L’Union Berlin è un brand in crescita, non solo un club di culto

La dirigenza del secondo club della capitale sta costruendo una struttura commerciale di primo livello, senza smarrire le sue radici.

“Aufstiegsrasen” è uno di quei sostantivi composti del vocabolario tedesco che in italiano può essere reso solo con una perifrasi poco affascinante: “il prato della promozione”. E’ così che l’Union Berlin ha rinominato l’erba dello Stadion An der Alten Försterei su cui, il 27 maggio 2019, ha conquistato l’accesso in Bundesliga, per la prima volta nella sua storia, al termine di una doppia sfida contro lo Stoccarda, tesa fino all’ultimo minuto dopo il 2-2 dell’andata e lo 0-0 del ritorno.

Da ottobre, negli store online e fisici del club, l’Aufstiegsrasen è in vendita sia sottoforma di ciuffetto di erba portachiavi sia come zolla intera racchiusa in un blocco monolitico di plexiglass. Qualche purista che ha strappato a mano pezzetti di terreno o ha tagliato i lembi delle reti delle porte, come tradizionale consuetudine, potrà storcere il naso e avere la stessa reazione che si ha, per restare nella capitale tedesca, dinanzi ai resti di Muro venduti come souvenir e spacciati per autentici. Ma se ci si domanda come mai l’Union Berlin abbia centrato la promozione solamente nel 2019 dopo oltre mezzo secolo dalla fondazione e dopo 30 anni dalla nascita dell’attuale Bundesliga, parte delle risposte arrivano dal consolidamento della struttura societaria che si poggia anche e soprattutto sulla riorganizzazione del brand e della gestione del merchandising.

L’Union Berlin è un club di culto, dal 1966 – anno in cui è stato rifondato con l’attuale denominazione – roccaforte di dissenso contro il regime della DDR ed espressione valoriale di identità e appartenenza che riecheggia anche nelle strofe dell’inno: “immer wieder, Eisern Union”, ancora e ancora l’unione di ferro, nei decenni di carestia sportiva e soprusi, ha cementato il rapporto tra dirigenti, calciatori e tifosi. Prima di essere squadra della capitale tedesca, infatti, l’Union è la squadra di Treptow-Köpenick, distretto a Sud-Est di Berlino, un legame molto più stretto, più ristretto, viscerale e intimo come testimoniamo i soli 22.012 posti dello stadio. Per intenderci: tra le attuali 18 squadre nel massimo campionato tedesco, attualmente solo l’impianto del Paderborn ne conta di meno.

I numeri sono dimensionati all’intero di una gestione che per decenni è stata pressoché amatoriale e di sussistenza, incentrata su prestiti, plusvalenze e valorizzazione della primavera: prima delle operazioni di quest’estate, necessarie per fronteggiare la Bundes, Sebastian Polter è stato l’investimento più costoso nella storia del calciomercato del club, prelevato nel dicembre 2016 per 1,6 milioni di euro dal Queens Park Rangers. Dirk Zingler, presidente dal 2004, ripete come un mantra che l’aspetto virtuoso del club sta tutto nella formula del «non spendere più soldi di quelli che si incassano». È un modello di autofinanziamento che ha funzionato solo grazie a una visione a lungo termine e costante, accettando anni di purgatorio per rimpinguare le casse senza eccessivi strappi. A metà degli anni Duemila, l’Union ha più volte rischiato il fallimento e la bancarotta ed è stato soccorso dai tifosi che hanno donato il sangue per pagare l’iscrizione al campionato. Nella stagione 2017-2018, i ricavi totali sono stati pari a 43,97 milioni di euro, superando per la prima volta la soglia dei 40 milioni; l’Union, però, solo dieci anni prima era ancora in Dritte Liga, la terza serie della piramide calcistica tedesca.

Ritter Keule è la mascotte ufficiale dell’Union Berlin: è la rappresentazione di un cavaliere medievale, e ha anche una pagina Facebook ufficiale (Tobias Schwarz/AFP/Getty Images)

La crescita e il saldo costantemente in segno positivo dell’ultimo triennio coincide con la rapida espansione del marchio fuori dal perimetro ristretto di Köpenick, e ha un preciso momento di svolta: alla fine del 2015, dopo un anomalo intrigo economico che vide coinvolti la squadra berlinese, il St. Pauli e la Upsolut, società che al tempo gestiva il merchandising dei due club allora antagonisti in Zweiteliga. Nel 2004, sull’orlo del baratro finanziario, il presidente della squadra di Amburgo, Corny Littmann, decise di cedere i diritti per la produzione di gadget al rivenditore Upsolut: con un accordo trentennale per un ricavo di un milione di euro, il celebre teschio Jolly Roger passò al 90% in mano a esterni (il club manteneva solo il 10%). Cinque anni più tardi, nel 2009, il St. Pauli fece causa alla società rea di aver sfruttato oltre i valori etici la difficoltà economia della squadra proponendo un contratto, giudicato da loro, immorale e, dopo anni controversi e una lunga disputa legale, dal primo gennaio 2016, il St. Pauli si è riappropriato dei suoi diritti di marketing. In un intricato rapporto contrattuale, l’Union Berlin proprio in quella fase aveva firmato un prolungamento fino al 2020 con la Upsolut. Nel grande pasticciaccio che si era creato, i berlinesi si erano trovati dinanzi a un grottesco paradosso: in buona sostanza ogni sciarpa, ogni bandiera, ogni articolo venduto avrebbe rifocillato le casse della rivale amburghese. Da qui, l’immediata decisione di interrompere anzitempo il rapporto per prendersi a carico, in completa autonomia, la gestione del “made in Köpenick”.

Partendo completamente da zero, la squadra di Berlino Est ha messo in piedi un nuovo ufficio dedito esclusivamente al rafforzamento e alla diffusione del brand, scelta che ha ispessito ulteriormente l’orgoglio dei tifosi: in una posizione strategica, lungo via Bahnhofstraße, appena scesi dalla stazione del quartiere, quello stesso anno ha aperto l’Union Zeughaus, il primo store ufficiale con relativo sito internet. Solo entrandoci si può percepire la maniacale passione per un club che non si esaurisce al termine dei 90 minuti di gioco, ma vive anche nel quotidiano: da elementi per l’arredo casalingo ad accessori per la macchina, tra monili strambi e disparati c’è anche il gioco da tavolo Monopoly in edizione speciale dedicato ai colori Rot und Weiß.

Nel giro di un anno solare il fatturato è aumentato del 300%, ma a posizionare la brand reputation del club su scala internazionale è stato il rapporto fondamentale con Macron, azienda di sportwear italiana con sede a Crespellano, che appena un anno prima, nel 2014 aveva deciso di entrare nel mercato tedesco calcistico con una doppia affiliazione in qualità di sponsor tecnico di Monaco 1860 e dell’Union Berlin stesso. Con un contratto quinquennale, i berlinesi hanno fatto il salto di qualità definitivo: come spiegato da Roberto Casolari, sports marketing director, la sinergia ha funzionato a tutto tondo realizzando divise da gioco – tra cui quella del cinquantesimo anniversario della fondazione, celebrato il 20 gennaio 2016 – disegnate ad hoc con i suggerimenti del team e dei tifosi per entrare nel cuore senza limitarsi a fornire una maglia da catalogo che, tolto lo stemma, qualsiasi altra realtà calcistica avrebbe potuto indossare. Coccolare la passione del tifoso e portarlo al centro del progetto ha trovato conferma nei numeri di vendita: dal primo anno Macron ha venduto circa 10 mila maglie, un numero aggiustato di alcune unità stagione dopo stagione fino all’esplosione coincisa con la promozione in massima serie che impegnerà l’azienda a mettere in commercio oltre 20 mila maglie.

Il più grande risultato di questo inizio di stagione: 3-1 al Borussia Dortmund, alla terza giornata di campionato (Odd Andersen/AFP/Getty Images)

Credendo nell’idea di glocalizzazione di Macron, ovvero identificarsi sia nel mercato locale che globale, l’Union Berlin ha aperto due nuovi store fissi, uno direttamente allo stadio e l’altro in centro a Berlino, una bandierina iconica e significativa nel processo di ramificazione e capillarità oltre i confini. Trenta grandi catene tedesche vendono maglie e gadget in tutta la Germania, mentre con le piattaforme online si raggiungono 20 Nazioni tra Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone, Russia e i principali paesi europei. Dalla stagione 2020-2021 Macron lascerà spazio all’Adidas che, strategicamente, vuole essere nella capitale per duellare con l’Hertha e la Nike, suggellando di fatto la crescita di una realtà che in un decennio ha abbandonato l’etichetta di periferia senza snaturare e svendere la sua identità fatta di relazioni umane e genuine con il popolo supporter.

L’equilibrio tra business e passione sarà il vero banco di prova del modello Union Berlin nei prossimi anni. Il club, nonostante il primo anno in Bundesliga, ha scelto di non aumentare il costo dei biglietti e di venderli allo stesso prezzo della Zweiteliga e ha supportato la curva, contribuendo economicamente alla realizzazione delle coreografie durante le prime uscite casalinghe. Allo stesso tempo, però, ha siglato un accordo con Aroundtown, una società immobiliare con sede in Lussemburgo, che da quest’anno appare come sponsor sulla maglia: una scelta disprezzata e criticata da quelle parti per gli investimenti e la conseguente cementificazione sul territorio della stessa compagnia. Ma qui vale quanto detto da Christian Arbeit, addetto stampa della società e figura che gode di stima infinita: «Non si può restare in Bundes vendendo birra e bratwurst».