Che cosa è andato storto tra Giampaolo e il Milan?

Il tecnico ex Sampdoria è parso incompatibile con la squadra dal punto di vista tattico, e non ha saputo reggere le pressioni.

La breve e travagliata storia tra il Milan e Marco Giampaolo è finita nel più acido dei modi: scontentando tutti. A partire da Giampaolo stesso, incapace di reggere la pressione nel momento clou della sua carriera; passando per il club, che per l’ennesima volta è tornato sui suoi passi rinnegando in fretta e furia la propria scelta estiva; fino ad arrivare ai tifosi, disorientati e quindi amareggiati dalla frenesia di una corsa che, otto anni dopo l’ultimo scudetto, l’ultima stagione felice, non si capisce ancora dove possa portare. È finita dopo centodieci giorni e sette giornate di campionato, un arco di tempo così ristretto (quasi un record nella storia rossonera) eppure sufficiente per ammettere il fallimento della precisa direzione assunta lo scorso giugno. «Da anni sappiamo che Marco offre qualcosa di diverso», diceva Zvonimir Boban introducendo Giampaolo durante la presentazione alla stampa, «un concetto di gioco, di bel gioco, che rispecchia la storia del Milan, che San Siro vuole, che i nostri tifosi vogliono, e che tutti noi vogliamo».

La prima doverosa sottolineatura è che di quel gioco – a meno di non voler considerare il primo tempo di Torino una consistente obiezione – non si è intravista neppure l’ombra. Lontano dalla dinamicità e dalla fluidità delle sue squadre precedenti, il Milan di Giampaolo è stato un tentativo maldestro e mal riuscito di coniugare le necessità richieste dal contesto e i principi che lo avevano reso un degno candidato per il rilancio definitivo del club rossonero. Il risultato? Non così disastroso per la verità, almeno sulla carta: nove punti in sette gare sono obiettivamente pochi per chi ha quantomeno ambizioni da alta Europa League, ma si sono certamente visti fallimenti più rumorosi. Piuttosto, ciò che inquietava, e che con tutta probabilità ha rappresentato un dettaglio decisivo nell’economia dell’esonero, è il fatto che lo score del Milan di Giampaolo sia stata un’onestissima cartina di tornasole di quanto visto sul campo, niente di più e niente di meno. C’è stata anche sfortuna in alcune circostanze, ma non è mai sembrato che il Milan stentasse sul campo per quel motivo. Secondo Understat, incrociando i dati relativi ai gol attesi a favore e a quelli subiti in base a quanto creato e concesso, il piazzamento dei rossoneri slitterebbe in avanti di appena quattro posizioni, dal tredicesimo al nono posto. Una sfumatura praticamente irrilevante.

Riflettendo a posteriori, è evidente come a monte della crisi ci siano due considerazioni indispensabili da fare: la prima, che il mercato estivo sia stato carente e sopravvalutato; la seconda, per diretta conseguenza della prima, riguarda la rosa a disposizione di Giampaolo, evidentemente non solo rivedibile in termini di valore assoluto, ma anche poco calzante con il piano che il tecnico aveva in mente. Dei sei giocatori arrivati in estate (Duarte, Krunic, Bennacer, Rebic, Rafael Leão e Theo Hernández) soltanto gli ultimi due hanno accumulato un minutaggio superiore alla metà dei seicentotrenta disponibili sin qui, e in ciascuna delle sette gare il Milan e il suo allenatore hanno sempre dato l’impressione di navigare a vista, privi di certezze consolidate e mai realmente in grado di costituire un blocco unico squadra-allenatore. Un esempio? La gestione del regista, confermato in appena due occasioni dalla gara precedente. Prima Calhanoglu, poi Bennacer, a seguire il doppio turno di Biglia e ancora due gare per Bennacer, infine Biglia, di nuovo. Un aspetto, uno dei tanti, della confusione di Giampaolo nella gestione della sua rosa.

Se l’assetto difensivo è stato sì mediocre ma non così disastroso (con nove reti subite i rossoneri hanno la settima difesa del campionato), Giampaolo si è giocato la panchina curando male l’organizzazione della squadra in fase di possesso. La questione del regista, come si accennava, non è altro che un dettaglio, una punta dell’iceberg sotto la quale si nascondono i casi ben più spinosi legati a Suso, Piatek e Paquetá, che lo scorso anno erano stati con Romagnoli i tre migliori giocatori del Milan. Ammesso e non concesso che nel corso dell’estate la sua idea fosse quella di puntare su certi elementi – un discorso che vale perlopiù per i primi due –, nella gestione di ciascuno di loro Giampaolo è stato fallimentare. Fin dalla prima giornata contro l’Udinese ha fatto capire chiaramente che non avrebbe rinunciato a Suso, e ha tentato di riciclarlo nel ruolo di trequartista alle spalle di Piatek e Castillejo, ottenendo in risposta dallo spagnolo la gara con meno palloni giocati (52) dall’inizio dell’anno – se si esclude quella contro la Fiorentina, in cui ne ha messi insieme 48 prima di essere sostituito intorno al minuto numero 80′. Evidenziare la media stagionale, sin qui pari a 62, è utile per comprendere quanto poco a suo agio si sia sentito Suso nella zona centrale del campo, e per spiegare cosa abbia spinto il tecnico a riportarlo alla normalità nella sua casella ideale, largo a destra.

Nelle prime e uniche sette giornate alla guida del Milan, Giampaolo ha messo insieme tre vittorie e quattro sconfitte, con uno score di sei gol fatti e nove subiti (Tullio M. Puglia/Getty Images)

Costretto a riposizionare Suso e ad accantonare il progetto iniziale – fondato sul 4-3-1-2, sistema e marchio di fabbrica dei suoi anni a Empoli e Genova – Giampaolo si è poi scontrato anche con le caratteristiche di Piatek. Il polacco non è mai sembrato ricettivo nei confronti delle richieste del suo allenatore, che alla vigilia di Verona-Milan ne parlava così: «Al Milan non si può giocare palla lunga e profondità sempre, bisogna anche palleggiare, giocare, tenere il possesso. E siccome lui è un giocatore completo, deve giocare da giocatore completo. Il gol non deve essere una ossessione, lui deve pensare a giocare bene per la squadra». Nel mese e mezzo di Giampaolo al Milan, Piatek non ha mai segnato su azione ed ha registrato appena 16,6 passaggi ogni novanta minuti; nella sua prima annata italiana, dato utile a sottolineare quanto il polacco non sia cambiato di una virgola nel suo approccio alla gara, erano stati 16,4. Qui va forse spezzata una lancia in difesa di Giampaolo: laddove il tecnico cercava di trovare un compromesso con il suo attaccante, stimolandone una crescita in aspetti del gioco che andassero oltre la finalizzazione, la risposta non è stata poi granché collaborativa. Infine Paquetá: il brasiliano, arrivato a Milano lo scorso gennaio, è tra i migliori giocatori del Milan in quanto a qualità tecnica pura (controllo del pallone, dribbling, lettura degli spazi stretti), e il fatto che Giampaolo non sia riuscito a valorizzarlo – anche se in mezzo c’è stato l’infortunio – è una macchia non indifferente sul suo curriculum.

In ogni caso non tutto ciò che è successo nell’ultimo mese e mezzo è da buttare. Nel caos del suo Milan Giampaolo lascia comunque in eredità a chi gli succederà due giocatori forti e perfettamente funzionali a risolvere il problema dell’asimmetria che ha condizionato la fase di possesso dei rossoneri fino ad ora: Rafael Leão e Theo Hernández. Dato per scontato il loro impiego e considerato il rientro di Paquetá nell’undici titolare ci sarà da attendersi un Milan più versatile e molto offensivo, almeno sulla carta, e con un assetto più o meno già definito nei singoli. Anche per questo la sensazione è che le ragioni dell’esonero di Giampaolo vadano ricercate oltre il campo: è vero, la squadra non è stata incoraggiante nemmeno in occasione della vittoria di Genova, ma quantomeno si erano finalmente trovati dei punti fermi definitivi, quelli appena illustrati qua sopra. La sosta poteva essere un momento in cui fermarsi, guardarsi alle spalle e riflettere, per poi ripartire.

Prima di allenare i rossoneri, Giampaolo ha guidato sette squadre in Serie A: Ascoli, Cagliari, Siena, Catania, Cesena, Empoli e Sampdoria (Tullio M. Puglia/Getty Images)

A Giampaolo è mancata prima di tutto la fiducia dei suoi calciatori; nei suoi centodieci giorni a Milanello non è riuscito ad illustrare con chiarezza sufficiente le sue idee, e di fronte ad una rosa lacunosa si è trovato di fronte ad un bivio: dare continuità ai suoi principi, al suo trequartista dietro alle due punte, o cedere completamente all’attitudine poco collaborativa dei giocatori chiave. L’impressione da fuori è che abbia scelto una scorciatoia tra queste due vie, che abbia provato a trattare senza snaturarsi troppo, e che alla fine, privo di punti di riferimento, si sia confuso e perso per strada. Un problema di natura tattica che non si è risolto con il passare delle settimane e ha avvelenato tutto l’ambiente. Come spesso accade in situazioni di questo genere, poi, è stata decisiva una certa mentalità imprenditoriale che ama parlare di progetti e di idee condivise, ma che alle prime difficoltà non si fa troppi problemi a rinnegarsi e volgere lo sguardo dalla parte opposta.

In definitiva, è evidente che attorno al Milan si siano ancora una volta costruite attese di gran lunga superiori alle reali potenzialità nel breve termine. Non è una novità, piuttosto la norma, e preoccupa il fatto che, sei anni dopo l’ultimo piazzamento-Champions, la lezione sia ancora lì appesa, in attesa di essere imparata. Ciò non toglie che le responsabilità di Giampaolo nel pessimo avvio di stagione del Milan debbano essere chiare: alla prima esperienza in un club di alto livello, reduce da una qualificazione in Champions League appena sfiorata soltanto pochi mesi fa, l’ormai ex tecnico rossonero ha manifestato evidenti limiti gestionali, e si è mostrato a più riprese poco incline ad attutire la pur smisurata pressione a cui è stato sottoposto fin dalla prima giornata. È stato travolto, Giampaolo, e il Milan ha deciso che lasciarlo crollare da solo fosse la scelta meno dolorosa per il proprio futuro. Solo il tempo ci dirà se ai piani alti ci avranno visto lungo, oppure no.