Thiago Motta, per togliersi le etichette

Da giocatore, ora anche da allenatore, il nuovo tecnico del Genoa è qualcosa di più rispetto a quanto si dice di lui.

È cambiato il lavoro di Thiago Motta, da giocatore ad allenatore, ma non sembra essere cambiato il suo destino. Tanto era bersagliato dai pregiudizi da giocatore, quanto lo è ancora da allenatore. Siano essi positivi o, molto più spesso, negativi. È bastata una partita a trasformarlo nel “mago dei cambi”, visto che i tre giocatori inseriti nella sua gara d’esordio da tecnico del Genoa hanno segnato tutti i gol della rimonta ottenuta sul Brescia: non era mai successo nel campionato italiano che entrassero nel tabellino tutti i subentrati di una sola squadra. Non era mai successo anche perché è un evento casuale, un colpo di fortuna, che non fa di Thiago Motta uno specialista, un genio in materia di sostituzioni. La premessa è d’obbligo perché, a quanto pare, il nuovo allenatore del Genoa è scivolato in un tunnel mediatico in cui viene etichettato qualsiasi cosa faccia o dica, quando invece meriterebbe di essere osservato con attenzione e pazienza perché il suo curriculum può essere la premessa di una carriera in panchina di prim’ordine.

Le forzature mediatiche su Thiago Motta, come detto, non sono una novità. La più nota è quella relativa al 2-7-2, modulo che, stando ai titoli dei giornali, l’italobrasiliano avrebbe inventato per rivoluzionare il calcio. In realtà, durante la ormai arcinota intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport un anno fa, quando era allenatore dell’Under 19 del Psg, disse che «la formazione si potrebbe leggere anche in senso opposto, partendo dalle fasce: che ne dice se giochiamo con il 2-7-2?». Era un modo per sottolineare che siamo abituati a identificare lo schieramento di una squadra in un certo modo, cioè escludendo il portiere e leggendolo dalla difesa all’attacco, quando in realtà si potrebbe fare tutto il contrario visto che il modulo, in fondo, è un concetto secondario. Se non del tutto irrilevante.

Invece, per paradosso, proprio il modulo è diventato l’unico oggetto di interesse di quell’intervista e, alla lunga, il metro di giudizio su Thiago Motta; di cui si continuano a ignorare i principi, che invece sono il nocciolo del suo metodo. In più, una volta travisata e innestata nel vortice del giornalismo sportivo italiano, quella frase è diventata il pretesto per considerare l’italobrasiliano un visionario della panchina, un rivoluzionario del calcio, una specie di scienziato pazzo che ha capito in anticipo il futuro del gioco ed è solo in attesa di poter avviare il processo. Così non è, naturalmente: Thiago non ha inventato nulla, non ha intenzione di farlo, né è lecito aspettarsi che lo faccia al Genoa, considerando le numerose difficoltà che è chiamato ad affrontare. E quella frase, come dovrebbe essere ovvio, era una provocazione. Di certo, però, conteneva l’idea di calcio di Motta. Bastava guardare la luna anziché il dito.

Il primo equivoco da eliminare è che Thiago predichi il cosiddetto “calcio libero”, altro epiteto forzatamente affibbiato al suo gioco in questi giorni. Semmai il suo ideale potrebbe essere l’esatto contrario della “libertà”, ovvero un calcio iperorganizzato, in cui i giocatori sono al servizio del gioco, ne sono devoti e dalla perfezione di quest’ultimo ne sono protetti. In sostanza, Thiago Motta chiede fiducia ai suoi calciatori, e in cambio promette loro uno spartito in grado di esaltarne le doti e portarli ad un livello superiore. Il principio di fondo del suo calcio è l’esaltazione del singolo attraverso la semplificazione dei compiti che quest’ultimo deve eseguire in campo, possibile grazie ad uno studio maniacale di tutti gli sviluppi di gioco possibili in un dato momento.

Per Thiago è naturale che il calcio vada inteso così, vista la sua carriera in campo: era un centrocampista che illuminava il copione scritto dal tecnico, lavorando nell’ombra e finendo per essere sottovalutato. In panchina ha semplicemente importato il suo modo di giocare, quindi cercherà di plasmare calciatori a sua immagine e somiglianza, disponibili a servire la squadra prima che loro stessi. La sfida, ora, è semmai applicare questa didattica in una prima squadra come il Genoa, dove i calciatori non sono più in formazione e dunque vanno convinti a proseguire un percorso di apprendimento. È lo scoglio che Thiago si trova di fronte e con cui dovrà misurarsi in presa diretta, dal momento che finora la sua esperienza in panchina è limitata ad un anno con gli Under 19 del Psg, un contesto in cui la disponibilità alla didattica è centrale e scontata e necessaria.

Thiago Motta al Genoa, un ricordo vintage: con i rossoblu ha giocato 27 partite nella stagione 2008/09, con sei gol segnati (Fabio Muzzi/AFP via Getty Images)

Insomma, Thiago Motta non è un rivoluzionario come gran parte della critica presume (forse anche per il gusto di vederlo fallire), ma andrebbe osservato con interesse perché ha tutto per diventarlo. Ha tutto perché ha giocato in squadre profondamente segnate dai rispettivi tecnici, ed è stato allenato da figure radicalmente diverse tra loro, che però hanno ugualmente contribuito a definire alcuni degli ultimi sviluppi del gioco. Thiago, infatti, è stato forgiato al Barcellona da van Gaal e Rijkaard; è diventato il perfetto centrocampista totale e ritmico di Gasperini al Genoa; si è compiuto nel dominio degli spazi dell’Inter di Mourinho; ha conosciuto la gestione umana di Ancelotti al Psg; ha assaggiato l’impatto istantaneo di Conte nella nazionale italiana all’Europeo 2016. Riuscisse a sintetizzare il metodo di questi allenatori, diventerebbe completo.

L’impressione – nulla di più: gli elementi per valutarlo sono ancora troppo pochi – è che stia sviluppando un metodo suo che riassuma l’enorme quantità di informazioni accumulate in carriera, che si stia proteggendo, in sostanza, cercando una sua autenticità. Il rischio, infatti, è farsi influenzare in eccesso da questi “maestri” e rimanere interdetto come allenatore, così come è accaduto al Thiago-calciatore, sfaccettato al punto da sembrare incolore ad un occhio superficiale. La ricchezza conoscitiva di Motta va maneggiata con cura anche perché è abbinata ad un’intersezione culturale particolarmente fortunata: Thiago è nato nel calcio brasiliano, è cresciuto in quello catalano, si è esaltato in quello italiano. Ha quindi indossato tre stili diversi e complementari tra loro da calciatore, che ora è chiamato a reinterpretare come tecnico.

Il pressing alto nella zona in cui si perde il possesso, il pensiero collettivo, l’aiuto reciproco, l’intensità: i concetti del calcio di Thiago Motta sintetizzati in qualche ripresa durante un allenamento dell’Under 19 del Psg.

La quantità di informazioni incontrate da Motta in carriera è enorme e va gestita con intelligenza. Tutto si può dire, di Thiago Motta, fuorché non sia intelligente. Lo ha dimostrato anche nel suo approccio al Genoa: nelle prime tre conferenze, non ha parlato di tattica, né ha delineato i contorni di ciò che la squadra potrà diventare; piuttosto ha snellito il dialogo, ha portato semplicità, normalità, dopo aver percepito che l’ambiente aveva bisogno di pragmatismo, di tornare sulla terra.

Prima dell’esordio con il Brescia ha ribadito fino alla noia l’importanza del concetto di squadra e la professionalità dei giocatori durante gli allenamenti, dribblando qualsiasi domanda sulla tattica. E quando gli è stato chiesto se avrebbe giocato con la difesa a quattro o a tre, ha sorriso, come se si fosse ricordato delle stravaganti conseguenze della sua intervista e dell’eccessiva importanza assegnata al modulo nel contesto italiano, e poi ha risposto che «non ha alcuna importanza, perché contano i principi di gioco e quelli li dovremo avere sempre uguali».

Tre stagioni in nerazzurro: 83 partite giocate e 12 gol in tutte le competizioni (Tullio Puglia/Getty Images)

Infatti, con il Brescia ha cominciato con un 3-4-1-2 e ha finito con un 4-3-3 piuttosto classico, dimostrando con i fatti quanto accennava nell’intervista del 2-7-2 e lasciando intravedere qualche sfumatura del suo calcio. Ovvero, l’elasticità nel passaggio da un sistema all’altro, proprio perché non è un riferimento rigido, la capacità di dialogare con i giocatori e di sfruttare l’intervallo (non si spiegherebbe altrimenti il netto cambio di atteggiamento nella ripresa, dopo un primo tempo apatico) e la compattezza della squadra in campo, con le distanze tra gli uomini e i reparti ridotte al minimo – la lunghezza media sul campo è stata di 22,5 metri (21,7 metri il primo, 23,3 il secondo), di gran lunga inferiore rispetto a quella del Brescia (29,8 metri), anche se la squadra non ha ancora assorbito i meccanismi di pressione né la qualità nel palleggio utili ad alzare il baricentro, rimasto infatti a 49,7 metri, cioè dietro la linea di metà campo.

È ovviamente troppo presto anche solo per iniziare a giudicare Thiago Motta, ma di certo la prima partita ha evidenziato alcune caratteristiche che smontano qualche preconcetto sul suo modo di allenare, e che ne delineano la figura come tecnico. Thiago vuole che la sua squadra impari a memoria alcuni meccanismi in modo da poterla modellare senza che questi meccanismi vadano perduti. È quindi rigido nella costruzione del gioco ma allo stesso tempo elastico nel cambiare il modo in cui questo gioco si sviluppa. È un didattico che però sa anche leggere le situazioni e i momenti della partita, e rischiare, trasformare, agire. Ha la sensibilità per gestire gli uomini, ma anche per compiere scelte scomode, altrimenti non avrebbe lanciato Agudelo e Gumus nella sua gara d’esordio, prima ignorati da Andreazzoli. Oltre il 2-7-2, oltre tutte le etichette: quel poco che si è intravisto di Thiago Motta è di certo qualcosa di più interessante.