Il ritorno

Mourinho riparte dal Tottenham, ma per vincere questa sfida dovrà cambiare se stesso.

In un articolo pubblicato da The Athletic all’indomani dell’avvicendamento tra Pochettino e Mourinho sulla panchina del Tottenham, ci sono diverse dichiarazioni – attribuite a fonti interne del club londinese – che raccontano lo scollamento tra il manager argentino, i giocatori, l’intero ambiente degli Spurs: le parole sono eloquenti, per esempio «l’esonero è stata l’unica scelta sensata, c’erano insofferenza e stanchezza», oppure «Mauricio ha tenuto il broncio fino al licenziamento», o anche «non è mai stato caloroso nei rapporti con i calciatori, ma quest’anno la situazione è peggiorata, era come se durante gli allenamenti tutti volessero sfuggire ai suoi occhi».

Guardandola da questa prospettiva, la scelta di cambiare allenatore e di assumere proprio Mourinho è assolutamente perfetta: José è stato un grande innovatore per quanto riguarda i metodi di lavoro quotidiani, sul campo di allenamento, ma soprattutto ha saputo costruire un rapporto simbiotico con i suoi giocatori e i suoi tifosi, ha praticamente inventato la leadership dell’allenatore per come la intendiamo nell’era contemporanea, ha esaltato la parte emotiva del suo ruolo, accentrando su di sé le attenzioni dei media e degli avversari, caricando di significati e di comportamenti anche controversi tutte le sue manifestazioni pubbliche. Insomma, se il Tottenham aveva intenzione di far ripartire il suo progetto sulla base di una nuova identificazione tra un nuovo uomo-guida e tutti gli altri reparti del club, José Mourinho è il manager giusto. Non a caso, le uniche società in cui non ha lasciato un grande ricordo di sé sono il Real Madrid e il Manchester United, ovvero quelle in cui non è riuscito e/o non ha potuto affermarsi come sovrano assoluto, come una personalità quasi metafisica, da seguire in maniera fideistica in lunghe e complicate battaglie contro il resto del mondo.

Il Tottenham è la nona squadra allenata da José Mourinho nella sua carriera da allenatore, iniziata nel 2000; da tecnico in prima, ha vinto 24 trofei (Mike Hewitt/Getty Images)

Al di là degli aspetti relativi alla sua figura di capo spirituale, l’arrivo di Mourinho al Tottenham genera e alimenta molti dubbi. Il primo riguarda la sua condivisione a lungo termine (ha firmato un contratto fino al 2023) della politica di mercato attuata dagli Spurs. Rory Smith, sul New York Times, ha scritto: «Il Tottenham ha dei tetti di spesa che raramente vengono superati dalla dirigenza, inoltre il presidente Levy è considerato un negoziatore ostinato, un soggetto con cui è molto difficile dialogare e trattare, quindi è più difficile che il suo club concluda delle grandi operazioni». I dati confermano questa considerazione: da gennaio 2018 a giugno 2019, il Tottenham ha concluso un solo affare in entrata e/o in uscita, la cessione di Mousa Dembélé al Guangzhou R&F. Nell’ultima sessione è stato effettuato un restyiling parziale della rosa, sono arrivati Ndombélé, Sessegnon e Lo Celso, mentre sono andati via solo Trippier e Llorente. Certo, l’atteggiamento conservativo degli ultimi anni è stato dettato anche dalle contingenze, il Tottenham doveva sostenere l’investimento per il nuovo stadio – la cui costruzione ha avuto un costo complessivo di circa un miliardo di sterline –, quindi le cose potrebbero anche cambiare. È difficile, però, pensare a uno stravolgimento totale della strategia di reclutamento, e forse le prime parole di Mourinho come nuovo manager degli Spurs («La qualità della prima squadra e dell’Academy del Tottenham mi entusiasma, lavorare con questi giocatori è ciò che mi ha spinto ad accettare la proposta») vanno lette come un’apertura in questo senso.

Mourinho è evidentemente consapevole che le ultime versioni di sé non sono, non possono essere compatibili con il Tottenham. Il tecnico portoghese dovrà abbandonare la sua retorica sull’importanza del mercato, sui risultati commisurati al valore economico della rosa, piuttosto dovrà riattivare alcune qualità che hanno caratterizzato i primi anni della sua carriera: la capacità di far rendere i calciatori oltre le loro doti reali, di costruire un sistema tattico che esalti i punti di forza e nasconda le debolezze strutturali della rosa a sua disposizione. Anche in relazione a questo aspetto, il Tottenham non sembra essere una squadra perfettamente calibrata sulla filosofia di Mourinho: negli anni Dieci, soprattutto durante la sua esperienza al Manchester United, il portoghese ha dimostrato di essere diventato «come uno di quegli “allenatori poeti” che ha spesso dileggiato perché troppo legati ai loro ideali per vedere la realtà, solo che i suoi ideali non sono fatti di vertiginose azioni offensive e ragnatele di passaggi, bensì di opportunismo e resilienza» (Jonathan Wilson, sul Guardian). Ecco, questo tipo di approccio tattico non sembra essere il più adatto per una squadra con valori sbilanciati, in cui i giocatori creativi (Eriksen, Alli, Lo Celso, Lucas Moura) e/o offensivi (Kane, Heung-min Son) sono più forti e più riconoscibili rispetto a quelli del reparto difensivo.

Il discorso, però, non si limita a un’ipotetica e idealistica contrapposizione culturale tra calcio speculativo e proattivo, a un possibile rigetto dei giocatori del Tottenham, oppure dello stesso Mourinho. È una questione diversa, riguarda le priorità che guidano e indirizzano il lavoro: fino a ieri l’identità tattica degli Spurs è stata costruita e alimentata da Pochettino perché potesse essere rappresentativa del club, in pratica il gioco praticato in campo era esso stesso il brand del Tottenham, e molto spesso sono stati proprio i calciatori a spiegare come la loro decisione di non lasciare la squadra fosse da attribuire alla continuità assicurata dalla presenza del tecnico argentino – Kane ed Eriksen, tra gli altri, si sono espressi in questi termini. Anzi, non è da escludere che proprio l’eccessiva ricerca della perfezione del gioco partendo dal campo di allenamento, della crescita interna al club, tra l’altro senza alcun riconoscimento tangibile in fatto di trofei, abbia contribuito all’implosione del progetto di Pochettino e dei suoi significati. Mourinho saprà certamente generare stimoli nuovi e diversi per i giocatori, ma è fin troppo avventuroso pensare che il Tottenham possa essere gestito senza inventare o anche solo individuare una formula tattica ricercata, ambiziosa. Non che il manager portoghese non sia in grado di farlo, solo che negli ultimi anni ha dato la sensazione di essersi concentrato su altri aspetti del proprio lavoro e della propria figura, piuttosto che sull’adattamento della sua filosofia all’evoluzione del gioco.

La sua ultima esperienza in panchina, al Manchester Unitedl, si è conclusa il 18 dicembre 2018: in due anni e mezzo a Old Trafford, ha messo insieme 50 vittorie, 26 pareggi e 17 sconfitte in 93 partite (Oli Scarff/AFP/Getty Images)

È paradossale, eppure l’arrivo di Mourinho al Tottenham deve essere considerato come l’inizio di un percorso di avvicinamento tra le due parti, e l’obiettivo finale è rendere naturale una scelta che non sembra esserlo, per tante motivazioni. Tutti dovranno negoziare, tutti dovranno rinunciare a qualcosa: Mourinho dovrà modificare radicalmente il suo approccio al lavoro, anche se è francamente difficile pensare che proprio lui, proprio ora, all’imbrunire di una carriera che resta comunque eccellente, possa riuscire a farlo, magari diventando un allenatore diverso, un uomo del fare più che un condottiero di anime, uno stratega che lavora soprattutto sul campo.

È più probabile che sarà Mourinho a fagocitare il Tottenham, di certo proverà a farlo, proverà a portare i suoi nuovi discepoli dentro il suo mondo, un mondo in cui il lavoro sulla mente e nella mente degli uomini-calciatori deve determinare l’impegno sul campo, il miglioramento del gioco e del rendimento, la materializzazione dei risultati. Non sempre ha funzionato, sarà divertente verificare se potrà funzionare ancora, in un contesto decisamente diverso dal solito.