La Nuovissima Zelanda

Regole, stimoli, opportunità: come gli All Blacks hanno trasformato la tradizione in competitività.

Gli All Blacks sono più di una squadra, molto più di una selezione nazionale. Gli All Blacks sono More than a Team, che poi sarebbe l’adattamento anglofono del motto del Barcellona Més que un club. Catalani e neozelandesi hanno in effetti costruito due tra i brand sportivi più riconoscibili, amati e significativi del mondo. Significativi nell’accezione più pura del termine, meaningful, di nuovo un anglismo per esprimere un concetto molto chiaro. Gli All Blacks portano in ogni angolo del pianeta alcuni valori cardine, la loro è ormai una missione di pura testimonianza filosofica, lo sport come vettore di modelli comportamentali. L’adesione al marchio All Blacks comporta una piena consapevolezza del senso di quella maglia, della sua tradizione. Una presa di posizione chiara che va ben oltre le mode passeggere.

Qualche anno fa un bravissimo giornalista neozelandese ha scritto un saggio di teoria manageriale basato sulle regole degli All Blacks, quelle che Gilbert Enoka (Mental Coach della squadra), ha codificato per superare un momento di crisi del sistema. Quel saggio si chiama Legacy (in Italia tradotto più prosaicamente come Niente teste di cazzo), e James Kerr è stato il primo ad avere la splendida intuizione della portata extra sportiva del messaggio degli All Blacks. Non un testo motivazionale ma una profonda e purissima riflessione sulla cultura di squadra, sui meccanismi di funzionamento del gruppo, sulla resistenza alla pressione e sulla capacità di adattamento. Lavorare con costanza su quelle categorie e sulla loro applicazione ha trasformato gli All Blacks in una delle squadre più vincenti della storia dello sport mondiale, una squadra che ha una percentuale di vittorie superiore al 90% negli ultimi dieci anni (oltre l’85% negli ultimi cento anni). Una squadra che vince sempre, da sempre e nonostante la costanza dei successi è amata in tutto il mondo. Perché il successo e le vittorie non si perdonano quasi a nessuno ma agli All Blacks sì.

Gli All Blacks sono inseriti nel Gruppo B di Coppa del Mondo, insieme ai rivali storici del Sudafrica, l’Italia, il Canada e la Namibia (Anthony Au-Yeung/Getty Images)

La Nuova Zelanda è un’eccezione alla regola del 71%, la percentuale della superficie del pianeta ricoperta d’acqua. La Nuova Zelanda è allagata dal rugby, 100% della superficie occupata da pensieri ovali. Il rugby è radicato a tutti i livelli, fa parte del tessuto sociale, del quotidiano. Mentre in Europa i giocatori professionisti di prima fascia e non scendono mai a livelli più bassi dell’eccellenza assoluta (se vuoi vedere Owen Farrell in azione ti tocca andare a Twickenham o allo stadio dei Saracens), in Nuova Zelanda molto spesso quando un giocatore non veste la maglia della Nazionale, il campionato è fermo, rientra da un infortunio oppure ha solo voglia e bisogno di giocare, allora anche un campione può scegliere una squadra delle leghe minori provinciali. Pura bellezza, poesia che concede a un tifoso qualunque di una squadra anonima la possibilità di vedere semidei del rugby ruzzolare nel fango con la sua maglia, con le casacche di società poco più che amatoriali. Provate a immaginare che cosa significhi per la comunità locale ospitare un fuoriclasse nel campetto dietro casa. Così nascono quei legami molto stretti tra i tifosi e i loro idoli che si sublimano nell’attaccamento, in quella passione che è motore immobile ed eterno del rugby Neozelandese.

Gli All Blacks affrontano una pressione enorme: dopo quattro anni molto vicini alla perfezione il pericolo è perdere intensità proprio nel momento più altoGli All Blacks sono gli unici ad aver vinto tre edizioni della Coppa del mondo; la prima nel 1987, la seconda nel 2011 in casa, dopo grandi delusioni, e la terza (primo back to back della storia dei Mondiali) nel 2015 in Inghilterra; vincessero anche in Giappone stabilirebbero un record quasi impossibile da eguagliare (forse impossibile da battere). Anche quest’anno partono con i favori dei pronostici, ma al livello più alto sono i dettagli minuscoli a fare la differenza. Cosa potrebbe non andare? Il nemico, l’unico, è nella testa. Gli All Blacks affrontano una pressione enorme: dopo quattro anni molto vicini alla perfezione il pericolo è perdere intensità proprio nel momento più alto, arrivarci scarichi e quasi svuotati da troppe vittorie. Viene il tempo in cui la condanna a vincere si trasforma in zavorra e la squadra diventa un bersaglio più semplice, un trofeo-feticcio per avversari agguerriti e ossessionati dagli All Blacks come Inghilterra, Irlanda, Sud Africa, Galles e Argentina.

Come tenere i giocatori sulla corda? Nelle ultime stagioni la Nuova Zelanda ha messo in atto un continuo ricambio generazionale, in teoria un grave rischio ma nella pratica la dimostrazione di una straordinaria forza identitaria, la capacità di trasmettere idee e senso di appartenenza ai giovani, ai nuovi All Blacks. In questa difficile fase di ricambio i neozelandesi sono stati impeccabili grazie alla loro disciplina assoluta, quella che gli ha permesso di restare sempre in cima al ranking mondiale nonostante innesti, sostituzioni e addii. Una grande organizzazione e un sistema efficace e pronto ad evolversi.

Tudor, official timekeeper della Coppa del Mondo di rugby, ha realizzato un video in cui racconta la storia della particolare Haka degli All Blacks, chiamata Ka Mate

Costretta ad accettare e prendere atto che tanti giocatori si trasferissero in Europa o in Giappone per firmare contratti più pesanti, la federazione neozelandese si è messa alla ricerca di metodi innovativi per convincerli a restare in patria. Un esodo cosi massiccio avrebbe messo in crisi qualsiasi altra struttura ma non gli All Blacks. In Nuova Zelanda, come fosse un mantra evolutivo i giocatori esperti passano il testimone ai più giovani, che crescono con la mentalità dei maestri e degli avi, con i principi giusti e con priorità nette. Lasciare la maglia in un posto migliore di quello in cui l’hanno raccolta, questo fanno gli All Blacks.

La Nuova Zelanda ha creato una nuova modalità contrattuale, un passo in direzione dei bisogni e dei desideri dei campioniMa di fronte a tentativi di imitazione sempre più riusciti e ad avversari-specchio, la cultura del lavoro e del talento puro rischiava di non bastare più, così alla lunga il sistema per tamponare la fuga dei giocatori verso mete più ricche l’hanno individuato. La Nuova Zelanda ha creato una nuova modalità contrattuale, un passo in direzione dei bisogni e dei desideri dei campioni. Le squadre hanno inserito negli accordi un periodo di tempo lontano dal campo, per permettere ai giocatori di concentrarsi sul recupero fisico. Il sabbatico consente al corpo di uscire dalla logorante routine del contatto fisico, dei traumi, dei viaggi intercontinentali, (perché i club che disputano il Super Rugby viaggiano tra Argentina, Sudafrica e Australia), oppure può essere usato per giocare in Europa o in Giappone in una finestra temporale ben precisa e delineata. Quest’ultima scelta va per la maggiore sì grazie alla vicinanza geografica con il Giappone ma anche e soprattutto perché lì campionato dura pochi mesi. Si è finalmente aperto un nuovo scenario per tanti giocatori neozelandesi, atleti che ora hanno la possibilità di mantenere il posto in squadra nel Super Rugby, di vestire la maglia degli All Blacks e di guadagnare bene in Giappone senza rinunciare a nulla.

La Nuova Zelanda ha vinto per tre volte la Coppa del Mondo di rugby: l’edizione inaugurale del 1987, poi nel 2011 e 2015 (Shaun Botterill/Getty Images)

Ma ultimamente il board neozelandese ha voluto fare ancora di più: ad alcuni nazionali ha garantito sia il sabbatico che un periodo per sperimentare il rugby in Francia o Inghilterra. Ovviamente si tratta di una scelta molto rischiosa, perché il rugby è uno sport che evolve velocemente e sarà interessante vedere come giocatori lontani dal sistema per 12/18 mesi saranno in grado di adattarsi alle fughe in avanti della nazionale.

Certo è che il rugby in Nuova Zelanda è un fatto culturale, centrale nella vita del paese. Un rito collettivo, sacro e simbolico proprio come la haka, come il dono del popolo Maori alla squadra di tutti i neozelandesi. La chiave di tante vittorie, la radice di ogni leggenda è più semplice di quanto sembri: per battere gli All Blacks bisogna esprimere una forza, una cultura di squadra migliore e più autentica della loro. Giocare meglio non basta (anche perché non è possibile).

Da Undici n° 29