Adesso provate a fermare il Flamengo

È stato il trionfo di Jorge Jesus e Gabigol, uomini simbolo di un progetto serio e ambizioso.

«Scegliere il Sudamerica ha significato mettermi tutti contro, dalla famiglia agli amici. Perfino il mio agente mi ha chiesto se non fossi matto a trasferirmi in un continente dove esonerano un allenatore a settimana». Sono le parole con cui Jorge Jesus ha esordito davanti alle telecamere di Espn, le più rapide nel catturare gli attimi immediatamente successivi al fischio finale di Flamengo-River Plate, la finale di Copa Libertadores vinta in maniera rocambolesca dalla squadra rubronegra. Il tecnico portoghese, visibilmente emozionato, ha forse per la prima volta in carriera messo completamente a nudo il proprio personaggio, famoso principalmente per gli atteggiamenti burberi e volutamente provocatori verso tutto ciò che lo circonda. Eppure, almeno in questa occasione, le circostanze non gli hanno lasciato scelta: il successo arrivato nella magica notte dell’Estadio Monumental di Lima ha permesso al Flamengo di tornare sul tetto del continente a 38 anni di distanza dall’ultima (e unica) volta, ma soprattutto ha proiettato il portoghese nel gotha del calcio sudamericano, rendendolo il secondo allenatore europeo a trionfare in questa manifestazione dopo il serbo Mirko Jozić. Era infatti dal 1981 che il Mengão non riusciva a ritagliarsi uno spazio così importante a livello internazionale: a quei tempi fu Zico, che qualche anno dopo si trasferirà in Italia per giocare con l’Udinese, a trascinare il Fla al successo, dominando (quasi) da solo la finale contro il Cobreloa.

Il successo del Flamengo ha basi solide, nasce da un progetto ben delineato, frutto della pianificazione attenta e meticolosa di una delle società più ricche dell’intero Sudamerica. Jorge Jesus rappresenta la pietra angolare del progetto di cui sopra, il punto di riferimento dal quale tutto è partito. Anzi, il termine giusto da utilizzare è “ripartito”, perché pur avendo costruito una rosa dalle grandissime qualità, la dirigenza carioca ha vissuto un momento di preoccupante impasse nei primi sei mesi del 2019. Le ultime due campagne acquisti – quelle che, per intenderci, hanno portato al Maracanã due pezzi da novanta come Georgian De Arrascaeta e Gerson, per un investimento totale di 25 milioni di euro circa – sono state faraoniche, eppure la squadra faticava a esprimersi, vinceva le partite soprattutto grazie alle fiammate dei singoli. Serviva qualcuno che potesse veicolare tutta quella classe e quelle potenzialità inesplose, uno come l’ex allenatore di Benfica e Sporting, appunto, che a metà giugno ha deciso di lasciare l’Al-Hilal per accettare il difficile incarico in quel di Rio de Janeiro: «Tutti vorrebbero allenare questo club. Al presidente ho detto che, se mi avesse dato retta, avremmo vinto la Libertadores» – ha dichiarato il portoghese in una recente intervista, ripresa dai maggiori media brasiliani.

Diego Alves, Everton Ribeiro e Diego con la Coppa Libertadores: l’ex portiere del Valencia e l’ex juventino sono due dei giocatori del Flamengo con carriera in Europa alle spalle, oltre a loro ci sono anche Filipe Luis, Rafinha e il 26enne difensore spagnolo Pablo Marí, di proprietà del Manchester City dal 2016 al 2019 (Manuel Velasquez/Getty Images)

Cinque mesi dopo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: oltre ad aver mantenuto la promessa, Jorge Jesus ha regalato alla società anche il Brasileirão, archiviando così il file di questa stagione nella cartella delle annate indimenticabili. Lo strapotere del Flamengo non è solo testimoniato dal fatto che siano arrivate due vittorie così importanti a poche ore una dall’altra, ma anche dal modo in cui la squadra è stata in grado di raggiungerle: se in Libertadores – dopo una prima fase balbettante – i rubronegros hanno fatto percorso netto dagli ottavi in poi (unica eccezione, la sconfitta di Guayaquil contro l’Emelec), in campionato la squadra ha rimontato più di venti punti all’ex capolista Palmeiras, laureandosi campione con un mese di anticipo. Il tutto passando per una proposta di gioco efficace ed esteticamente godibile, dalla chiara vocazione offensiva, improntata principalmente sul possesso palla (in campionato sono stati registrati picchi del 70%), sullo sfruttamento delle catene laterali e sulle capacità di interscambio dei vari interpreti negli ultimi venti metri di campo. Queste ultime situazioni sono due dei pezzi forti del calcio marchiato Jorge Jesus, bravissimo a trasmettere ai suoi nuovi calciatori le grandi esperienze maturate in Portogallo.

Oltre alle sue doti tecniche, Jorge Jesus è sempre stato un provocatore, il suo personaggio è sempre stato gestito e alimentato con dichiarazioni borderline, comportamenti controversi. Non è un caso che l’ex allenatore del Benfica e dello Sporting Lisbona – nell’estate 2015, il passaggio da una squadra all’altra della capitale fece scandalo in terra lusitana – abbia deciso di incendiare anche l’immediata vigilia della finale di Libertadores, mettendo pressione ai propri avversari: «Loro sono più forti, lo dice la storia recente», ha dichiarato in conferenza stampa, «ma devono sapere che non saranno mai i più grandi. Al mondo solo Real Madrid, Barcellona, Boca Juniors e Flamengo possono dire di esserlo». Difficile dire se queste parole abbiano colto nel segno, di certo c’è però che il Flamengo ha vinto il peggior match giocato all’interno di un’interminabile striscia di imbattibilità lunga 27 partite. Miglior attacco di tutto il Sudamerica, una difesa blindata grazie agli innesti della scorsa estate e un calcio fluido, impostato su movimenti e sovrapposizioni continue volte a sparigliare le carte tra le linee avversarie. La partita manifesto della sua gestione, quella che descrive al meglio le idee del santone lusitano, è senza dubbio l’andata dei quarti di finale di Libertadores contro l’Internacional di Porto Alegre, un match che non solo ha consacrato la figura di Bruno Henrique, eletto poi miglior giocatore della Copa, ma anche portato definitivamente alla ribalta il grado di maturazione raggiunto da Gabriel Barbosa.

Se Jorge Jesus è lo stratega, la mente che si cela dietro a questa grande impresa, Gabigol rappresenta senza dubbio il braccio armato di un Flamengo inarrestabile. Nell’anno solare 2019, l’ex centravanti dell’Inter ha già toccato quota 44 gol segnati e punta a fare cifra tonda nelle prossime partite. La sua rinascita fa sfregare le mani a Suning, che adesso può pensare di monetizzare a dovere il suo cartellino, ma soprattutto restituisce al calcio mondiale un talento che, fino a un anno fa, si pensava di aver perso definitivamente. Rispetto ai tempi del suo approdo in Europa, Gabigol è migliorato particolarmente dal punto di vista tattico, mostrando una crescita tutt’altro che scontata, nella quale Jorge Jesus ha avuto il ruolo decisivo: «Il mister è un personaggio speciale», ha spiegato il centravanti, «lavora molto sulla componente mentale: grazie ai suoi consigli ho capito come muovermi meglio in campo e sfruttare le mie capacità».

Grazie alle vittorie in Copa Libertadores e Brasilerão, Jorge Jesus è arrivato a 16 trofei conquistati nella carriera da allenatore (Daniel Apuy/Getty Images)

Proprio contro l’Internacional si sono visti i risultati di tale cura: in occasione del secondo gol di Bruno Henrique, Gabigol si abbassa sulla trequarti per ricevere un passaggio e poi, quasi senza guardare, trova l’imbucata perfetta per il compagno. Nel Flamengo, il classe 1996 parte nella posizione di punta centrale, ma ha la totale libertà di muoversi e galleggiare tra le linee o largo a destra, posizione occupata agli inizi di carriera al Santos. La sua intesa con gli altri elementi offensivi è totale, ma soprattutto reciproca: se Gabriel Barbosa ha beneficiato della presenza di tre compagni votati principalmente al sacrificio, lo stesso si può dire di ognuno degli attaccanti di questo Flamengo.

Le motivazioni e la condivisione emotiva di obiettivi importanti sono gli strumenti maggiormente utilizzati da Jorge Jesus per fare leva su ogni singolo componente della rosa; le prime, per esempio, hanno permesso a Georgian De Arrascaeta di tornare a giocare su alti livelli dopo un periodo negativo, cominciato in seguito a Russia 2018, mentre lo stesso Bruno Henrique – scaricato dal Santos per pochi spiccioli dopo un’esperienza tutt’altro che memorabile al Wolfsburg – ha disegnato la miglior stagione in carriera e, attualmente, segue a ruota Gabigol nella classifica cannonieri del Brasileirão.

La torcida del Flamengo festeggia il trionfo in Copa Libertadores: oltre alla finale vinta nel 1981, il maggior successo del club brasiliano nella massima competizione subcontinentale sono le semifinali raggiunte nel 1982 e nel 1984 (Daniel Ramalho/AFP via Getty Images)

Pensare in grande invece ha convinto diversi pezzi grossi a lasciare l’Europa, accettando un campionato in decadenza e un contesto minore, seppure blasonato. L’arrivo di Rafinha e Filipe Luis ha contribuito in maniera sensibile ad innalzare ulteriormente il valore di una squadra già molto forte di suo, aggiungendo qualità nelle uniche due zone di campo dove c’era veramente bisogno di alzare il livello. Nel 4-2-3-1 di Jorge Jesus ha trovato spazio perfino Gerson, un centrocampista troppo lento per i ritmi europei, ma anche un elemento associativo di eccellente utilità, il leader di quella mediana nella quale si sta mettendo in mostra come autentico catalizzatore di palloni.

I rubronegros oggi sono un puzzle nel quale tutti i pezzi si incastrano a memoria. Manca solo un tassello, la vittoria del Mondiale per Club, manifestazione che Gabigol e compagni andranno a giocarsi nel mese di dicembre in Qatar. La speranza è quella di arrivare in finale e, magari, giocarsi il titolo contro il Liverpool ,proprio come nel 1981, quando a Tokyo l’allora compagine allenata dal grande Paulo César Carpegiani vinse 3-0, trascinata dalla doppietta del bomber Nunes e dalle giocate di stelle mondiali del calibro di Zico e Léo Junior. Corsi e ricorsi storici per la squadra più tifata al mondo che, dopo aver riconquistato il Sudamerica, ha deciso di non porsi limiti.