L’arrivo di Carlo Ancelotti sulla panchina del Napoli aveva un chiaro significato manageriale. Dopo il protezionismo dell’era-Sarri, l’ex allenatore di Bayern Monaco e Real Madrid avrebbe avallato e permesso un cambio di strategia del club sul mercato, avrebbe accettato l’eventualità di alcune cessioni importanti a fronte di concrete rassicurazioni sull’acquisto di giocatori di alto livello, che magari sarebbero stati invogliati ad accettare di trasferirsi al Napoli anche grazie alla sua presenza. L’idea, quindi, era che la società partenopea fosse all’inizio di una rivoluzione tattica, ma soprattutto dell’organico. In realtà non è andata proprio così: dei 12 giocatori con più di duemila minuti giocati nell’ultima stagione di Sarri (2017/18), sono stati ceduti solo Reina, Albiol, Hamsik e Jorginho. Considerando che i primi tre sono andati via quando avevano già superato i 31 anni, generando tra l’altro un incasso totale relativamente basso (25 milioni di euro), non è eccessivo scrivere che l’unica cessione “di sistema” rispetto al triennio di Sarri sia stata quella di Jorginho al Chelsea.
Il Napoli 2019/20 è dunque una squadra ibrida, in cui alcuni calciatori arrivati con Ancelotti e dopo Ancelotti, quindi plasmati da Ancelotti, hanno un ruolo importante (Di Lorenzo e Fabián Ruiz sono i due elementi più utilizzati, rispettivamente hanno giocato 1350 e 1296 minuti in tutte le competizioni); oltre a loro, però, il Napoli si basa ancora sugli uomini-simbolo del ciclo precedente: Koulibaly, Mertens, Callejón, Insigne e Zielinski vengono subito dopo l’ex terzino dell’Empoli e il centrocampista andaluso per quantità di minuti giocati.
Nonostante questa condizione sospesa tra staticità ed evoluzione, Ancelotti ha deciso di dare nuovi stimoli tattici alla squadra: la sua idea è stata quella di creare un sistema a due facce, rigido nella fase difensiva (articolata su un 4-4-2 scolastico e immutabile) ed estremamente fluido quando c’è da costruire la manovra d’attacco. Alla base di questo progetto c’era la volontà di responsabilizzare i giocatori in maniera diversa rispetto a quanto fatto dal suo predecessore: nel gioco e nella mente di Sarri, ogni elemento del Napoli era considerato come l’ingranaggio di una macchina, aveva dei compiti precisi da svolgere in tutte fasi di gioco, dei movimenti da compiere e/o delle situazioni da interpretare, attraverso dei meccanismi fissi cui fare costantemente riferimento. Con Ancelotti, invece, è diminuita l’influenza totalizzante dei principi di gioco e sono cresciute le attribuzioni individuali, soprattutto in fase offensiva, per cui i calciatori si sono ritrovati più liberi da sovrastrutture predefinite, ma anche costretti a scegliere di volta in volta come far progredire la manovra. Per estensione, il Napoli è diventata una squadra in grado di sperimentare strategie d’attacco diverse e diversificate per ogni partita, e all’interno della stessa partita – non a caso, fin dai primi giorni di ritiro a Dimaro nell’estate 2018, Ancelotti e i componenti del suo staff hanno dichiarato che l’obiettivo del loro lavoro sul campo era di tipo additivo, volevano che il Napoli diventasse «una squadra tatticamente completa».
Questa trasformazione tattica e politica avrebbe dovuto determinare, nell’ordine: una crescita mentale dell’organico, nel senso che sarebbero dovute aumentare la consapevolezza, la fiducia nei propri mezzi, la personalità dei giocatori; maggiori occasioni per ruotare tutti gli uomini della rosa, del resto la critica più feroce e frequente che De Laurentiis muoveva a Sarri riguardava proprio il mancato turnover; conseguentemente, una valorizzazione dell’unico asset reale del club partenopeo, ovvero i componenti dell’organico. In alcuni momenti della scorsa stagione, alcuni di questi obiettivi sembravano essere stati centrati: il Napoli ha rinunciato ad alcuni dei tratti più caratterizzanti dell’era-Sarri – per esempio la ricerca del dominio assoluto in tutte le partite attraverso gli strumenti del pressing asfissiante, del possesso palla e del gioco di posizione – per sposare un calcio più eterogeneo, più vario, nella scelta degli interpreti e quindi nelle soluzioni.
Anche alcuni elementi della rosa sembravano essersi giovati di questo cambiamento: Koulibaly ha confermato, se non addirittura migliorato, il rendimento mostrato nelle stagioni precedenti, al punto di essere nominato miglior difensore dell’ultima Serie A; Milik ha raggiunto quota 20 gol realizzati in tutte le competizioni, senza rigori; Fabián Ruiz, soprattutto, si è imposto come uno dei centrocampisti più promettenti e moderni e versatili non solo del campionato italiano, ma dell’intero panorama europeo. Per quanto riguarda gli altri giocatori, il resoconto è più incerto: Mertens è stato l’attaccante più determinante (19 gol e 12 assist in tutte le competizioni), ma non ha raggiunto i picchi di qualità degli anni precedenti; Insigne, Callejón e Allan hanno avuto un rendimento altalenante, frutto anche di vari cambiamenti di posizione e compiti tattici rispetto agli anni precedenti.
Alla vigilia di questa stagione, le aspettative erano molto alte. Il mercato in uscita è rimasto conservativo, anzi l’unica cessione del tronco dei titolari, quella di Albiol, è stata compensata dall’arrivo di Manolas; Di Lorenzo è diventato la prima scelta nello slot di laterale basso a destra; sono arrivati Elmas, Lozano e Llorente per ampliare il parco alternative e per sostituire i vari Diawara, Rog, Verdi e Ounas – elementi dall’impatto praticamente nullo nell’ultima stagione. Il fatto che tutti gli altri giocatori non dovessero metabolizzare il nuovo sistema faceva sperare, se non addirittura presagire, in una grande annata. La crisi di risultati e di gioco arrivata dopo un avvio promettente, culminato nel 2-0 al Liverpool del 17 settembre, ha sgretolato queste certezze. Il Napoli ha smarrito la sua forza offensiva, da inizio ottobre a oggi ha segnato dieci gol in nove partite. In tre di queste nove partite (contro Genk, Torino e Genoa), la squadra azzurra non è riuscita ad andare a segno. L’inaridimento della manovra offensiva è sintomo di un malessere più profondo, che non può essere spiegato solo con il (consistente) numero di tiri che sono finiti su pali e traverse – nove legni in Serie A, cinque in Champions League. Piuttosto, la sensazione è che l’intero progetto tattico di Ancelotti non sia perfettamente compatibile con i giocatori a sua disposizione.
È una questione di spessore mentale: Koulibaly, Allan, Callejón, Mertens e Insigne non hanno retto a una pressione doppia, anzi raddoppiata, derivante dai risultati non più in linea con gli standard richiesti, e dal fatto che il calcio liquido di Ancelotti demandasse soprattutto ai calciatori la determinazione di quegli stessi risultati che mancavano. Dopo diversi anni, i principali colpevoli del rendimento negativo sono diventati i calciatori, cioè proprio loro; è come se il nuovo sistema tattico non avesse solo cancellato dei meccanismi di riferimento cui appigliarsi nei momenti difficili, ma avesse anche tolto tutti gli alibi alla rosa – per esempio la scarsa condizione, fisiologica in alcuni momenti della stagione, e che pregiudica l’efficacia di sistemi di gioco funzionanti per un lungo periodo, oppure i fattori esterni.
La tensione ha finito per divorare tutto l’ambiente, a partire dallo spogliatoio. Non a caso, proprio Koulibaly, Allan, Callejón, Mertens e Insigne avrebbero guidato la rivolta interna dopo il pareggio contro il Salisburgo, secondo le ricostruzioni dei media sarebbero stati i leader che si sono ribellati al ritiro imposto dal club, compromettendo di fatto il rapporto con la proprietà. Un’altra coincidenza che non è una coincidenza: questi eventi si sono intrecciati con una situazione intricata sul mercato. Anzi, con più situazioni intricate sul mercato: Callejón e Mertens hanno il contratto in scadenza a fine stagione, Allan è stato in procinto di andar via a gennaio 2019, Koulibaly ha ricevuto offerte da club di primo livello – sempre rifiutate dal Napoli, almeno secondo le dichiarazioni di De Laurentiis – e Insigne ha cambiato recentemente procuratore.
È evidente come tutte le componenti del Napoli siano rimaste vittima di una serie di equivoci. De Laurentiis ha solo abbozzato ma non ha finalizzato la rivoluzione, il cambio in panchina Sarri-Ancelotti non è coinciso con una radicale trasformazione della rosa, probabilmente il presidente e i suoi collaboratori hanno pensato di non rischiare, di andare sul sicuro, hanno creduto che i grandi giocatori già in casa sarebbero riusciti a voltare pagina, ad aprire subito un ciclo nuovo, diverso. Lo stesso Ancelotti, almeno finora, ha avuto il demerito di attuare un modello tattico – e culturale – che voleva allentare le richieste nei confronti dei calciatori, che voleva esaltarli rendendoli più liberi, quando invece il vissuto di quegli stessi calciatori evidenziava esigenze diverse. Il fulcro di tutto, però, restano proprio loro, i giocatori, gli uomini simbolo della squadra azzurra negli ultimi anni: Koulibaly, Allan, Callejón, Mertens e Insigne hanno trovato, a Napoli e nel Napoli, una comfort zone tecnica ed emotiva in cui valorizzarsi, in cui esercitare la loro influenza, favoriti anche dal grande lavoro di campo svolto da Sarri nei suoi tre anni da allenatore. Quando il Napoli ha voluto da loro un ulteriore salto di qualità, quando gli è stato chiesto e/o imposto di uscire dalla loro bolla – una bolla che, in ogni caso, non ha prodotto un grande successo nazionale o internazionale –, non sono risultati abbastanza pronti, abbastanza forti, sul campo e nella testa. Hanno palesato dei limiti, ma questa loro colpa è da condividere con chi ha sbagliato le valutazioni iniziali, con chi non si è accorto che stava per chiudersi un’era, e allora forse la scelta più giusta da fare era bruciare la foresta, tutta la foresta. E ricominciare da zero.