tutti noi possiamo vivere la nostra democrazia senza odio, con amore e allegria».

L’inquadratura si allargava e, sulla sinistra, apparvero prima un gagliardetto del Colo-Colo, poi Carlos Humberto Caszely. La donna che ha raccontato senza esitazioni a milioni di cileni la propria detenzione era Olga Garrido, la madre del centravanti della Roja che si rifiutò di stringere la mano a Pinochet, prima di partire per il Mondiale in Germania del ’74. I calciatori, anche se di sinistra, erano intoccabili e il regime lo sapeva, ma lo stesso non valeva per le loro famiglie. Caszely abbracciava sua madre, ribadendo a sua volta il motivo per cui avrebbe votato “No”: «Perché la sua allegria è la mia allegria. Perché domani potremo vivere in una democrazia libera, sana, solidale, che tutti noi possiamo condividere. Perché questa bella signora è mia madre». C’erano circa quindici persone, in quel salotto: spente le telecamere, ricordò Caszely, tutti si misero a piangere.