Quando il pubblico del Meazza si alza in piedi e applaude Franck Ribery, non rende merito solo alla straordinaria prestazione di un avversario, né è condizionato dal pessimo momento della squadra per cui è lì, cioè il Milan. Applaude perché Ribery, che sta uscendo dal campo all’89’ della partita tra i rossoneri e la Fiorentina, dieci minuti dopo aver segnato il momentaneo 0-3, è un simbolo, un monumento, personaggio trasversale, apprezzato da tutti coloro che amano il gioco, anche da chi lo sta affrontando. Lo applaudono perché è un uomo che ha voluto vivere fino in fondo il calcio vero, il calcio competitivo, difficile. La differenza rispetto ad altre scelte simili è che la scelta di Ribery non sembra essere il rifiuto del tramonto di carriera, ma tutto il contrario: è lo sforzo ulteriore e per nulla scontato di un professionista che, a 36 anni, decide di mettersi ancora in gioco in una squadra come la Fiorentina, reduce da un fallimento sportivo, accerchiata da un umore grigio, colpevole del distacco dei tifosi ma allo stesso tempo vittima di questo allontanamento. E la prestazione del Meazza, giunta alla sesta giornata, è in qualche modo il momento in cui Ribery dimostra la bontà della sua scelta, quello in cui ribalta il contesto e restituisce la Fiorentina non solo ai suoi tifosi, ma anche al calcio italiano.
In realtà, l’efficacia di Ribery in viola non dovrebbe stupire perché era il giocatore di cui questa squadra – e per esteso, la società, la città e, come detto, anche il campionato italiano – avevano bisogno. Dovrebbe semmai stupire il fatto che lui, tra le altre, abbia scelto la squadra viola e la Serie A. Dopo aver vinto (quasi) tutto, e con una carriera ai massimi livelli che ha evidentemente richiesto uno sforzo elevato, soprattutto per un’ala di ruolo che ha basato per anni il suo gioco sullo spunto e la velocità, Ribery avrebbe potuto spendere il credito guadagnato, godersi un prepensionamento dorato in America, in Cina, o in Qatar. Le offerte non gli mancavano, e di certo erano più remunerative rispetto al pur ottimo contratto da 4 milioni netti a stagione proposto dalla Fiorentina. Eppure Ribery non ha avuto dubbi.
E, con il senno di poi, non è un caso nemmeno che abbia scelto la Viola: una società appena rilevata da un nuovo presidente, che stava vivendo una sorta di liberazione dal passato, in cui potersi quindi inserire come primo elemento di rinascita. Ribery è stato romantico, nella scelta, ma anche coraggioso – non è scontato cambiare campionato e realtà dopo 12 anni al Bayern, in Bundesliga, e dover essere efficace fin da subito, visto il tempo ridotto dall’anagrafe – e intelligente: ha intravisto nella Fiorentina una tabula rasa che avrebbe potuto soltanto crescere, in termini sportivi, economici, di entusiasmo.
L’atteggiamento entusiasta di Commisso, inoltre, ha contribuito a creare un cortocircuito mediatico. Per una parte dell’opinione pubblica, Ribery era un ingaggio utile a spolverare l’immagine della Fiorentina e ad accendere i riflettori sul nuovo corso: un colpo d’immagine, e basta. Si è sottovalutato il giocatore-Ribery, il cui atteggiamento non è quello di una superstar alla ricerca dell’ultima platea, ma quello di un professionista vivo, che gioca per trascinare la squadra al traguardo, anche se questo traguardo non è chiaro, e non è un titolo. E non è stato considerato il fatto che che il principale difetto dell’ingaggio, ovvero l’età, era in realtà il primo pregio del suo sbarco a Firenze, nonché il segreto della sua efficacia: la Fiorentina aveva bisogno di uno come lui per dare un senso a un progetto basato sui giovani, tanto quanto lui aveva bisogno della giovane Fiorentina per dare un senso al finale della sua carriera.
Quella viola è infatti la rosa più giovane del campionato con 25,2 anni di media, una virtù che in assenza di riferimenti diventa facilmente un difetto, come era accaduto lo scorso anno. Per una squadra così inevitabilmente ingenua, avere giocatori di esperienza e spessore non è un lusso, piuttosto una necessità. Il punto, semmai, era trovarne del calibro di Ribery, navigati ma integri fisicamente (il francese era reduce da una stagione vissuta non da titolare inamovibile, ma nemmeno da comparsa, con 38 presenze totali) e ancora, come da sua stessa ammissione, «giovani dentro», in grado di dare alla squadra più di quanto fosse lecito aspettarsi. È il contrario del finale di carriera che i giocatori come Ribery (promemoria: 26 trofei in bacheca, tra cui una Champions, 9 Bundesliga, 6 Coppa di Germania) di solito cercano: anziché qualche annata per vivere di rendita, una realtà in cui si è fin da subito in debito, in cui si è così attesi da non potersi sottrarre a un ruolo di leader, fin dal primo istante.
Ribery ha cercato questa responsabilità. È stata la leva che lo ha indirizzato verso Firenze. E ha già dimostrato di essere all’altezza della sua stessa scelta, il suo atteggiamento è ideale nel suo nuovo contesto: non si atteggia a divo, non gioca da star ma come se dovesse ancora guadagnarsi tutto. È perfetto per la Fiorentina, quindi, perché così cancella l’alibi dell’inesperienza dietro il quale si erano nascosti i giocatori l’anno scorso, e rende in automatico tutti più responsabili dei risultati e del rendimento. Perché se uno come Ribery si allena e gioca con questa professionalità, intensità e umiltà, perché non dovrebbero farlo anche gli altri?
C’è tanto di Ribery in quest’ottimo inizio in Italia, ma c’è anche tanto della Fiorentina, che ha creato, in parte volontariamente, in parte senza volerlo, un contesto ideale per il francese. Prima in campo, dove c’è la mano di Montella. Il tecnico ha infatti costruito un sistema su misura per il francese anche dal punto di vista tattico. Ha virato sul 3-5-2 per dare solidità alla difesa, ma anche per mettere il fuoriclasse al centro del progetto, e lo ha fatto senza indugi, da subito, responsabilizzando quindi l’ex Bayern.
Sembrava un controsenso: acquisti una delle migliori ali dell’ultimo decennio e rinunci a un modulo che preveda quel ruolo? Solo che Ribery è cambiato, e quello della Fiorentina pare un sistema perfetto per quello che oggi è diventato: da attaccante nel 3-5-2 non è costretto a isolarsi sulla fascia e cercare la giocata vincente, ma è innervato nel sistema, può mettere la sua tecnica al servizio di una squadra che ha bisogno di un epicentro per risalire il campo, qualcuno in grado di dettare i tempi di gioco e rifinire gli attacchi verticali. Attacchi che, vista l’assenza di un centravanti autentico, avvengono attraverso gli inserimenti di Castrovilli, il perfetto contrappeso di Ribery, e con le corse verticali di Chiesa, degli esterni e dello stesso francese. E Ribery, in questo sistema, può risparmiarsi in fase difensiva, evitare lunghe corse sulla fascia in ripiegamento, preservarsi per la fase di possesso e mantenere le abitudini creative: è infatti il giocatore in A che prova più dribbling, 2,9 a partita – il primo è Falco del Lecce, che raggiunge quota 3.
E poi c’è il discorso che riguarda la vita fuori dal campo, là dove Ribery desiderava essere messo a suo agio, come ha suggerito alla Bild in un’intervista in cui ha spiegato come fosse «alla ricerca di una nuova esperienza, un nuovo paese, una nuova vita». Ribery ha messo tutto sullo stesso piano, il campo e la quotidianità, e questa è la chiave della sua scelta. A sua volta, Commisso è stato abile a presentarlo come uomo-simbolo di un nuovo inizio, come biglietto da visita nei confronti di Firenze, come oggetto in grado di rispolverare un entusiasmo perduto, senza però esagerare nelle dichiarazioni: il nuovo proprietario della Fiorentina non ha parlato di obiettivi, solo di una promessa mantenuta, riportare grandi giocatori in viola. Così la città ha ritrovato il piacere di gustarsi il calcio, e di avere in squadra un grande giocatore, non un campione a fine carriera.